Koinonia Luglio 2021


LA FEDE DI ABRAMO (IV)

Dal Mòria al Gòlgota

 

Dunque alla fine Isacco nacque davvero. Immaginiamo che risero entrambi di gusto in cuor loro, Abramo e Sara, come davanti a chi la spara grossa, quando Dio gli preannunciò quell’impossibile nascita, Ed ora ecco, davvero, potevano stringere tra le braccia molto più di quello che avrebbero potuto immaginare e desiderare. Gli sarà sembrato di sognare. “‘Motivo di lieto riso mi ha dato Dio – disse Sara, - chiunque lo saprà riderà lietamente di me!’. Poi disse: ‘Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!’” (Gen 21,6-7).

Era ancora forestiero Abramo in quella terra promessa, è vero, ma vi aveva già acquistato un pozzo, offrendo sette agnelle di propria mano ad Abimèlech, possedendone così già una piccola porzione. E vi stavano tutto sommato bene: “Abramo piantò un tamerisco a Bersabea, e lì invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità” (Gen 21, 22-34). Come dire: questo mi basta, già mi va bene, i conti in qualche modo tornano ormai, Dio ha finalmente mantenuto in qualche modo la sua promessa, così posso aspettare la sazietà dei giorni e morire.

E invece eccolo spiazzato di brutto da un improvviso: “Abramo, Abramo!”. L’entrata è brusca, concitata, come quando si riceve una notizia urgente o ti sta per crollare la casa addosso e tutti devono fuggire. La  voce è potente, è quella di Dio, e ad Abramo non resta che dire, con cuore pronto e fedele: “Eccomi!” (Gen 22,1). La sensazione che si ha in questo incipit è quella di un dramma che inizia. È come se Dio a un certo punto cominci ad alzare la posta, a entrare in un gioco molto pesante con Abramo. È come se Dio avesse detto: la prova non è solo per Abramo, è anche per me questa volta, da come risponderà quest’uomo dipenderanno molte cose, fino alla fine dei giorni dell’umanità. Per l’ebraismo ciò che è accaduto sul Moria è fonte di intercessione e di salvezza di generazione in generazione. Dio guarda Abramo avendo a cuore tutta l’umanità della terra e della storia, dal principio alla fine.

Dire che il comando sia assurdo e orrendo è dire poco: a quell’uomo Dio ordina di prendere suo figlio Isacco e di offrirlo in olocausto su un monte che gli sarà indicato per via. La prima cosa che avremmo fatto sarebbe stata quella di verificare se fosse davvero di Dio quella voce. Ci si poteva infatti sbagliare, a parlare avrebbe potuto essere anche Satana, la tradizione ebraica ha messo in conto anche questa possibilità. Ma Abramo non batte ciglio, egli è sicuro che sia il suo Dio. Leszek Kolakowski dice che quell’uomo “aveva dei mezzi di verifica assolutamente attendibili per accertare un ordine ricevuto dal suo Creatore”, mezzi che noi non abbiamo più da tempo (La chiave del cielo).

Dal momento che è Dio ad averlo ordinato Abramo si alza di buon mattino. Avrà dormito? Sara dormiva accanto a lui, non avrà pensato di svegliarla o di parlarle prima di coricarsi? Sara era la madre del ragazzo, come si fa a non dirle nulla di quell’ordine dall’alto? No, Abramo sembra avere dormito un sonno tranquillo e cominciato la sua giornata con idee molto chiare: sella l’asino, prende con sé due servi e il figlio Isacco, spacca la legna per bruciare la vittima e si mette in viaggio alla testa del gruppetto. Per tre giorni camminano. Avranno parlato? E di cosa? Il testo non ci dice nulla. Dice soltanto che il terzo giorno Abramo improvvisamente si ferma, alza gli occhi e da lontano vede “quel luogo”. Non c’è voce dall’alto a dirlo, ma Abramo deve avere capito al volo, deve avere annusato nell’aria che era quello il monte che Dio intendeva. Per i servi e l’asino il cammino è terminato: che aspettino lì, lui e suo figlio continueranno da soli il cammino in salita, ma torneranno presto, sarà questione di poco. Mentiva Abramo dicendo: “io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi” (Gen 22,5)? Forse Abramo sapeva di fingere obbedienza per ritirarsi all’ultimo momento? Oppure perché, come sembra alludere la Lettera agli Ebrei, egli pensava “che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (11,19)? Molto si è discusso su questo.

Durante la salita chi porta il carico della legna non è Abramo ma Isacco, è sulle spalle del giovane che va il peso portato fin lì dall’asino, Abramo è molto anziano e a lui già basta e avanza il peso tremendo del fuoco e del coltello. In salita poi, soprattutto se si ha del peso da portare, si va piano e questa volta è Isacco a rompere il silenzio per dire la sua: “Padre mio!”. Rispose Abramo: “Eccomi, figlio mio”. La stessa prontezza del primo “Eccomi!”, anche se questa volta è il figlio non Dio a chiamarlo. “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. La domanda va al nocciolo della questione, gli occhi del ragazzo vanno sul coltello che il padre impugna. Avrà avuto un qualche sospetto Isacco? E non avrà tremato suo padre nel rispondere? Pare di no, si respira serenità e fiducia in quel: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!” (Gen 22,7). Si potrebbe quasi dire che qui Isacco si fida di suo padre come suo padre si fida di Dio.

Il discorso si ferma lì, ora sembrano entrambi convinti, entrambi decisi ad aspettarsi tutto da Dio, ma attraverso la disponibilità a rinunciare a tutto ciò che hanno di più caro: l’uno la vita, e l’altro il proprio amato figlio, il figlio della promessa. Qui padre e figlio diventano uno, il dolore dell’uno è il dolore dell’altro. Se è doloroso essere uccisi, molto di più lo è quando a farlo è la mano del proprio padre. Ma anche il dolore di un padre non è da meno quando un figlio che ama più di se stesso muore, quando, soprattutto, è lui che deve ucciderlo. Lo dice bene Kierkegaard: “Abramo ama Isacco con tutta l’anima, e quando Dio glielo domanda egli lo ama, se fosse possibile, ancora di più e solo così egli può farne il sacrificio” (Timore e tremore).

Certo non possiamo leggere quell’episodio con occhi soltanto moderni, il sacrificio del primogenito era frequente nel mondo intorno a Israele fino all’epoca dei profeti. Ciò che è singolare in questa vicenda è semmai il contenuto: qui non c’è una semplice “usanza” - dice Mircea Eliade - ma “un atto di fede. Abramo non capisce perché gli è richiesto questo sacrificio e tuttavia lo compie poiché glielo chiede il Signore. Con questo atto, in apparenza assurdo, Abramo fonda una nuova esperienza religiosa, la fede… Dio si rivela come personale, come un’esistenza ‘totalmente distinta’ che ordina, gratifica, domanda senza nessuna giustificazione razionale (cioè generale e prevedibile), e per il quale tutto è possibile. Questa nuova dimensione religiosa rende possibile la ‘fede’ nel senso giudeo-cristiano”. (Il mito dell’eterno ritorno).

Raggiunta la cima Abramo costruisce l’altare, colloca la legna, lega il figlio Isacco e lo depone sull’altare, sopra la legna. Ma non era forse Isacco un giovanotto robusto per portare su tutto quel carico? E perché adesso si fa legare e sbattere lì sopra come un muto agnellino? Anche lui è d’accordo forse? Ha capito tutto Isacco, ha già ingoiato il fondo dell’amaro calice, anch’egli si sente nelle mani di Dio oltre che nelle mani di suo padre? Certamente Isacco sapeva di poter finire scannato dalla lama del coltello, ma sperava con tutte le forze che ciò non avvenisse, che all’ultimo istante intervenisse qualcuno a fermare la mano di quell’uomo fedele fino all’assurdo.

Abramo non scherza, e la stende quella mano verso il coltello, è pronto a tutto, può andare decisamente fino in fondo, Dio lo sa, tutto gli è chiaro ormai. Non resta dunque che agire immediatamente col contrordine: “Abramo, Abramo!”, stessa voce dei tre giorni precedenti e stessa risposta: “Eccomi!”(Gen 22,11). Il cerchio si chiude. Isacco è salvo. Il secondo comando divino annullava così il primo; come dire: mai più nessuno pensi a un Dio che vuole la morte dei primogeniti. Come entrambi speravano, Dio stesso provvederà l’agnello. Ma non sarà semplicemente quell’“ariete” che stava là, sul Moria, “con le corna impigliate in un cespuglio” (Gen 22,13).

Dio sa che d’ora innanzi egli stesso dovrà provvedere a ben due cose, all’agnello e alla risurrezione dei morti: troppi figli infatti, e figli innocenti, sono costretti a morire nella storia, sotto troppe lame di coltello, tra le grinfie di un male che sembra non avere limiti. Occorrerà rimediare. Ed è stata la fede di Abramo, il sommovimento dei cuori che in quegli attimi ha unito padre e figlio, Abramo e Isacco, sommovimenti in cui amore, morte e vita s’intrecciavano con la carne e il sangue umano che, pur muti, gridavano, invocavano mettendo, per così dire, Dio alle corde.

Ora quella carne e quel sangue chiamavano direttamente in causa Dio, le promesse di Dio,il Dio che di fronte a quel padre e quel figlio così giusti, così fedeli, non avrebbe più potuto tirarsi indietro. D’ora innanzi quel Dio non sarebbe stato semplicemente Dio, ma “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6; Mt 22,32). Sì, Dio anche del figlio di Isacco, colui che si chiamerà Israele, oltre che Giacobbe, perché lotterà come una furia per una notte intera con Dio fino a spuntarla (Gen 32,23-33). Il patto va rispettato, le promesse vanno mantenute, fino a versare il proprio sangue se è necessario: che in Isacco avrebbe avuto una discendenza numerosa come le stelle in cielo non era promessa che si era inventata da sé. È come se Abramo avesse detto in cuor suo a Dio: ecco, io ora scanno mio figlio, come mi dici, perché tutto viene da te, ma in forza della tua promessa io credo e attendo che tu allora lo farai risorgere dai morti dopo morto.

“La fede – dice Lutero – può unire cose che sul momento sono in contraddizione …, e la sua forza consiste nel fatto che scanna la morte”. Abramo pronto con la sua fede a scannare Isacco, ha fatto in modo che Dio si decidesse finalmente ad ammazzare la morte. Abramo non fugge, ma avanza, in silenzio, seguendo  la parola del suo Dio e Dio, da parte sua,  dovrà seguire ora le orme di quell’uomo di granitica fede. Abramo crede le cose impossibili, le spera con tutte le sue forze e Dio non può che ascoltarne i fremiti cercando di corrispondervi. Abramo e Isacco hanno saputo guardare in faccia la morte senza soccombere, a sostenerli era la fede e la disponibilità a compiere soltanto la volontà di Dio. “Venga il tuo regno, / sia fatta la tua volontà”, al “Padre nostro” (Mt 6,9-10) quei due glielo dicevano anche soltanto col respiro, mentre camminavano per giorni verso la montagna: essi erano pronti a morire, a rinunciare a tutto, continuando tuttavia a restare fiduciosi davanti al loro Dio.

Il Talmud legge nel cuore di Abramo l’affetto per tutta la sua discendenza. Nel momento in cui giunse a fermargli la mano col coltello Abramo avrebbe detto a Dio: “Adesso vuoi che mi fermi. Non lo farò. Continuerò. Mi desti un ordine, ora lo compierò, a meno che…”. Ora è Abramo che tiene in pugno Dio. “Ascolta, se vuoi che mi fermi e salvi mio figlio, promettimi che ogni qual volta i miei figli avranno bisogno di te e ti invocheranno, risponderai”.

Kazoh Kitamori ha parlato di Abramo come “modello per il servizio al dolore di Dio”, non soltanto dunque padre della fede ma anche colui che serve, soprattutto durante il sacrificio di Isacco, il dolore di Dio. Dolore chiamava dolore: è un Dio in pena colui che chiama Abramo a offrire Isacco. Servire il dolore di Dio mediante il dolore è “seguire il Signore della croce prendendo su di sé la croce… Servire al dolore di Dio mediante il proprio dolore: questa è la vera natura del gesto di Abramo” (Teologia del dolore di Dio).

Nel cuore di Abramo e di Isacco forse vibravano le stesse parole che quasi duemila anni dopo scriveva Paolo alla comunità cristiana di Roma: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31). Simili parole dirà Giobbe: tutto viene da Dio, Dio ha dato e Dio toglie, nudi uscimmo e nudi torneremo, tutto è nelle mani di Dio. Ma se alle mani di Dio le cose sfuggono e a pagare sono le sue creature che succede? Se Giobbe soffre ingiustamente e oltre misura, fino a gridare verso il cielo la sua protesta, come si comporterà Dio? Insomma, se c’è da pagare chi paga? La posta in gioco è alta, fin dall’inizio, fino a diventare questione di vita e di morte.

 

I cristiani sanno che il Dio di Abramo un giorno ha mandato il proprio Figlio nel mondo per salvare il mondo. Che il Padre e il Figlio erano una cosa sola, nella carne e nel dolore. Che a un certo punto quel Figlio muore, e che in quella morte si sono potuti aprire nuovi sentieri di speranza. Come dice Paolo, continuando a scrivere la sua lettera, “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Rm 8,31-32).

Ma la domanda che ci sorge spontanea è questa. Perché mentre sul Mòria qualcuno ha fermato la mano del Padre, sul Gòlgota non ci fu anima viva a farlo? Ma chi avrebbe potuto fermare la mano del Padre di fronte a Gesù che gridava come un agnello: ‘Non voglio morire!’, chi? Noi, tutti noi figli di Abramo, ognuno di noi avrebbe potuto e dovuto. Ma non lo abbiamo fatto. Abbiamo preferito, come Caifa, che fosse lui a morire al nostro posto per salvarci. Dio ha mantenuto la sua promessa: ha provveduto a trovare l’Agnello, a farlo salire sul monte col legno sulle spalle, ma nessuno c’è stato a fermare la mano del Padre, a impedirne il sacrificio. Di questo, almeno, dovremmo affliggerci ogni volta che pensiamo alle due storie, quella sul Mòria e quella sul Gòlgota, ogni volta che ci accostiamo all’altare dell’Eucaristia soprattutto.

È vero, l’ultima parola non l’ha avuta la morte, Gesù è risorto, proprio come Abramo era giunto a sperare nel caso in cui Isacco fosse morto. Ma la risurrezione di Gesù non avrebbe senso senza la risurrezione di tutti i morti, a cominciare da Abramo e Isacco, che comunque sono morti e ancora attendono. Ma riusciamo ad attendere ancora, desiderandolo con tutte le forze, di vedere “Abramo, Isacc o e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio”, di stare seduti a tavola con loro e con Dio (Lc 13,28)? Giacché questa, non altra, è la fede che viene da Abramo, il quale ancora aspetta di ricevere in proprietà la terra che Dio gli aveva promesso, e che otterrà – come ci ricorda Ireneo di Lione – “insieme con la sua discendenza, cioè quelli che temono Dio e credono in Lui, nella risurrezione dei giusti” (Contro le eresie V, 32,2).

 

Daniele Garota

(4. fine)

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