Koinonia Luglio 2019


UNA SFIDA DA RACCOGLIERE

 

“La sfida al rinnovamento e all’azione che abbiamo qui incominciato è indirizzata alla chiesa. Ma questo non significa che riguardi solo i leaders della chiesa. La sfida della fede e del nostro kairòs attuale riguarda tutti quelli che portano il nome di cristiani. Nessuno di noi può semplicemente starsene tranquillo e aspettare che gli venga detto quello che c’è da fare da parte dei nostri leaders cristiani e da chiunque altro. Dobbiamo tutti accettare la responsabilità di agire e vivere in base alla nostra fede cristiana in queste situazioni. Preghiamo che Dio aiuti tutti noi a tradurre in azione la sfida del nostro tempo”.

Queste parole si leggono nel “Documento Kairòs - Lettura teologica della crisi in Sudafrica - Sfida alla chiesa”, che ha ispirato qualcosa di analogo per quanto riguarda il nostro Paese  in termini appunto di Kairòs-Italia. Certamente non siamo nella situazione tragica di apartheid che ha provocato l’iniziativa sudafricana, ma è anche vero che essa, oltre alla sua efficacia storica, ha acquisito un valore emblematico. Al di là della tragedia umana che l’ha provocato, il documento ha messo in rilievo i tratti costitutivi di una chiesa profetica, quale sarebbe bene riemergesse dentro il Popolo di Dio che è in Italia: da una situazione di appiattimento e di tiepidezza, di sicurezza e di rassegnazione, di smarrimento e di rinuncia, certamente non meno preoccupanti e forse più insidiose. C’è infatti in gioco la testimonianza viva di una chiesa che accetti la sfida a cui è esposta e che non si limiti a documenti di denuncia o di pronunciamento dottrinale, ma si renda parte in causa nel suo apporto specifico, senza invadenze o supplenze di sorta.

Di fatto, noi ci sentiamo al sicuro in una chiesa proiettata all’esterno - “in uscita” appunto - pronta a dire, a dare e a fare tutto per il bene del Paese, come se fosse ormai la faccia pubblica unica di tutta la chiesa (quella, per intendersi, pubblicizzata per l’8x1000). A parte la chiesa dormiente dei “praticanti”, che sarebbe da risvegliare, c’è il fatto che anche i “cattolici del Vaticano II” sembrano avere ottenuto ormai diritto di cittadinanza a prezzo del proprio  mordente. Infatti, “per molto tempo, i cosiddetti ‘cattolici del Vaticano II’ non poterono sempre contare sui loro vescovi. Si basavano invece su leader culturali e politici che incarnavano un chiaro, anche se spesso silente, dissenso dalle gerarchie. Ora, perfino malgrado la grave crisi di autorità dei vescovi a causa degli abusi sessuali del clero, questi cattolici non hanno altri leader visibili se non i vescovi nominati da Francesco e quelli manifestamente leali a lui” (Massimo Faggioli, ll deserto politico del cattolicesimo locale al tempo di papa Francesco in “international.la-croix.com” del 2 luglio 2019  - traduzione: www.finesettimana.org).

Ma in questo sdoganamento tardivo dei ‘cattolici del Vaticano II’ non manca una insidia: quella di venire omologati fino a svendere la propria primogenitura, e cioè il carisma innovativo di cui erano portatori. Ci dice Severino Dianich in un articolo riportato di seguito: “Oggi l’influenza che la predicazione cristiana esercita sugli   orientamenti morali e politici della società non è più quella di altri tempi. Ma degli orientamenti politici di coloro che partecipano alla vita delle nostre comunità, l’azione pastorale della Chiesa porta la responsabilità” (Incoerenza tra vita di fede dei credenti e scelte politiche,  in “Vita Pastorale” del luglio 2019).  Dopo l’epoca della dottrina sociale, la stagione conciliare del dialogo e dopo gli anni dei “principi non negoziabili”, ora sembra che la Chiesa manchi di punti di confronto politici, per cui potrebbe essere tentata di mettersi in proprio con ruolo di supplenza, rischiando sbilanciamenti unilaterali a sfondo socio-umanitario, dove l’ispirazione evangelica è al tempo stesso veritiera ed ingannevole. 

D’altra parte, si ha l’impressione di una chiesa in battaglia per una guerra condotta da generali e da quadri, ma senza popolo e senza esercito, per cui appare vincente nelle sue posizioni ma in crisi nel suo stesso assetto interno. È possibile fare appello a-priori al vangelo per comportamenti e scelte umanitarie, senza un retroterra di vita e pratica evangelica da cui dovrebbero nascere? Il corpo ecclesiale di matrice religiosa tradizionale è in grado di esprimere scelte di questo tipo in linea con la propria fede? È possibile insomma volere una chiesa “ospedale da campo” - per intendersi - che non sia al tempo stesso espressione di una chiesa luogo o sacramento di salvezza? Che sia prima di tutto se stessa come luogo di fede nel mondo, invece di accreditarsi diversamente agli occhi del mondo?

Per evidenziare il senso di questi interrogativi, mi permetto di fare riferimento alla Lettera inviata al Presidente della Repubblica da parte degli insegnanti della Facoltà di Teologia San Luigi di Napoli, certamente frutto della visita e del discorso del Papa in quella sede sulla teologia nel contesto mediterraneo: ma oltre che essere presa di posizione di teologi, è anche una lettera di spessore “teologico”? Nel senso di una “lettura teologica” degli eventi sul terreno di fede vissuta, e finalizzata alla formazione di una coscienza ecclesiale diffusa. In realtà, sotto i tanti proclami dai vari campanili non è difficile trovare chiese deserte, a riprova che spesso si tratta di “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 1,1).  Non basta sentirsi spinti ad intervenire dalle sole parole del Papa o da richiami del Vaticano II, che peraltro rimanderebbero alla responsabilità di formazione e maturazione delle coscienze: operazione di natura non propriamente accademica ma di pastorale riveduta e corretta. Non si parla di “conversione pastorale”?!

Se dunque c’è una sfida per la chiesa, c’è anche una provocazione per la teologia a ripensare se stessa: a non contentarsi di evocare principi generali di ispirazione o di enfatizzare scelte storiche come risolutive: c’è da vivere il travaglio di una fecondità critica ed operativa che dia alle cose le giuste proporzioni e alle coscienze il senso della loro verità. Se siamo alla incomunicabilità tra il magistero autorevole della fede ai vertici e il variegato vissuto dei credenti alla base, è perché manca un criterio unitario di fondo, un principio catalizzatore tra la dottrina della fede e il sensus fidei dei credenti: quella sorta di cantus firmus  o di nota dominante che consenta la necessaria continuità nella vita della chiesa ed eviti  la frammentazione.

È mancata la funzione critica di una teologia che non fosse ad usum delphini e che non si auto-promuovesse a magistero unico e alternativo. Se una teologia vuole ritrovare il suo ruolo di visione globale del mondo della fede, non può non ripensare un suo statuto e dichiararlo, sapendo che essa è trasversale e non settoriale: dovrebbe rappresentare l’aggiornamento della fede della chiesa e mirare alla maturità dei credenti! Quanto di meno avulso o di puramente accademico ci sia! Una teologia, insomma, che nasca dentro la missione e si metta al suo servizio più che in cattedra!

Trovo in proposito queste parole nella intervista al  teologo Michael Seewald sulle possibili riforme nella Chiesa (www.finesettimana.org  del 28 giugno 2019): “Oggi alcuni teologi fanno quasi come se la Chiesa avesse inventato i diritti umani e fosse sempre stata a favore della libertà di coscienza. Questo è grottesco ed è possibile solo se si nasconde la correzione attraverso la dissimulazione dell’innovazione. Un teologo si occupa in maniera critica della Chiesa a cui egli stesso appartiene come credente. Da parte della Chiesa si cerca sempre di imporre alla teologia dei divieti di pensiero e di parola. In questo modo si fa solo un autogol. Mi sorprende sempre che la religione del Logos, come il cristianesimo normalmente si considera, abbia così paura della possibilità della discussione fatta in maniera ragionevole per trovare i migliori argomenti. Proprio nell’essere critica, la teologia svolge la sua missione ecclesiale”. Un autogol potrebbe farlo anche la stessa teologia, se volesse andare sempre sul sicuro e magari giocare sempre in campo neutro evitando inevitabili conflitti in casa!

Tornando al “Documento Kairòs” - che fa da falsariga a tutto questo discorso - esso si presenta come “sfida alla chiesa”, ma al tempo stesso come “Lettura teologica della crisi in Sudafrica”; è chiaro che per fare questo, la teologia deve ritrovare prima di tutto se stessa e diventare prospettiva comune e metodo critico condiviso di discernimento: deve essere “scienza di Dio” prima che scienza applicata ad ogni altro ambito! E qui siamo al punto di tutta la questione: l’ipotesi di lavoro Kairòs-Italia va messa alla prova senza nessuna illusione e ambizione, ma solo come libera proposta  per una consultazione di base, che ci aiuti a far emergere il reale stato delle cose nel rapporto storico e profetico Paese-vangelo: si può andare da esperienze e valutazioni personali ad analisi più approfondite e documentate, a segnalazioni che consentano una visione e presa di coscienza d’insieme al di là di stereotipi. Si tratta di vedere e di dirci come il seme della Parola venga seminato sul terreno di questo Paese e come venga recepito e portato a maturazione! Si tratta di riappropriarsi della parola e della passione di pensiero, che abbiamo troppo facilmente delegato o professionalizzato!

Sono sicuro che ciascuno di noi ha una sua visione di come stanno effettivamente le cose, anche se non è facile esprimerla: ognuno ha la possibilità di offrire un proprio tassello, per ricomporre il mosaico o per far coincidere e mettere a fuoco le diverse prospettive sovrapposte. In fondo è questione di portare alla luce l’orizzonte in cui ci muoviamo e ricreare il clima in cui viviamo: c’è un problema di clima anche per la fede oltre che per l’ambiente!

Nella speranza che qualcosa maturi in tutta libertà, una prima articolazione di lavoro la imposterei a partire dalla precisazioni che Gesù fa a quei Giudei che sembrava avessero creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Se vogliamo avventurarci in questo impegno, viene subito da chiedersi a che punto siamo e verso dove andiamo per  rimanere fedeli alla sua parola nel contesto storico del nostro Paese. 

Rimanendo nell’ambito della nostra tradizione religiosa, il problema sembra essere questo:  se continuare a starci dentro in maniera passiva e scontata o uscire del tutto da un sistema corporativo di appartenenza. In realtà è da vedere cosa è ancora vivo e cosa è morto: quale residuo di fedeltà e a che cosa è da salvare. Per chiedersi anche quanto questo stato di cose consente o impedisce l’ascolto della parola di Gesù e la sua comunicazione al mondo circostante e ad ogni creatura. Che è poi il senso delle parole del Card. G.Ravasi, che dovrebbero essere prima di tutto una spina nel fianco della chiesa se questa vuol essere a sua volta spina nel fianco del mondo.

Per la verità, una spina nel fianco della chiesa in Italia l’ha messa papa Francesco  nel suo discorso alla Cei del 2015 a Firenze, a cui spesso si fa riferimento, ma solo per dire che è rimasto inascoltato, mentre dovrebbe essere un punto di partenza per una “sensibilità ecclesiale” nuova. Il papa stesso, del resto, non ha mancato nel maggio scorso, sempre parlando ai Vescovi italiani, di richiamarsi ”al discorso rivolto alla Chiesa italiana nel V Convegno Nazionale a Firenze, il 10 novembre 2015, che rimane ancora vigente e deve accompagnarci in questo cammino”. Si trattava di sinodalità e  collegialità,  un argomento che in realtà descrive la cartella clinica dello stato di salute della Chiesa italiana e del vostro operato pastorale ed ecclesiastico”.

Forse è il caso di prendere di qui la mosse anche per Kairòs-Italia, perché se di sinodalità si tratta, questa non è appannaggio esclusivo dei vescovi né qualcosa di strettamente canonico, ma responsabilità di discernimento e di decisione dal basso. Ecco perché “Non dimenticare Firenze” può essere una base di partenza!

 

Alberto Bruno Simoni op

.

.