Koinonia Luglio 2019


PREGARE DIO: PERCHÉ?

 

Preghiera è pregare qualcuno per qualcosa che ci sta a cuore. Io prego una persona se ne ho bisogno, se essa può aiutarmi. Nel mondo biblico, quando il credente si rivolge al suo Dio, accade più o meno la stessa cosa, perché anche Dio è una persona, un Tu vivente che ascolta avendo a cuore il bisogno dei propri figli.

Dunque le preghiere sono tante, anche autentiche magari, non solo quelle borbottate per mera abitudine, ma la preghiera è quella di colui che chiede a Dio ciò di cui ha molto bisogno per sé, per una persona cara, per il proprio popolo: Sansone invoca acqua perché sta morendo di sete (Gdc 15,18), Anna prega Dio con lacrime amare e grembo sterile per ottenere un figlio (1Sam 1,10), Salomone inaugura il tempio supplicando Dio di ascoltare e perdonare tutti i figli di Israele che si presenteranno lì a implorarlo (1Re 8,30), e così via. Preghiera è invocare soccorso da uno stato di povertà e di pena.

Ma come si deve chiedere quando si prega? Come fa un suddito tremante davanti al suo re? Come un giovane davanti a suo padre, o davanti a un fratello maggiore? Oppure come si sta davanti a un amico che ha fatto fortuna?

I modi che la storia biblica suggerisce sono tanti, ma quello più incisivo che troviamo nell’esperienza del popolo di Israele viene dalla maniera con cui Giacobbe, al guado dello Iabbok, lottò con Dio per un’intera notte. La preghiera di Giacobbe in quella circostanza non era fatta di parole ma di voglia di combattere, di esigere la cosa che riteneva giusta e che solo Dio poteva dargli. “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”, gli dice Dio. Ma lui: ‘No, non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Una tempra che Dio apprezzò molto, tanto che di quella voleva fossero fatti tutti i figli del suo popolo. Il botta e risposta decisivo fu infatti questo: “‘Come ti chiami?’. Rispose: ‘Giacobbe’. Riprese: ‘Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!’” (Gen 32,25-29). “Ish-rah-el” significa “l’uomo che vede Dio”, l’uomo che pur vedendo Dio non muore, anzi, che addirittura attacca e vince Dio.

E perché Dio avrebbe lasciato vincere quell’uomo? Poiché di questo certamente si tratta: Dio si è lasciato vincere come a volte fa un padre che si lascia mettere sotto dal suo bambino. Perché dunque? Forse “perché sapesse che la pietà è più potente di tutto” (Sap 10,12), che attraverso la pietà si ottengono molte cose, davanti a Dio e agli uomini. Dio fa in modo che Giacobbe vinca non solo perché ha pietà di quell’uomo che gli chiede con tutte le sue forze, e per una notte intera, benedizione, ma soprattutto per insegnargli il valore della pietà. È come se gli avesse detto: vedi, io sono un re potente che ti benedice ed è pronto a condonarti ogni debito se glielo chiedi, ma anche tu devi fare altrettanto, anche tu devi avere pietà dei tuoi compagni come io ho avuto pietà di te. Pure Gesù insisterà molto su questa lezione (Mt 18,32-33; Mc 11,25).

Giacobbe lotta come un leone in forza di antiche promesse che Dio aveva fatto a suo padre Abramo: tu gli hai promesso benedizione e ora io la pretendo anche per me e per tutti i miei figli. Questa è potenza di preghiera viva. Questo insegnano i grandi credenti di Israele, lontanissimi da quel modo individualista e rassegnato di pregare tutto teso a emozioni inconsistenti e astratte. Le dodici tribù d’Israele vengono dalla fibra di Giacobbe: al momento della lotta undici dei suoi figli sono già nati. In un testo liturgico molto antico è detto che i celebranti si avvicinavano all’Arca Santa come per combattere; pregare era per loro lottare, soffrire e vincere, sull’onda di quel loro padre che ebbe l’ardire di  azzuffarsi col Signore in mezzo al guado e spuntarla.

Anche quando si trattò di prendere le difese del proprio popolo davanti a Dio che si era infuriato a causa del vitello d’oro, un altro uomo di tempra robusta, Mosè - dice il Talmud - “afferrò il Santo, sia benedetto, come un uomo che afferra il suo compagno per il vestito, e gli disse: Signore del mondo, io non ti lascerò finché tu non rinunci e perdoni loro!” (b. Berakot 32a).

Dio oltre a essere Padre è anche “nostro redentore” (Is 63,16); per questo non ci si deve dare pace e non si deve dare a lui pace, “finché non sorga come stella la sua giustizia / e la sua salvezza non risplenda come lampada” (Is 62,1). “La preghiera dell’umile penetra le nubi, / finché non sia arrivata, non si contenta; / non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto” (Sir 35,17-18). “Svegliati, perché dormi, Signore? /… / Dimentichi la nostra miseria e oppressione?” (Sal 44,24-25), ecco la forza con cui le “pecore da macello” della casa d’Israele invocavano il loro Pastore.

Ma tutto questo ci fa venire in mente un’altra cosa ancora: che la preghiera deve volere le cose subito, come quando si è in pericolo e si teme il ritardo. Lo ha fatto notare anche Franz Rosenzweig: la preghiera deve “accelerare il futuro, fare dell’eternità ciò che è più vicino, l’oggi” (La stella della redenzione). È “nella pietà”, insegnata e imparata fin dai giorni dello Iabbok, che si attende e si affretta “la venuta del giorno di Dio” (2Pt 3,11-12). Il giorno di Dio è urgente: questo dicono coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Gesù stesso era un orante che camminava frettoloso annunciando la buona notizia di un riscatto a breve: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). La fretta escatologica la senti soffiare ovunque leggendo i vangeli, quasi che il vino nuovo del regno bollisse già nei tini. La speranza che il Messia si aspetta, quando si lancia per le pubbliche vie dei villaggi d’Israele, è fatta di mani vuote e tese, di occhi che desiderano vedere ciò che egli promette. Egli avrebbe voluto appiccare il fuoco sulla terra, incendiare gli animi, portare scompiglio nelle case (Lc 12,49-53). C’era una preghiera tutta ebraica al tempo di Gesù, il Qaddish, che diceva così: “E che Egli faccia regnare il Suo regno / durante la vostra vita / e durante i vostri giorni / e durante la vita di tutta la casa d’Israele, / e che sia presto / in un tempo prossimo”. Anche il Padrenostro ha invocazioni simili.

Dopo secoli e secoli tuttavia, la recita di Qaddish e Padrenostro è diventata superficiale, meccanica, e noi non sentiamo più alcun bisogno del regno promesso, nessuna fretta. Lutero affermava che noi tutti manchiamo di qualcosa, ma non ne siamo consapevoli. Ed è questo il vero guaio per la preghiera. Come potrà darci Dio ciò che non desideriamo ricevere? E come possiamo desiderare ciò che non ci balena nemmeno più per la mente? Se non ci si accende dentro un desiderio forte e grande per ciò che ci manca, mai potremo allargare e aprire il mantello “per ricevere con abbondanza” (Il Grande Catechismo).

 

Ma forse la preghiera più grande di tutte è quella che chiede cose per Dio stesso. Léon Bloy, nel suo Diario (Il mendicante ingrato, luglio 1892) riporta a un certo punto quel che gli tocca spiegare alla sua donna “che si addolora per avere pregato invano” per lui: “Non si prega per ottenere, ma per consolare Dio”. Come a dirle: Se Dio non esaudisce è perché non è nella condizione di farlo e proprio per questo ha forse bisogno più di quanto immaginiamo della nostra pietà e comprensione.

Sì, il credente è anche colui che ad un certo punto può rivolgersi a Dio avvertendo nel profondo il bisogno di Dio, il dolore di Dio, fino ad averne pietà, perché anch’egli è finito nel pantano e ha il volto insanguinato. E sarà allora che comprenderà il perché dei grandi ritardi e la necessità di chiedere a Dio qualcosa per Dio, perché nessuno più di Dio soffre per ciò che ancora ci manca. Un paradosso? Certo. Ma la preghiera, come la fede, ha questa preziosissima capacità di vivere soprattutto di domanda e paradosso.

Si potrebbe addirittura dire che la preghiera per antonomasia è quella che il credente fa a Dio per ciò di cui ha soprattutto bisogno Dio, perché inevitabilmente il bisogno di Dio è anche un bisogno nostro e viceversa. Due persone che si amano davvero vivono l’uno il bisogno dell’altro: non può essere che uno sia nell’indifferenza e nella gioia se l’altro vive nel pianto. Le stesse lacrime cadono nello stesso catino quando ci si ama nel profondo. Di cosa è fatta la preghiera di Paolo quando notte e giorno si ricorda del giovane Timoteo? Di lacrime, egli si ricorda delle sue lacrime e attende con nostalgia di rivederlo presto “per essere pieno di gioia” (2Tm 1,3-4). Senza comunione dei cuori e senza attesa si rischia di fare pomposo rito non preghiera. Se percepisco che un mio fratello ha fame e non ho nulla da dargli, io vado da uno che so essere mio amico, subito, fosse anche mezzanotte, per dirgli con tutta l’insistenza che dovessi ritenere necessaria: “Prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti” (Lc 11,5-8).

Non accade così anche nel Padrenostro, dove si chiedono prima di tutto cose che servono a Dio: la santificazione del suo nome, la venuta del suo regno, il compimento della sua volontà? Tutte cose di cui egli ha infinito bisogno e che non può ottenere se anche noi non le vogliamo, non le attendiamo insieme a lui. Che santificazione può esserci se non è l’uomo che liberamente santifica quel nome? Come può venire il suo regno se gli uomini non desiderano il ritorno del loro re dicendogli ogni giorno: venga il tuo regno? E la volontà di Dio chi la può fare se non colui che lo ama proprio a cominciare dall’osservanza dei suoi comandamenti?

Questo è il punto: Dio ha bisogno che gli uomini capiscano il suo bisogno. Si potrebbe così anche dire che la preghiera più che far conoscere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno noi, serve a far conoscere a noi e agli altri ciò di cui ha bisogno Dio.

Si racconta che una volta a Kippur - il giorno che ricorda ogni anno a Israele il peccato del vitello d’oro - un sommo sacerdote di nome Ismaele entrando nel Santo dei Santi udì Dio che diceva: “Ismaele, figlio mio, benedicimi”; come se Dio ogni tanto recitasse una preghiera in se stesso (b. Berakot 7a). Ma non è, a pensarci bene, preghiera di Dio in se stesso anche quella dello Spirito che viene in aiuto alla nostra debolezza, per intercedere con insistenza per noi nel gemito (Rm 8,26)? Noi non sappiamo pregare; questa è la verità. Se non fosse lo Spirito che con potenza apre a ciò che Dio stesso nel più profondo desidera, noi saremmo cadaveri ambulanti, bisbigliatori del nulla. “‘Noi non sappiamo!’ Al di là da questo ‘Noi non’ (che non ha nulla da fare con la tecnica del ‘raccoglimento profondo’ dei ‘virtuosi della preghiera’ dell’oriente e dell’occidente, che anzi è la più forte protesta contro questo mare di confusioni) sta la realtà delle relazioni dell’uomo con Dio”. Preghiera altro non è che “il sospiro in noi di quello Spirito che non è il nostro spirito” (K. Barth, L’Epistola ai Romani).

Dio può fare ciò che va oltre ogni nostra immaginazione, è al principio di tutto, ci dona in ogni momento tutto: la vita, l’aria che respiriamo, il canto degli uccelli, la sposa che ci vive accanto e il figlio che corre libero sul prato; ma si è messo nella condizione di essere infinitamente bisognoso di noi. Dio ha bisogno che gli siamo riconoscenti, ha bisogno del nostro grazie, per tutto ciò che ogni giorno ci dona, ma soprattutto ha bisogno dell’amore che percepisca quel suo bisogno. L’amore è ascolto delle povertà dell’altro, incontro tra bisognosi che fanno a gara nel consolarsi a vicenda.

“Dio non è l’Onnipotente, come suggerisce una terminologia superficiale e volgare – dice Neher – ma l’Essere che accetta di limitare il suo Potere… Shadday, che viene tradotto, con leggerezza, con Onnipotente, è invece Dio che dice al suo Potere: fin qui, non oltre, poiché al di là c’è il campo di un altro, il campo dell’uomo. Esiste perciò in ogni impresa divina una specie di Insicurezza radicale: Dio non può prevedere fino a che punto arrivino i suoi atti, poiché un frammento del progetto divino è tra le mani dell’uomo”. Per questo tante volte “Dio non sa ‘dove sbattere la testa, dove metter mano’: è costretto ad acconsentire a certe cose che non vuole affatto. Non può desiderarne altre che invece desidera” (Il pozzo dell’esilio).

Il cristiano sa che la preghiera di domanda più potente che sia mai stata fatta è quella che Gesù “gridò con voce forte” sul Calvario: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). E anche lì, non era forse preghiera di Dio in se stesso? L’unità tra il Padre e il Figlio era tale – suggerisce Moltmann - che si potrebbe persino dire che quel grido ne echeggiava un altro: “Mio Dio, perché ti hai abbandonato?” (Il Dio crocifisso). Dio è colui che vorrebbe dare subito il suo regno a coloro che glielo chiedono, ma ancora non può.

C’è una parabola evangelica in cui si narra di una povera vedova che per smuovere a compassione un giudice duro d’orecchio, deve tempestare di colpi la sua porta. Perché Gesù la racconta? Per sottolineare la “necessità di pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1). Ma della parabola non capiremmo nulla se non cogliessimo la tristezza che abita nel cuore di Gesù quand’è costretto a dire in conclusione: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8), troverà ancora gente capace di desiderare e chiedere la sua giustizia? La fede potrebbe scomparire: un deserto di cuori spenti potrebbe trovare il Signore venendo nell’ultimo giorno, tutti potrebbero essersi radunati là, a canticchiare annoiati tra i bagordi con l’ennesimo vitello d’oro da adorare. E allora potrebbe persino essere il Signore stesso quella vedova che bussa, fino all’ultimo, alla porta del nostro cuore dicendoci: continuate ad attendere la mia giustizia!

 

Il Messia verrà, anche se tarda verrà, anche se non c’è più nessuno ad attenderlo verrà, perché questo esattamente ha promesso.

La preghiera è necessaria perché il Messia non è ancora venuto e i morti non sono ancora risorti. La morte deve essere vinta, presto, ai nostri giorni; è per questo che si deve pregare soprattutto, è per questo che il Messia deve venire. Non c’è salvezza, non c’è paradiso che possa darci pace, fin che la morte resta da vincere e una marea d’innocenti continua ogni giorno a patire pene d’inferno sulla terra. Persino lassù, “sotto l’altare”, ci sono anime sante che picchiano furiose alla porta e gridano: “Fino a quando, Sovrano,  / tu che sei santo e verace, / non farai giustizia / e non vendicherai il nostro sangue / sopra gli abitanti della terra?” (Ap 6,10).

Illumina parecchio quell’audacia con cui Rabbi Apta in punto di morte esclamò: “’Perché indugia il figlio d’Isai?’ E dopo aver pianto disse: ‘il Rabbi di Berditschev prima di morire promise che avrebbe scosso la pace di tutti i santi e non avrebbe cessato fino a che non fosse venuto il Messia. Ma poi di sala in sala l’hanno così colmato di delizie che ha dimenticato. Ma io non dimenticherò. Io non voglio entrare in paradiso prima che venga il Messia’” (M. Buber, Racconti dei Chassidim).

Mai dovrebbe essere dimenticato quell’antico motto apocalittico che dice: “Tutte le preghiere che nulla hanno in comune con il regno, non meritano il nome di preghiere”.

 

Daniele Garota

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