Koinonia Luglio 2019


Leggendo il saggio di François Jullien*

 

RISORSE DEL CRISTIANESIMO

Senza passare per la fede

 

L’autore di questo saggio  è un filosofo ateo che ha studiato soprattutto la filosofia greca e il mondo culturale cinese (vedi il suo Parlare senza parole. Logos e tao) e per questo si ritiene il più adatto ad “avvicinare l’argomento con distacco, da un punto di vista esterno”. Si tratta, dice, del cristianesimo, argomento che oggi suscita nel mondo intellettuale un disagio collettivo, un imbarazzo, un “evitamento” che deve cessare.  “Non perché la nostra società si è dichiarata ufficialmente laica, noi ci siamo sgravati di questa ‘cosa’”. Non perché in larga maggioranza non crediamo più, “ci siamo affrancati dai segni che ha lasciato impressi nel pensiero”. Jullien vuole sviluppare una filosofia del cristianesimo che non sia però una filosofia cristiana, vuole “entrare dentro il pensiero cristiano senza passare per la precondizione della fede”, per non perdere quello che nella sua concezione può esservi di più fecondo.

Inizia dicendo quello che non vuol fare: non vuol mettersi nella prospettiva della storia del pensiero, né in quella delle scienze umane. Non vuole occuparsi del senso e della verità del cristianesimo, né d’altra parte vuole rifarsi alla critica marxista o a quella freudiana, secondo le quali “che altro può essere la fede se non un prodotto e una proiezione dell’immaginazione..?”. Ma, dice Jullien: “Possiamo fermarci qui?”  Dando rilievo solo alla ragione, sulla base del principio di non contraddizione, “non la precludiamo alla logica del paradosso, proprio quella cui il cristianesimo ha contribuito così potentemente e di cui ha aperto l’intelligenza?” O, facendo di Dio solo l’oggettivazione di un desiderio, non dimentichiamo “quello che il cristianesimo, sulla scia del giudaismo, fa scoprire riguardo all’incontro con l’Altro?”.  Questa capacità ‘produttiva’ del cristianesimo – quello che ha il potere di sviluppare nell’uomo – si può dire oggi esaurita?

A questo proposito, Jullien non parla di valori, ma di risorse. A differenza dei valori che sono delimitati, “rivaleggiano fra loro, si sfidano e in nome dei quali diventiamo intransigenti”, le risorse “non valgono se non per quanto ciascuno – ciascuna generazione – si impegna ogni volta per attivarle da capo...Ciò che in esse non è che potenziale, le mantiene passibili di sviluppo” e le salva dai limiti dell’ attualizzazione. Questo è particolarmente utile e salutare per il cristianesimo “in quanto lo scalza felicemente dalla preminenza che gli si attribuiva di diritto, lo  forza a rimettersi all’opera, se vuole sopravvivere, e a ripensarsi, a rischiare di nuovo”.

Jullien si propone quindi di leggere il Vangelo come qualsiasi altro testo, cercando di individuare la sua ‘coerenza’, piuttosto che il senso, la sua ‘pertinenza’, termine di cui il dizionario recita “ciò che è durevolmente congiunto a un bene per migliorarne le condizioni d’uso e la funzionalità”.

Le prime due risorse sono, per così dire, esterne. Per  il fatto che il Vangelo sia stato scritto in greco, quando Gesù conosceva solo l’aramaico, “l’insegnamento cristiano si è trovato staccato dalla sua appartenenza linguistica, tirato fuori dal suo implicito e da lì risucchiato dall’esigenza di un universale....questo esser inter-lingua ha contribuito alla sua fecondità...da questo scarto tra più lingue, il cristianesimo ha promosso un qualcosa di comune nel pensiero, attraverso la disparità culturale...un insegnamento non dichiarato, ma messo all’opera”. Il fatto poi che ci siano non uno, ma quattro vangeli costituisce un’altro ‘scarto’ (termine caro al filosofo francese) che produce un confronto, una tensione....che richiama da sé un continuo interrogarsi e sconfinare l’uno nell’altro; si tratta di “quattro cammini che si avventurano, ciascuno a suo modo su quel terreno così pericoloso del dire la possibilità dell’impossibile...non un’unica narrazione, una versione canonica, ma quattro percorsi paralleli per tentare di dare credito all’inaudito”. Quel che forse affascina nell’approccio di Jullien ai vangeli è il suo aver voluto (saputo) trasformare in risorse per il cristianesimo ciò che da altri, più ovviamente, era considerato un handicap.

Per la sua analisi, Jullien segue il Vangelo di Giovanni perché l’evangelista “si dedica a pensare cosa dentro al cristianesimo costituisca la possibilità di un evento” e, più chiaramente,  Giovanni riesce ad articolare il “divenire dell’evento con l’atemporale o l’eterno”. Mentre nella filosofia greca il divenire, opponendosi all’essere, ne risultava svalutato, in Giovanni non c’è più questa opposizione, anche se resta una certa dipendenza,  e di conseguenza il divenire, come sorgente dell’evento, viene rivalutato.  Per arrivare a questa interpretazione, Jullien critica la traduzione corrente (Bibbia di Gerusalemme) dei due verbi greci en e egeneto (imperfetto e aoristo) usati da Giovanni nel prologo. Dopo l’enunciazione “In principio era il logos”, Jullien traduce “tutto è divenuto per mezzo di lui e niente è divenuto se non per mezzo di lui” e aggiunge: “Dal fatto che qui divenire è inteso assolutamente, prende nel testo di Giovanni un senso nuovo, divenire vi diventa avvenire...Lo scarto decisivo si opera fra il divenire inconsistente della metafisica e l’avvenire che fa sorgere l’evento...” In questo modo, traducendo in tutto il prologo il verbo divenire/avvenire con ‘essere’ (il Verbo si è fatto carne, invece di avvenne; la grazia e la verità ci sono venute, invece di avvennero), si viene a perdere quel che Giovanni annunciava fin dall’inizio, “che ciò che chiamiamo col nome di cristianesimo è pensato come un evento possibile. E questo prima che si abbia da ‘credere’ possibile tale evento,” cioè prima della risurrezione. Traducendo col verbo ‘essere’ (tutto fu per mezzo di lui) “si perde la rigorosa nudità dell’avvenimento (l’egeneto greco)...Eppure è  quello che Giovanni rigorosamente dice e bisogna leggerlo letteralmente”. Giovanni afferma che esiste un tale ‘avvenire’, che “apre un futuro non già contenuto dentro ciò che l’ha preceduto (la logica della causazione che resta esterna mentre un legame interno sfugge)...qualcosa di inedito è possibile”. Cristo è colui attraverso il quale tale ‘avvenire’ reale è possibile ( tutto avvenne attraverso di lui..), colui che, all’interno dell’Essere, apre la via all’evenemenzialità, ancorando il divenire in seno all’Essere (Prima che Abramo avvenisse, io sono)”.  Giovanni fornisce un nuovo statuto al ‘possibile’: non il possibile logico, né il possibile ontologico, ma il possibile esistenziale...tale che consente di far spuntare nella vita qualcosa di inaudito.

“Di tale evenemenziale (dizionario: volto alla registrazione degli eventi singoli più che all’analisi delle strutture che li condizionano) all’interno del quale siamo, Giovanni dice fin dal prologo la natura: esso è la Vita (zoè)... perché la Vita è propriamente l’inaudito, passando dall’ “avvenne” al suo risultato (l’”avvenuto”) che è appunto la Vita.

Ma, che vuol dire essere vivi?  “La vita non è solamente una condizione, quella di essere in vita, ma costituisce il valore assoluto”, quello di cui parla Paolo quando dice ‘Perché credendo abbiate la vita nel suo nome... e Gesù :al fine che anche voi abbiate in voi la vita’. Giovanni distingue questi due tipi di vita, parlando di Psichè (il soffio vitale) e Zoè (la vita nella sua pienezza, in sovrabbondanza), distinzione che non appare traducendo sempre con lo stesso termine, vita.  Non facendo questa distinzione risulta incomprensibile la frase di Gesù: “Chi ama la propria vita (psichè) ...la perde; chi odia la propria vita in questo mondo la (zoè) conserverà per la vita eterna”.  Questa distinzione è annunciata anche  nell’episodio  della samaritana quando Gesù, nel dialogo che ha con lei, passa dall’acqua che alimenta la vita naturale a quella che zampilla per la vita eterna; o quando, parlando con gli apostoli, afferma che egli deve nutrirsi di un cibo per la vita che non muore.

I greci avevano insegnato a concettualizzare: elevarsi dalle cose belle al concetto di bellezza. Giovanni insegna a “spiritualizzare” che è tutt’altra cosa....a passare dall’essere in vita a ciò che rende effettivamente vivi. Non si tratta di simboli o di metafore, dice Jullien. “Di questa ‘vita viva’ Gesù è tanto rivelazione che mediazione. La risorsa è lo Spirito, la vita viva, una vita ‘espansa’, perché si dà e si condivide con l’Altro.

A questo punto la domanda diventa: come posso non limitarmi allo stato meramente vitale...per sviluppare in me la vita in sovrabbondanza?

Jullien introduce allora il termine “de-coincidere” che corrisponde a “estrapolarsi dall’adeguamento/adattamento a se stessi, così come al proprio mondo -odiare la propria vita in questo mondo- per ridispiegare i possibili che vi si rinserrano e riaprire un futuro alla vita”. E continua: “Questa logica del de-coincidere per promuovere la vita, Giovanni l’ha fondata dal principio in Dio stesso: In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Se cioè Dio coincidesse con se stesso, non conoscesse lo scarto interno a sé...se aderisse cioè col proprio essere in vita, perderebbe con ciò stesso la sua capacità di creare la vita....L’intelligenza di Giovanni, da cui discende una risorsa essenziale per il cristianesimo, sta nel comprendere che, se Dio coincidesse con se stesso, sarebbe un Dio morto..... In Gesù, la de-coincidenza è anche metodica del discorso per fare arrivare gradualmente e obliquamente i suoi interlocutori al senso profondo del suo dire (con Nicodemo e la samaritana). Gesù insegna il distacco dalla coerenza dell’ovvio...affinché nel distacco (come nel distacco dalla propria vita) se ne colga una dimensione di assoluto....Attraverso de-coincidenze successive, Gesù insegna al suo interlocutore a sbandare rispetto a un’intelligenza che è quella della nostra aderenza (al senso letterale come al nostro essere in vita) per scoprirne un’altra dove, lo spirito si rende disponibile all’inaudito dell’evento: sono io il pane di vita)..inaudito che gli ascoltatori non vogliono o non possono sentire: “Questo linguaggio è duro. Chi può intenderlo?”

“Così come è una risorsa pensare che un evento è possibile (come avvento), vi è una risorsa nel pensare che un giorno può essere detta una cosa che non è mai stata detta in precedenza: qualcosa che non soltanto rompe con tutto ciò che è stato detto in passato---ma, ancora oltre, fa deflagrare tutte le coerenze che sembravano più sigillate fino alla più tenace evidenza, quella della morte”.

La cosa più strana, secondo Jullien, è che questo pensiero abbia potuto trasformarsi in ideologia dominante....ovvero che una logica della de-coincidenza come quella di Giovanni, abbia potuto inscriversi in un corpus dogmatico, che quell’annuncio dell’inaudito, in opposizione all’ovvio e allo stabilito, non soltanto sia diventato un pensiero sedimentato e sclerotizzato, ma che sia anche servito a cementare l’apparato oppressivo del potere.

Io sono la via, la verità, la vita”, come tre scalini in successione. Il primo insegnamento è che la verità è per la vita...la vocazione della verità è di aprire alla vita in quanto è da sé il proprio principio (zoè)...La verità non rinvia più a un contenuto, è invece un soggetto che la costituisce: Io sono il pane di vita..io sono la luce del mondo..io sono la porta...Giovanni può parlare di colui che ‘fa la verità’: il soggetto, nel suo agire la opera e la fa. E, davanti a Pilato, Gesù dice di “essere dalla verità”: la verità non attiene più all’avere (avere la conoscenza), ma all’essere. “La verità è ciò da cui si deve originare per vivere....Sganciando la verità dalla speculazione...non si ha più fra verità e vita un rapporto di applicazione dall’esterno (le regole di vita della morale), ma uno di promozione dall’interno, si ha una verità che fa vivere.”

Dal fatto che sia il soggetto, secondo lo statuto cristico, a trovarsi all’origine della verità....ne consegue che tutto sta nell’identificare tale soggetto. In Giovanni la differenza fra idem e ipse si approfondisce fino all’inconciliabilità. L’iden-tità resta superficiale, poiché non dice niente di me in quanto me stesso; l’ipse-ità designa invece l’assoluta singolarità del soggetto.. A Gesù, tutti chiedono la sua identità, ma egli non è identificabile per principio, essendo totalmente uomo e totalmente Dio. Lui è chi è in se stesso: il vangelo di Giovanni è dunque l’auto-rivelazione progressiva dell’ipseità di Gesù, rimuovendo l’opposizione fra i due contrari che potrebbero identificarlo. E lo fa non seguendo la strrada comune a tante religioni, quella della divinizzazione, oppure del Dio che si traveste da uomo, come nella mitologia greca, ma divenendo pienamente uomo.  Incarnandosi,  Cristo non ha soltanto accordato un valore superiore all’uomo in generale, ma ha affermato l’ipseità assoluta del soggetto. Quando in Giovanni(8,24, 13,19) Gesù afferma “Io sono”, separa radicalmente questo sé dell’ ‘io sono’ da ogni ego (dall’egoismo).   Insegnadoci a fare lo stesso.

Da ciò deriva una maniera del tutto diversa di rapportarsi alla verità, secondo il ‘credere’ e il ‘testimoniare’, i due verbi “che traversano da parte a parte il vangelo di Giovanni”. Da  un lato c’è il “credere in” (non più il credere a) che significa aver fiducia in te, riporre la mia speranza in te. Dall’altra c’è la testimonianza, in quanto il soggetto s’impegna tutto intero per affermare la verità: Giovanni Battista testimonia la venuta di Cristo, Cristo testimonia di suo Padre, il Padre testimonia di lui, le sue opere testimoniano di lui...La forza del cristianesimo, in breve, è di fondarsi sul fatto che dell’inaudito sul quale si fonda non potremo che rendere testimonianza perché “solo la potenza del coinvolgimento di una ipse-ità lo può legittimare.”

Questo essere un ipse, un se stesso, aiuta il soggetto a dis-aderire dal mondo. “In quanto tal quale in se stesso, non crea già necessariamente uno squarcio nella trama del mondo?...dal momento che mi pongo come soggetto, nella mia ipseità, io non posso essere completamente di questo mondo”. Questa ulteriore risorsa  potrebbe essere per Jullien un modo non più ideologico, e quindi più efficace, per affermare l’universalità del cristianesimo. E’ proprio non coincidendo col mondo che il soggetto acquisisce la sua dignità di soggetto, dignità che non è soltanto sua, ma contestualmente dell’Altro (amerai l’Altro come te stesso). Quando Gesù, di fronte a Pilato, parla di una regalità che non è di questo mondo, “più che appellarsi a un altro mondo, apre in questo un’altra dimensione, la dimensione dell’Altro. In altre parole, dentro questo mondo è impossibile incontrare l’Altro. Per comprendere Giovanni, dice Jullien, ci serve dunque “articolare la ‘capacità esistenziale’ di tenersi fuori del mondo e la ‘capacità etica’ di tenersi nell’altro: Io sono nel Padre e il Padre è in me; voi siete in me e io in voi.

 

Questa capacità etica è il modo in cui Gesù entra nel campo della morale, quasi “per via negativa, perché la morale non si prescrive, ma costituisce anch’essa l’oggetto di una auto-rivelazione... Gesù non moralizza, si tiene fuori dai pro e contro in cui si rinserra il mondo. Non è che non prenda posizione, ma disfa la parzialità delle op-posizioni” (qui si vede la familiarità che Jullien ha con la logica del tao).

Ancora, dice Jullien, dobbiamo dissipare il grande equivoco dell’amore, “di cui il vangelo ha promosso un senso radicalmente nuovo...che non ha niente a che vedere con l’altruismo...Agape, nel cristianesimo, significa l’amore in quanto è espansivo, promuove una vita espansiva (zoè), in opposizione all’amore per quel che è di possessivo”, a differenza del quale, “non è invidioso, non si vanta, non cerca il proprio interesse...” Perché quest’amore è quello che attraversa e annulla la separazione fra gli esseri, per come sono isolati nel mondo, e permette loro di dimorare l’uno dentro l’altro. Un tale amore è risorsa perché promuove un assoluto”.  “Gesù avendo amato i suoi li amò fino alla fine” Un’ultima risorsa Jullien la trova nella morte di Gesù, intendendo però quel termine, fine, non solo come morte, ma anche come compimento, perfezione dell’amore. E conclude: “Senza che si debba credere alla risurrezione, ma come scarto rispetto al vitale della sua vita, è solamente dopo la sia morte che l’Altro, qualsiasi Altro, comincia ad essere pienamente amato di quest’amore espansivo” È il modo di un non credente per parlare dell’invio dello Spirito.

Il filosofo francese conclude il suo testo, citando l’ultima scena del Vangelo di Giovanni, in cui l’apostolo che Gesù amava, a differenza di Paolo che lo teorizza soltanto, ‘mette in scena’, dice Jullien,  questo amore: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” e le risposte di Pietro attestano quanto questo tipo di amore sia superiore alle sue forze. Pertanto è su di lui che Gesù fonda la sua Chiesa.

Come mi è successo altre volte, ho dovuto constatare che leggere gli scritti di altre religioni, o come in questo caso di atei dichiarati, mi porta ad approfondire la mia fede, inquadrandola da prospettive che io non avevo considerato; il “senza passare per la fede” di François Jullien è stato per me molto produttivo: è stato una risorsa che invito tutti a sfruttare.

 

Donatella Coppi

 

 

*Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede, Ponte alle Grazie, 2019, pp.117, € 14,00

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