Koinonia Luglio 2018


Erasmo vs Machiavelli

 

Carlo Ossola, nel bellissimo saggio “Erasmo nel notturno d’Europa” (Vita e Pensiero, 2015), scompagina le conoscenze di noi liceali degli anni Cinquanta, uniformati al modello crociano, pronti a giurare sul Principe e sulla metafora della “volpe e del lione” come sul postulato delle rette parallele. Andavamo fieri dell’affermazione crociana per cui “non possiamo non dirci cristiani” che salvava la capra neo-antifascista e il cavolo neo-degasperiano lasciando in ombra il vetero-heghelismo di don Benedetto che non era riuscito a liberarsi della mitologia germanica nonostante tutto. Di Auschwitz nessuno sapeva niente, salvo Primo Levi, che ancora non ne aveva scritto.

 

Di Erasmo i più bravini ricordavano L’elogio della pazzia e quelli che meritavano il nove sapevano che considerava come suo maestro Lorenzo Valla, scopritore della falsa “donazione di Costantino”.

C’è voluto il vituperato Sessantotto perché venissimo a sapere che possiamo, eccome, non dirci cristiani: ce lo aveva spiegato il Concilio Vaticano II con alcuni dibattiti usciti all’aperto, amplificati da Ernesto Balducci e Lorenzo Milani, ma Erasmo restava patrimonio nobile di qualche pacifista alla Capitini, finché i più audaci osarono mettere in dubbio la sacra massima “se vuoi la pace prepara la guerra”; ma ci volle la guerra del Vietnam e la campagna a favore dell’obiezione di coscienza alla leva militare,  sostenuta da Rodolfo Venditti, magistrato militare, perché il parlamento approvasse la legge del servizio civile, nonostante la contrarietà dei cappellani militari e del presidente Cossiga. Nel 2016 è morto Pietro Pinna, il primo obiettore italiano, se non si vuole tener conto di Remigio Cuminetti (obiettore del 1915) condannato all’oblio solo perché testimone di Geova.  Gerardo Di Felice fu riformato nel 1939 per «psicosi paranoide» e Francesco Zortea, nel 1941, per una «sindrome delirante paranoidale basata su una insensata e fantastica concezione della vita in rapporto a credenze religiose».

Era tutto logico nel paese di Machiavelli, per cui è reato sottrarsi alla volontà del Principe. Il Principe è legittimo perché può comandare, e non il contrario. E chi comanda fa la legge (come è convinzione dei mafiosi), l’importante è che continui a reggere o con le buone o con le cattive (o con l’astuzia - come la volpe - o con la violenza – come il lione). Lo dice anche Trilussa, specchio della a cultura nazional-popolare, anche se il popolo (sovrano?) non ci fa una gran bella figura.

 

E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!    

 

E veniamo a Carlo Ossola. Il Principe di Machiavelli si caratterizza per il potere, quello di Erasmo per il servizio: il possedere o il giovare. “Il Principe di Machiavelli e l’Institutio principis christiani di Erasmo, redatti a così poca distanza l’uno dall’altro (1513-1516) si oppongono nella concezione dello stato e del bene comune. Per Machiavelli conta “tenere” ciò che si è ricevuto o conquistato, quale che si il prezzo che i sudditi debbono pagare” (e se il prezzo saranno i seicentomila morti di una guerra inutile oltre che sostanzialmente illegale, saranno compensati con i la retorica dell’amor di patria, i monumenti ai caduti, le lapidi, e i parchi della rimembranza). 

“Per Erasmo sono degni del titolo di principe solo quelli che consacrano sé al bene dello stato e non lo stato al proprio utile. Alle arti della guerra Erasmo oppone quelle della pace, all’obbedienza dei sudditi, l’esercizio della libertà dei cittadini”. Alla metafora della volpe e del leone contrappone quella del riccio, il nonviolento che si rende impenetrabile alle lusinghe e alle minacce del Potere.

Il principe cristiano che Erasmo si propone di educare non è uno sprovveduto, un ingenuo: sa benissimo come vanno le cose, se non altro perché ha studiato Plutarco : Il principe e la legge hanno in comune il fatto che nulla più di loro deve essere condiviso ed equo all’interno dello stato.  Diversamente accade che – per usare le parole di quel saggio greco – le leggi non siano altro se non ragnatele che i volatili più grandi riescono facilmente a distruggere, mentre solo le mosche vi rimangono invischiate.   Da una comune analisi della situazione reale derivano due modelli opposti di intervento educativo: il principe di Machiavelli si  forma nella convinzione di essere superiore alle leggi  (solutus legibus= chi comanda fa la legge per i sudditi ma non per sé e per i suoi principali sostenitori), il principe di Erasmo fa le leggi soprattutto per sé nel quadro degli interessi comuni. 

“Il principe di Machiavelli vive di astuzia fortunata, quello di Erasmo amministra con lealtà”.

Machiavelli si è guadagnato la fama maestro di realismo politico perché ha fotografato l’uomo nella sua realtà storica imbalsamata nella pratica abituale del potere, soggiacendo alla convinzione che nulla può cambiare (che in realtà è la conferma di un fatalismo brutale), Erasmo crede che l’umanità ha una vocazione alla perfezione, comune a tutto il Creato (tre secoli dopo uno scienziato come Darwin parlerà di tensione evoluzionistica partendo dai dati oggettivi della paleontologia).  C’è un uomo inedito affacciato a livello planetario che Balducci intuisce ancor prima di aver potuto constatare de visu la rivoluzione informatica. Erasmo lo preannunciava all’indomani dell’invenzione della stampa a caratteri mobili che apriva alla conoscenza orizzonti poco prima insospettati. Si legga a questo proposito bel quaderno di Koinonia 2018 (Pistoia) La coscienza come frontiera del futuro di B. Becchi, A. Bondi, M. Maraviglia.

 

Per il principe di Machiavelli  e per quelli che si attengono al suo modello, la guerra è soltanto uno dei modi di fare politica (Bismarck), per il principe di Erasmo la guerra è la più grande sventura che possa toccare al suo popolo ed è suo dovere cercare di evitarla non solo per ragioni umanitarie ma anche semplicemente di convenienza economica (Una pace ingiusta è migliore di una guerra giusta). Di qui deriva la strenua difesa della pace.

Non sempre si pensa che queste posizioni erasmiane comportavano indirettamente una radicale proposta/esigenza di riforma in campo ecclesiastico, perché coinvolgevano, minandola alla base,  la figura del papa/principe, che nella fattispecie era sottintesa in tutta l’opera del Machiavelli, scritta su misura del figlio del papa Alessandro VI (Borgia). Il successore di Alessandro, Giulio II (Giuliano della Rovere)  meritò di essere mandato all’inferno con un (anonimo) opuscolo satirico, proprio a motivo dell’intensa attività militare a cui si stava dedicando per l’onore della Chiesa e l’ampliamento dei suoi confini territoriali e delle sue influenze politiche.  

Come afferma Ernesto Balducci in una lettera personale a Enrico Peyretti (21/1/1989): Sono convinto, diversamente da Küng, che Erasmo, tra Roma e Lutero, aveva visto giusto: la questione dirimente, che avrebbe portato con sé anche la riforma della chiesa, era quella della pace. Non è forse oggi la vera questione ecumenica? E ribadisce in un’altra lettera (12/3/1989): Io resto convinto che la vera via della Riforma era quella.

 

Concludendo

 

La riforma della Chiesa non è un problema innanzi tutto religioso ma politico, e dipende dal modo in cui la comunità dei discepoli di Gesù decide di organizzarsi come fatto sociale e dal suo rapportarsi all’esterno. Decisivo è il modello di autorità (POTERE o SERVIZIO) che decidono di darsi.

Tuttavia è una questione di fedeltà al messaggio del Maestro che vogliono seguire, consegnato nel testo biblico/evangelico originale criticamente indagato, fondato sull’AGAPE, soprattutto verso i nemici, gli stranieri e i diversi.  

La fedeltà a Cristo deve essere una libera scelta dello spirito umano che però non può essere attuata senza l’aiuto dello Spirito di Cristo, garantito dalla Sua Parola a chiunque ne abbia le disposizioni, indipendentemente dal genere, dall’età, dall’etnìa, dalla posizione sociale.

La fedeltà a Cristo va vissuta nella propria coscienza  come un combattimento spirituale e il cristiano, singolo o associato in gruppi e comunità, comunque minoritario, non deve aspettarsi vantaggi materiali né distinguersi per segni, cerimonie, simboli e regolamenti moralistici e religiosi ma soltanto per la testimonianza del Vangelo vissuto.

    

Una riforma radicale permanente nel solco della tradizione patristica è tratteggiata fin dal 1501 nell’Enchiridion militis christiani, il Manuale (o Pugnale) del soldato cristiano, poi ripubblicato da Froben (Basilea) in data 14 agosto 1518, vigilia della festa dell’Assunzione, con la famosa prefazione molto gradita a Martin Lutero quanto sgradita alle rinomate università dell’Europa cristiana alla vigilia della più sanguinosa macelleria ecumenica...      

 

Gianfranco Monaca

 

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