Koinonia Luglio 2018


IL BANCHETTO DEL REGNO (II)

Parte seconda: Una comunità d’amore

 

Ma non va nemmeno dimenticato come il vero significato dell’agnello e del tempio ebraici siano stati ad un certo punto del tutto dirottati, nell’esperienza cristiana, su Gesù di Nazareth. È lui a diventare sia vero Agnello - nelle due dimensioni di umiltà (Amnios) e gloria (Arnion) -, sia tempio: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, diceva Gesù, e più avanti è detto chiaramente come “egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,19-21). Nella “Gerusalemme che scende dal cielo”, non vi sarà infatti “alcun tempio: / il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello / sono il suo tempio” (Ap 21,10.22).

È estremamente significativo che proprio il Vangelo di Giovanni, a differenza dei sinottici, ci parli dell’ultima cena come avvenuta non in occasione della cena pasquale ebraica ma il giorno precedente, in modo da comunicarci che proprio nell’ora in cui l’Agnello Gesù moriva crocifisso gli agnelli venivano sgozzati nel tempio di Gerusalemme. E non va nemmeno dimenticato come sia stato Gesù stesso ad avere profetato che di quel grandioso tempio, fatto ricostruire da Erode, non sarebbe rimasta “pietra su pietra” che non fosse “distrutta” (Mt 24,2). Così com’è stato distrutto il tempio anche è stato ucciso Gesù, ma a differenza del tempio, mai più ricostruito, il corpo di Gesù è risorto.

Quando ci si accosta alla Cena del Signore, e a un certo punto il sacerdote ci coinvolge tutti dicendoci: “mistero della fede!”, a noi tocca rispondere così: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta!”. Un concentrato di fede questo, basato su fatti accaduti e fatti che devono ancora accadere, perché i cristiani hanno a che fare con fatti non con spiritualizzazioni più o meno a buon mercato, la morte di Gesù è un fatto accaduto esattamente come quello della distruzione del tempio e della risurrezione di Gesù. Così come sarà un concretissimo fatto quello della risurrezione dei morti alla fine dei tempi. Questo siamo chiamati a credere e attendere, col cuore e con la mente, oltre che a professarlo con le labbra.

 Un banchetto più di ogni altra esperienza è in grado di metterci nel cuore tutto quanto Dio ha preparato per noi nello Shalom del Regno. Anche Gesù amava molto condividere il cibo e la tavola e senza nemmeno troppo curarsi se attorno a lui ci fosse gente per bene: ci fu addirittura chi lo accusò di essere “un mangione e un beone, un amico di pubblicani e peccatori” (Mt 11,19). Erano momenti preziosi per entrare a stretto contatto con le persone che più s’interessavano di lui. Molte delle cose uscite dalle santissime labbra del Signore potremmo immaginarle dette mentre stava mangiando a tavola in compagnia di qualcuno. Nel giorno ultimo, diceva a chi lo stava ascoltando, molti “verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio” (Lc13,29). E ancora: “voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove, e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno” (Lc 22,28-30).

Tra le parti inserite per ultime nel libro del profeta Isaia, grosso modo nel terzo secolo a.C., vi è quella a noi nota come ‘grande apocalisse’ e che va dal capitolo 24 a quello 27. Lì ci vengono annunciati, oltre ai due grandiosi eventi del tempo ultimo – quelli cioè del giudizio universale (24,1-23) e della risurrezione dei morti (26,19) - un terzo evento, quello in cui è detto che il Signore stesso preparerà “per tutti i popoli, su questo monte, / un banchetto di grasse vivande, / un banchetto di vini eccellenti, / di cibi succulenti, di vini raffinati. / Egli strapperà su questo monte / il velo che copriva la faccia di tutti i popoli / e la coltre distesa su tutte le nazioni. / Eliminerà la morte per sempre. / Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, / l’ignominia del suo popolo / farà scomparire da tutta la terra, / poiché il Signore ha parlato” (Is 25,6-8).

Qui non si tratta di un semplice banchetto, qui a essere messa al centro è la potenza con cui il Dio d’Israele distruggerà la morte facendola scomparire da tutta la terra, un vertice di speranza che viene dal Dio di Abramo e riguarda la fede di ebrei, cristiani e musulmani fino a oggi. Mai dimenticare questo da parte nostra, soprattutto quando ci accostiamo al memoriale della santa cena, attorno a una mensa che è pregustazione tutta dettata dall’anelito rivolto al banchetto del Regno, di quel Regno che potrebbe in ogni istante irrompere tra noi.

Il più antico racconto che abbiamo della “cena del Signore”, è quello di Paolo nella Prima Lettera ai Corinti (11,20-26), scritta con molta probabilità nella primavera del 54 d.C. e certamente proveniente da una tradizione già consolidata nei primi dieci anni dalla morte di Gesù. Dunque attraverso quelle parole ci è dato di toccare molto da vicino quel che avevano a cuore i credenti della prima ora, credenti le cui orecchie avevano udito parlare direttamente Gesù guardandolo in volto. Paolo non lo aveva mai incontrato, se non in visione sulla via di Damasco, ma è significativo che nella sua lettera disse di avere “ricevuto dal Signore” quanto s’apprestava a trasmettere di ciò che era accaduto in quella notte di tradimento e offerta.

Al tempo di Gesù, come ancora per gli ebrei di oggi, la Pasqua giudaica si rivolgeva sia al passato, facendo memoria del sangue dell’agnello, col quale furono segnate le porte delle case degli israeliti, sia alla liberazione futura di cui l’antica altro non era che prefigurazione e modello. L’antica “notte di veglia” (Es 12,42) diventava così, al presente, notte in cui in ogni istante poteva sopraggiungere il Messia.

 Nel Cenacolo il Messia quella sera era già venuto, secondo la nostra fede, e aveva radunato i suoi discepoli per una cena di arrivederci prima di presentarsi alla battaglia del Getsemani e del Calvario, alla battaglia con la morte. Pur avendolo molto desiderato, Gesù si astenne quella sera dal mangiare e dal bere restando probabilmente “digiuno del tutto”, come ha fatto notare Joachim Jeremias, un digiuno che “deve aver profondamente costernato i discepoli”. Egli soltanto offrì agli altri il pane e il vino come proprio corpo e proprio sangue. Non ha senso del resto mangiare e bere per chi sa di dover morire dopo poche ore.

“Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: ‘Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio’” (Lc 22,14-16). Gesù indica così “la propria morte” come “sacrificio pasquale escatologico”, quello che “inaugura l’ultima redenzione”, dice ancora Jeremias. E ne è chiaro segno la formula usata da Paolo: “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11,26). Qui, prosegue Jeremias, si “allude apertamente al marana tha della liturgia con cui la comunità implora la venuta escatologica del Signore... La proclamazione della morte di Gesù non serve dunque a rinnovare nella comunità il ricordo dell’avvenimento della passione, ma questa proclamazione proclama la morte vicaria di Gesù come inizio del tempo della salvezza e implora l’avvento della pienezza finale… In ogni celebrazione dell’eucaristia la comunità invoca dunque la venuta del Signore”. E la tensione escatologica è tale, conclude Jeremias, che “ciò che Israele fa ogni anno nel convito di Pasqua, i discepoli lo devono fare ogni giorno” (Le parole dell’ultima cena).

Ogni giorno dovremmo desiderare che sia quello il giorno in cui ci rivedremo tutti, insieme al Signore, vivi e morti: è questa la nostra speranza. Una speranza che in queste colline e tra queste pietre di Montebello non può che risuonare con una certa forza negli animi di alcuni di noi.

Ed è una speranza tuttavia difficile da conservare a lungo nel cuore, soprattutto perché finiamo per non sentire più né la preziosità di quell’invito né il dramma di colui che ce lo fa. Gesù ci ha messi in guardia: il pranzo potrebbe essere “pronto” e noi avere il cuore altrove, “chi al proprio campo, chi ai propri affari”, mentre il Padre che tutti ci chiama è là che soffre e inutilmente attende la nostra presenza (Mt 22,1-14). Ed è poi un banchetto di “nozze” (Mt 22,4), non dimentichiamolo, soprattutto perché si tratta delle “nozze dell’Agnello” (Ap 19,7.9). E dire nozze per il mondo biblico è dire gioia, gioia dello stare insieme tra gente che si vuole bene e gioia d’amore tra uomo e donna che si amano fino a diventare “una sola carne” esattamente come una sola carne ha scelto di diventare Dio stesso con noi in Cristo. Questo non altro è il “mistero” grande di cui ha parlato san Paolo riferendosi “a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,31-32).

Lo stesso piacere sessuale (e su questo sia Ebraismo che Islam trovano forti consonanze tra loro e col mistero dell’incarnazione cristiano), è un dono preziosissimo che Dio ci ha fatto e proprio per questo in grado sia di riportarci all’esplosione di gioia dell’Adam quando si unì alla sua donna in Eden (Gen 2,22-24), sia di prefigurare la gioia che ci attende nella santissima comunione dello shalom del Regno. Uno degli autori cristiani che ha forse riflettuto di più e col cuore attorno al mistero nuziale, è certamente il russo Vasìlij Rozanov, che diceva così: “Il rapporto sesso-Dio è più stretto di quello tra l’intelletto e Dio e, addirittura, tra la coscienza e Dio” (Foglie cadute).

Voglio terminare con un versetto di uno scritto non canonico ma contemporaneo agli scritti più tardi del Nuovo Testamento che certamente esprime l’anelito alla risurrezione dei morti e al banchetto del Regno, presente nel cuore delle comunità cristiane primitive durante la celebrazione della santa cena: “Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto diviene una cosa sola, così la tua Chiesa si raccolga dai confini della terra nel tuo Regno” (Didaché 9,4).  

 

Daniele Garota

(2. fine)

 

 

.