Koinonia Luglio 2018


LETTERA A UN CARDINALE

 

Caro cardinale Ladaria Ferrer,

sono stata a lungo perplessa prima di inidirizzarle una lettera. Sono una vecchia signora e non mi illudo di convertire nessuno, soprattutto un uomo, per giunta convinto che Gesù abbia negato il sacerdozio alle donne perché, appunto, donne.

Premetto che non sono una zelatrice della Women’s Ordination Conference: sono una politica e avendo fatto esperienze parlamentari sono consapevole che le istituzioni omologano ad un ordine costituito su un “modello unico”, sostanzialmente ancora maschile e patriarcale, quello per il quale tutti, uomini e donne, siamo stati educati a dire “Dio creò l’uomo - e non l’essere umano, uomo e donna - a sua immagine e somiglianza”. Non è un caso che nemmeno le suore siano tutte convinte che sarebbe un bene per la Chiesa uniformarsi a “questo” clero. Non mi perito dunque di argomentare sulla legittimità dell’aspirazione delle donne ad essere considerate in persona Christi. Non mancano, infatti, contestazioni teologiche, anche maschili, alla linea ufficiale della gerarchia perché constatano l’assenza di qualsiasi impedimento di principio scritturale, dato che, se ci fermiamo al vissuto e alla biologia, Gesù, oltre ad essere maschio era anche ebreo e visse poco più di trent’anni. Né mi piacerebbe lasciarmi contaminare da confronti inevitabilmente di potere e riandare, polemicamente, al primato che non vantò - né allora poteva e, forse, nemmeno voleva - Maria di Magdala, dopo che il Risorto formalmente la inviò ai discepoli, prudentemente assenti, con il mandato “Annuncia”. Nessuno, infatti, che voglia restare fedele alla sua parola, dovrebbe ragionare, all’interno della Chiesa, sul potere, tanto meno in un confronto di valore tra “generi”.

Non ho dubbi sulla composizione futura della Chiesa, una volta uscita dalle difficoltà del secolare ritardo denunciato dal card. Carlo Maria Martini. Ma so che nemmeno le chiese potranno uscire dalle crisi attuali senza il contributo delle donne. Per noi cattoliche possibilmente non come sacrestane:  anche un uomo può immaginare il sentire della donna che, in zone del mondo in cui il prete passa di rado, distribuisce un’eucaristia “valida” perché consacrata dall’altro genere.

Le donne cercano solo (provvidenzialmente?) di ribaltare il ruolo che le vorrebbe subalterne e, scegliendo forse la parte migliore - se riusciranno ad evitare che anche il loro pensiero diventi gerarchico - aiuteranno a migliorare la vita, anche della Chiesa a cui può giovare l’alleanza con la loro cultura.

Per ora alla Chiesa manca la voce nostra di donne. Il principio di autorità ci attribuisce anche una cattedra pontificia di teologla senza imparare dall’altra lettura. È proprio il piano dottrinale che necessita il riconoscimento del diritto delle donne ad avere “voce”, ancor prima di ragionare sul sacramento dell’Ordine. La Commissione per lo studio della concessione al diaconato (che, se non sbaglio, lei presiede), senza il riconoscimento dell’autonomia culturale e senza la volontà di condivisione, può, perdoni la battuta, non arrivare nemmeno a correggere il termine “diaconessa” per quella che sarebbe, secondo la corretta morfologia dell’italiano la diacona; d’altra parte, se una funzione che ha ceduto dopo il VI secolo senza fare grande storia, può valere usata come step per il sacerdozio, ma resta escludente.

Sono anch’essi superflui, ma formalmente sopravvivono, il lettorato e l’accolitato: nell’ignoranza generale rappresentano i primi gradini della scala gerarchica. Se non servono, è bene sopprimerli. Ma se servono è lì il primo deficit di parità davanti all’altare. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere ad amici domenicani come mai l’Ordo predicatorum possa avere un OP femminile che non può tenere le omelie. A me è capitato di farlo e perfino di essere richiesta di leggere il Vangelo appena interpretato: mi ha fatto sentire il senso di un’appartenenza mia, autentica, di donna che spende i suoi talenti nella sua comunità e percepisce non l’autorità, ma la cura affetuosa e responsabile della fede.

Una premessa lunga, spero non inutile ai fini di una richiesta. In tempi di così grandi trasformazioni le chiese possono fare molto se tornano alla fedeltà ai messaggi. Ma nessun messaggio riprenderà valore se non si libera da vincoli di potere. Il primo dei quali è la pertinacia di mantenere le donne subalterne ad una suggestione di forza, in sé probabilmente neutra, ma declinata perversamente al maschile e distruttiva dello stesso principio di uguaglianza cristiana. Non si è infatti veramente uguali, se ci si rapporta ad un principio di uniformità astratta e non alle tante diversità che connotano le condizioni umane: la prima in ordine creaturale è quella, appunto, tra uomo e donna. Le donne e gli uomini debbono conoscere la responsabilità dei doni battesimali e interpretare i diversi carismi del loro avere, nel terzo millennio,  regalità, sacerdozio e profezia (non sarebbe male rinnovare la dizione dei termini oggi poco comprensibili). Personalmente chiederei la rinuncia ad accolitati e lettorati a prescindere dal genere; ma mi augurerei che anche lei, nel valorizzarle, ritenga obsolete funzioni laicali che escludono la parità nel servizio dell’altare e della predicazione.

Grata dell’attenzione, le invio le più vive cordialità

 

Giancarla Codrignani

 

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