Koinonia Luglio 2018


Raccogliamo la  testimonianza di Luigi Bettazzi

in “Rocca” n. 13 del 1 luglio 2018

 

UN PASTORE ISTRUITO DAL GREGGE

 

Il Concilio Vaticano II ha portato una ventata di aria nuova nella Chiesa, così come aveva auspicato Papa Giovanni XXIII nell’indirlo. Anche per quanto riguarda i preti, o i presbiteri. Li nomino così e non sacerdoti, dal momento che il Vaticano II ha richiamato (nella Costituzione sulla Chiesa «Lumen gentium ») che tutti i battezzati sono uniti a Cristo – sommo Profeta, eterno Sacerdote e grande Re o Pastore – e son quindi sacerdoti, santificatori del mondo. La priorità (segnalata dalla citata «Lumen gentium») del popolo di Dio sulla gerarchia, che ne è al servizio (in latino «ministerium»), suggerisce questa novità, che qualcuno – come la cosiddetta «officina bolognese» di don Dossetti e del prof. Alberigo – ha voluto indicare come «rivoluzione copernicana», nel senso che, come Copernico aveva rovesciato la dottrina tolemaica (non più il sole che gira intorno alla terra, ma questa intorno a quello), così il Concilio ha rovesciato la prospettiva di un laicato subordinato alla gerarchia, indicando invece che questa è al servizio dell’intero «popolo di Dio», di cui del resto la gerarchia stessa fa parte. L’altra «rivoluzione copernicana» sarebbe quella che non privilegia la Chiesa sul resto del mondo, ma la mette «sacramento» (come dice sempre la «Lumen gentium») cioè segno e strumento di salvezza per l’intera umanità.

 

continuità o rivoluzioni?

Questa espressione («rivoluzione copernicana ») è stata ovviamente contestata; e Papa Benedetto XVI, nel suo primo discorso alla Curia vaticana (dicembre 2005), ha ribadito che non vi sono state rotture, ma continuità. Ed è vero che sul piano dogmatico non vi sono state rotture; al massimo sono

state richiamate dottrine un po’ trascurate, come quella della salvezza offerta a tutti (lo ha ribadito lo stesso Benedetto XVI, sottoscrivendo il risultato di un’indagine dell’Associazione Teologica internazionale che il limbo era stato un’ipotesi per affermare l’importanza del battesimo) o quella della collegialità (che in Vaticano era sempre esistita, con le riunioni dei vescovi suburbicari o con i Concistori dei Cardinali).

Sul piano pastorale invece sono evidenti le... rivoluzioni, come quella della Bibbia, prima riservata agli alti livelli della gerarchia e ora data in mano e raccomandata a tutti i fedeli, o quella della liturgia, a cui prima si «assisteva» (magari dicendo altre preghiere come il Rosario), mentre ora «si partecipa » proprio perché è la preghiera del popolo cristiano, che si unisce così all’eterna preghiera di Gesù Risorto che salva il mondo.

Il presbitero, nei primi tempi designato come l’«anziano» (così significa in greco «presbitero»), secondo la tradizione ebraica presiede l’assemblea dei fedeli. Nel Nuovo Testamento si fa fatica a distinguerlo dal diacono (che vuol dire «servitore», e viene immediatamente posto al servizio degli Apostoli) e dall’episcopo (cioè dal «sovraintendente l’assemblea» e potrebbe essere qualunque assemblea). Pare perfino che l’Eucarestia di cui parla S. Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, venisse realizzata senza un dirigente qualificato, di cui appunto non si parla. Sarà poi con S. Ignazio di Antiochia, dopo molti decenni di vita della Chiesa e dopo la scomparsa degli Apostoli, a precisare le tre categorie dei ministri ordinati con i loro specifici ministeri: i vescovi, i presbiteri, i diaconi. Ma poi quando la Chiesa con Costantino, agli inizi del IV secolo, acquista la sua libertà, tanto più quando verso la fine del secolo, con Teodosio, diventa la religione ufficiale dell’Impero, allora, ne assume le strutture ed i ritmi (i cittadini si lamentavano che le diligenze imperiali fossero spesso occupate dai Vescovi, in giro per i loro Concili o Sinodi!); tanto più quando il Papa diventa monarca (ovviamente assoluto) consigliato o servito dai vescovi e dal clero (il cardine sarà costituito dai parroci di Roma, i «Cardinali», che ancora oggi sono titolari delle parrocchie romane). È consequenziale che il prete venga considerato come un «capo» che ha un potere assoluto (come i suoi Superiori, ciascuno al suo livello), a cui i fedeli non potranno far altro che obbedire (come i Carabinieri, «pronti a obbedir tacendo»).

La separazione, prima degli Orientali (gli Ortodossi), poi dei Nordoccidentali (i protestanti), al di là o al di dentro delle motivazioni dottrinali, aveva forse anche sollecitazioni... etniche o politiche.

 

premessa di un cambiamento

La premessa (almeno psicologica) di un cambiamento s’è avuta con la fine del Potere Pontificio quando, il 20 settembre 1870, i bersaglieri italiani entrarono per la breccia di Porta Pia, suscitando la scomunica per il governo degli occupatori (dopo un secolo, in Campidoglio, l’Arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini dichiarerà provvidenziale la fine di quel potere), si preparò la strada, anche mentale, per il cammino successivo fino al Concilio Vaticano II.

È vero che quando Papa Roncalli, un anziano nominato Papa «di transizione» (per far Cardinale l’Arcivescovo Montini e rendergli possibile l’elezione al Papato), indisse inaspettatamente un Concilio Ecumenico, sgomentò i Cardinali, riuniti a S. Paolo fuori le Mura per la conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, e certi – come tutto il mondo ecclesiale – che non ci fosse più bisogno di un Concilio, dopo che il Vaticano I, nel 1870, aveva definito l’infallibilità del Papa quando precisa verità (di fede) o di morale. Forse non avvertivano che quella definizione si riferiva all’infallibilità della Chiesa, che il Papa deve interpretare ed esprimere. E non c’è modo migliore per conoscere il pensiero della Chiesa intera se non quello di consultare i Vescovi di tutto il mondo. Tanto più che Papa Giovanni aveva indetto un Concilio più pastorale che dogmatico. E se i Concili, per tradizione, precisano le verità – i dogmi – scomunicando («anathema sit») quanti non li accettano, gli altri, i pastorali – considerati quasi minori, quindi con la possibilità di ignorarli – si preoccupano invece che il popolo di Dio possa capire accuratamente quanto viene proposto e possa così accettarlo con convinzione ed efficacia.

 

chiamati a servire

In questa prospettiva emerge il «ministero » della gerarchia, chiamata non a comandare, ma a servire. Se deve insegnare, non deve imporre quanto i fedeli, proprio a cominciare dai giovani, dovranno imparare a memoria, ma dovrà rendersi conto di com’è la sua gente, di come questa potrà capire e convincersi che quello che viene presentato possa inserirsi nella loro vita. Se si celebrano dei riti, si dovrà fare in modo che li sentano come un incontro vivo ed attuale con Gesù. Dovranno sentire infine che essere cristiani non è un privilegio ma una responsabilità, quella di essere, sempre e dovunque, portatori di fraternità e di pace, cosicché i fratelli cristiani, ma anche quelli che non lo

sono, realizzino sempre più e meglio il regno di Dio, che è un’umanità aperta a Dio e portatrice di fraternità e di pace. Riconosciamo che questo è più difficile.

Era più facile (non so se più efficace) sentirsi un capo e comandare, sconfessando quanti non si adeguavano. E forse questa è la tentazione anche di preti giovani, che ricopiano nello stile e anche nell’abito i preti di una volta.

Credo che prima ancora delle motivazioni culturali e sociologiche la gente (e non solo quella giovane) abbandona la Chiesa per un’insoddisfazione interiore: in un mondo di esseri umani sempre più coscienti e liberi la gente fa fatica a… obbedir tacendo.

Solo un atteggiamento di umiltà e di servizio può costituire un invito ad accogliere, a riflettere, ad acconsentire.

Gesù ha ripetuto più volte che i grandi del mondo comandano e si fanno chiamare benefattori, ma, nella Chiesa, chi è più grande deve essere come colui che serve. E, nel momento in cui istituisce il sacramento che ne assicura la presenza fra l’umanità per sempre, asserisce che questo comporta (lo attesta il Vangelo di Giovanni, con un’aggiunta ai tre Vangeli sinottici ritenuta necessaria) che si lavino i piedi gli uni gli altri (gli Apostoli tra di loro, ma i cristiani con tutti). E questo viene indicato come indispensabile, tanto da ricevere lo stesso mandato della trasformazione del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue: «fate questo in memoria di me», cioè fatelo perché io l’ho fatto! È la mancanza di questa testimonianza che allontana la gente, ormai abituata a risolvere tutti i problemi col telefonino, erudito ma freddo? Non porterà questo stile ad alimentare la chiusura in se stessi, nei propri interessi, nelle soddisfazioni personali? Calano le percentuali di quanti fanno la Prima Comunione e la Cresima e soprattutto di quanti poi non tornano più (dicono che un buontempone, ad un amico tormentato dai topi nella casa, suggerisse: «Fagli dare la Cresima, dopo non li vedrai più!»). Ma è la gente in generale che sente la Chiesa lontana, su un altro pianeta, chiusa nella propria storia, nei propri riti, nei propri interessi.

È un problema di... rivoluzione per noi che siamo già presbiteri, quello di sapere stare in mezzo alla gente per ascoltarla. Papa Francesco direbbe: «Avere l’odore delle pecore ». E proprio lui, quand’era Arcivescovo a Buenos Aires, avendo saputo che nelle periferie congestionate (le «Villas») un prete può arrivare a cinquecento metri, ne aveva insediati ciascuno a quella distanza, andando spesso a trovarli, per loro sostegno e per loro conferma di fronte alla popolazione.

 

il problema della preparazione

Questo ovviamente comporta che la preparazione sia adeguata. I nostri Seminari (ho novantacinque anni!) ci chiudevano (anche per gran parte dell’estate) per evitare le tentazioni del mondo. Ed anche nel Seminario del mio ginnasio, dopo i primi anni di notte nei cameroni controllati da due prefetti, ci chiudevano poi in venti monolocali, ciascuno col suo bugliolo. E se dovevamo restarvi perché malati ci facevano servire da donne anziane, che noi chiamavamo «preparazione alla Messa» (il nome di una serie di preghiere che si disponevano nelle sacrestie), per dire che erano al di là di ogni tentazione.

Quando, giovane prete, partecipavo in Francia ad incontri sacerdotali della spiritualità Jesus Caritas (ispirata all’eremita del deserto, oggi Beato Charles de Foucauld), notavo l’evidente disinvoltura dei preti francesi, che avevano fatto un anno di servizio militare. Ovviamente non auspico questo per i nostri seminaristi (quando c’era il sevizio militare, ne eravamo dispensati in forza del Concordato), ma certamente un’esperienza di lavoro o periodi passati in mezzo alla gente o a gruppi di giovani (e non solo dei Movimenti spesso chiusi in se stessi), ma anche di Parrocchie aperte ad esperienze molteplici, aiuterebbe i preti di domani ad avere l’odore delle loro pecore ed a saper quindi annunciar loro il Vangelo con maggiore efficacia.

Penso che dovrebbero educarsi anche ad uno stile di sobrietà. Una chiesa che sente – se vuol esser fedele all’esempio e al mandato di Gesù (e riproposto dal Concilio e dall’impegno di Papa Francesco) – di essere «Chiesa dei poveri», dovrà trasmetterne lo spirito, contro la tentazione, diffusa un tempo, che il presbiterato fosse una certezza di buona sussistenza per sé e per la famiglia (Papa Francesco direbbe: «lo stile del faraone»).

Penso che un altro caposaldo dell’educazione seminaristica dovrebbe essere quella dello stare e del

lavorare insieme, tanto più necessario in un tempo in cui l’uso dei cellulari e strumenti analoghi alimenta l’individualismo.

Questo corrisponde alla collegialità, richiamata dal Concilio (e ispirata al «Collegio» degli Apostoli), e alla sinodalità, ribadita da Papa Francesco, e che non è limitata solo al Collegio dei

Vescovi intorno al Papa, ma ad ogni livello della Chiesa (vescovi e sacerdoti in mezzo al popolo di Dio), dato che lo Spirito Santo agisce in ogni battezzato, e nell’interno del popolo di Dio suscita

Istituti religiosi e Movimenti, con il compito per la gerarchia di verificarli e di coordinarli. Sono solito dire che la gerarchia ha il compito dell’ultima parola, che però è tale solo se prima ve ne sono state altre (il ministero dell’unità, non l’unità del ministero). Questa mentalità del «lavorare insieme» preparerà anche all’apostolato delle «Unità pastorali», dove diversi presbiteri dovranno  lavorare insieme portando anche i laici delle varie parrocchie a superare le chiusure delle loro origini.

Che sia per questo – mi viene da pensare un po’... cinicamente – che il Signore riduce le vocazioni presbiterali o religiose, per indurci finalmente a riconoscere i laici battezzati responsabili accanto alla gerarchia nella vita della Chiesa, affidando a loro con fiducia responsabilità operative (a cominciare da quelle finanziarie, di cui di solito siamo molto gelosi...) da coordinare, sì, ma prima da suscitare.

Un’altra preoccupazione, nell’educazione dei presbiteri d’oggi, è quella della sessualità, un tempo ritenuta meno necessaria per l’isolamento della vita seminaristica e di quella successiva del ministero presbiterale.

Un tempo si insisteva molto sullo stile di difesa che salvaguardava il celibato; bisogna insistere di più sulla castità come pienezza d’amore (verso Dio e verso i membri del popolo di Dio), contro l’insistente tentazione ad utilizzare la spinta dell’erotismo come soddisfazione egoistica dei propri impulsi. Ed è necessario non solo per sé, ma anche per il ministero, in un tempo di diffuso sessualismo e delle sue molteplici conseguenze negative.

E come non ricordare che, in un mondo dove l’ambiente non favorisce ma stimola, diventa ancor più necessaria una forte spiritualità alimentata dalla preghiera, da quella liturgica ben eseguita, ma anche da quella personale, sincera e prolungata? Momenti di sosta, giornate di «deserto» (come dice la spiritualità Jesus Caritas), a tu per tu con Lui, ma a tu per tu con se stessi, diventano indispensabili e significativamente efficaci.

Credo che si tratti di «conversioni» necessarie, e Papa Francesco le richiama spesso con le parole, ma soprattutto con l’esempio (Padre Congar diceva che per capire bene e vivere pienamente un Concilio ci vogliono cinquant’anni. Si vede che anche lo Spirito Santo lo sapeva!). Me ne rendo tanto più conto per aver passato quattordici anni di preparazione in Seminario (con l’interruzione della guerra) e di esservi stato catapultato ad insegnare al mio ritorno da Roma. Ho fatto una troppo breve esperienza in una Parrocchia particolare (piccola ma destinata ad essere Parrocchia Universitaria) mentre però continuavo ad insegnare in Seminario, ed in più ad essere Assistente diocesano dell’Azione Cattolica.

La mia educazione è stata in famiglia (eravamo sette!), poi nei Seminari maggiori (Bologna e Roma) ed infine tra gli universitari della Fuci e nel contatto con i laici dell’Azione Cattolica e con i loro Parroci.

M’hanno aiutato molto alcuni preti amici, come i dirigenti (della Fuci e dell’Azione Cattolica) e, da Vescovo residenziale, i miei preti e la mia gente, con cui cercavo di avere il maggior contatto possibile, soprattutto quello non istituzionalizzato: è stato il gregge ad istruire il Pastore. E ne ringrazio il Signore.

 

Mons. Luigi Bettazzi

 

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