Koinonia Luglio 2018


Una meditazione di mons.Paolo Andreotti

 

BEATI COLORO CHE PIANGONO PERCHÉ SARANNO CONSOLATI

(Lc 6,20-23)

 

Questa Beatitudine, come le altre, va vista nella prospettiva, nel contesto del Regno. Gesù non intende dire che la sofferenza e altre penose condizioni della vita siano benedizioni in quanto tali, ma vuole insegnarci a interpretare, capire e vivere queste situazioni sfavorevoli nella prospettiva e alla luce del Regno. Non chiama beati i poveri perché sono poveri, ma perché a loro appartiene il regno dei cieli. Sofferenze, disgrazie non hanno valore per sé, ma sono condizioni della vita alle quali il Signore dà il senso giusto e vivificante. Ci aiuta a capirle e a viverle con atteggiamento appropriato.

Nel disegno di Dio, la sofferenza acquista un valore positivo, che, invece di opprimere l’uomo, lo aiuta a crescere. La sofferenza non è un male da evitare a qualunque costo, ma una situazione da affrontare, a qualunque costo.

 

Chi sono coloro che piangono?

- Gesù si riferisce a quella condizione della vita di cui nessuno è esente. Alcuni soffrono a causa della salute, altri perché sono poveri, alcuni per la solitudine, altri perché non sono compresi o considerati, alcuni perché hanno troppo da fare, altri perché non riescono a trovare l’occasione per realizzare le loro aspirazioni e far valere le loro capacità.  Quindi le ragioni per soffrire sono molte: la nostra vita è segnata dalla sofferenza, ma anche la capacità di soffrire è diversa:

1 - Possiamo prendere un atteggiamento passivo e rassegnato, senza reagire in alcun modo.

2 - Possiamo prendere un atteggiamento di stoica resistenza, indurendo il nostro cuore. 3 - possiamo prendere l’atteggiamento di fuga, cercando il piacere a qualunque costo.

 

- Viviamo in una società in cui il progresso è sinonimo di benessere, di godimento, e una cultura che ha per base il pessimismo.

- La cultura è il giudizio (modo di vedere) che l’uomo dà alle realtà che lo circondano.

- Mentre la civiltà (società) è orientata verso il benessere, la cultura opta per il pessimismo. Può sembrare un paradosso, ma si può spiegare facilmente.

- L’ uomo, nel suo sforzo di godere la vita, nella sua ricerca del piacere, è puntualmente deluso dall’esperienza della realtà. Nessuna cosa creata può soddisfare completamente il cuore dell’uomo. - Avendo fatto del benessere un assoluto, abbiamo rovesciato l’ordine della creazione. - Ma di fronte al fallimento della ricerca , di soddisfazione nelle cose create,l’uomo si ribella e rigetta la vita.

- Questi non sono gli afflitti, coloro che piangono di cui parla il Vangelo: il piacere e il godimento sono l’aspirazione di tutto il loro essere.

Quelli che piangono, del Vangelo, sono coloro che senza fare dei godimenti o della sofferenza il principio della loro vita, ne accettano la realtà con fiducia e speranza, sapendo che per mezzo di questa via provvidenziale raggiungeranno il Regno.

Siamo noi coloro che piangono, di cui parla il Vangelo? Saremmo inclinati a dire che lo siamo, ma un esame accurato ci mostrerà che ci sono ancora  in noi macchie nere: la mentalità edonistica ha avvelenato anche noi.

 

Perché soffrire?

La sofferenza è parte inevitabile della nostra vita, una realtà alla quale non possiamo sfuggire. Perché? La nostra vita sulla terra ha i suoi limiti, da essi deriva la nostra sofferenza. Poiché tribolazioni e sofferenze sono condizione della nostra esistenza terrena, si deve intenderle, interpretarle, come temporanee e provvisorie. Non dureranno oltre la vita. La provvisorietà e la relatività della sofferenza ci deve spingere, provocare a credere e a sperare in una nuova condizione in cui la vita sarà libera da ogni sofferenza, sarà felice.Il peccato è senza dubbio il più grande dei limiti dell’esistenza umana sulla terra, per cui molte delle nostre sofferenze sono dovute al peccato.

Per esempio, pensiamo a quanta pena e dolore derivano dalla reciproca incomprensione nella vita in comune, dall’egoismo, dall’egotismo nelle nostre relazioni interpersonali. Pensiamo quanta sofferenza causa l’ingiustizia sociale!

 

Se l’uomo si rendesse conto che molte sofferenze e tribolazioni sono causate dalla provvisorietà della vita umana e dal peccato, sarebbe vicino al Regno.

Vista in questa prospettiva, la sofferenza non ci sembrerà più un male inevitabile, un incubo, una disgrazia, una schiavitù, un Dio del male.

 

Sofferenza e speranza

Vista da questa angolazione, la sofferenza diventa una sfida. verso il futuro. Colui che piange è esortato a sperare nel futuro. Il gaudente, invece, colui che è riuscito a liberarsi di quasi tutte le sofferenze e miserie della vita, teme il futuro, è felice nel tempo presente, ma il futuro lo spaventa. Dio non vuole che l’uomo soffra, ma, poiché rispetta la sua libertà, ha trasformato la sofferenza a suo vantaggio. Per l’uomo la sofferenza sarebbe stata la sofferenza della disperazione e della perdizione nel tempo presente e nell’eternità.

La beatitudine di coloro che piangono comincia qui, nella vita presente e raggiunge il compimento in, quella futura. L’eternità non è soltanto il futuro, ma anche il tempo presente, così la beatitudine, “saranno consolati”, contiene una tensione, un’ansia verso il futuro, una sfida che oggi stimola la nostra vita e domani sarà completa e+ definitiva.

 

Consolazione e salvezza

Gesù non dà alla sofferenza un valore per se stessa, le dà un senso. Proclama “Consolazione” duella che egli stesso ci portò con la sua salvezza. La sofferenza proviene dalla “provvisorietà” della vita presente e dal peccato. La liberazione che ci viene da Gesù è liberazione dal peccato e inizio della vita eterna fin da ora. Così la vera “consolazione” ci viene dal mistero di Cristo. “Consolazione” ha un senso messianico, è un tema dominante nei discorsi di Isaia; consolare, col dare un nuovo senso alla vita, col liberare e salvare l’uomo. Questa beatitudine, come le altre, ha valore messianico: pensiamo alla liturgia dell’Avvento.

Cristo è la nostra consolazione

Egli è il Consolatore: la nostra consolazione, la nostra redenzione, l’adempimento di tutte le promesse. Proclamando questa beatitudine, Gesù proclama se stesso: vi consolerò, vi nutrirò, estinguerò la vostra sete. La beatitudine proclamata e dataci da Gesù è un dono interiore che riempie di gioia il nostro cuore, è partecipazione alla felicità di Dio (Egli è la nostra gioia) di cui Gesù è la proclamazione e il sacramento.

Ancora una volta ci troviamo di fronte a una domanda radicale della nostra esperienza cristiana: l’uomo ha bisogno dell’incontro con Dio, più scopriamo e incontriamo Dio, più siamo felici. Questa beatitudine è in contrasto con l’esperienza di coloro che vivono senza Dio.

 

Gesù è il paziente beato (colui che piange)

E’ bello, è incoraggiante sentirsi dire “Beati coloro che piangono” da Gesù che ha sperimentato la sofferenza in così grande misura... e ogni genere di sofferenza, fisica, psichica e morale.

Nella persona di Gesù coesistono la felicità eterna di Dio e la “passibilità” propria dell’ uomo. In lui la sofferenza umana è stata trasformata interamente in beatitudine.

 Anche noi, con la sofferenza, la pazienza e l’accettazione delle circostanze della vita, siamo elevati alla beatitudine di Dio. La nostra consolazione consiste nel partecipare ai misteri di Cristo. Egli ci chiama a soffrire per partecipare alla sua passione e morte e nello stesso tempo a partecipare alla beatitudine eterna del Figlio di Dio.

 

L’esperienza della Chiesa

La storia della Chiesa, dal tempo degli Apostoli fino ai nostri giorni, prova la realtà e la validità di questa beatitudine. Gli Apostoli, trascinati davanti ai tribunali, flagellati, messi in carcere, perseguitati in tutti i modi, erano “...lieti di essere giudicati degni di patire oltraggi per il nome di Gesù” (Atti, 5,41).

S. Paolo: “Sono pieno di consolazione, sovrabbondo di gioia, in mezzo a tutte le tribolazioni” (2 Cor.7,4).

I martiri, i santi, nei secoli seguenti ebbero tutti lo stesso amore per la Croce di Cristo. Essi capirono il valore delle parole di s.Paolo: “Godo delle sofferenze in cui mi trovo e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo,

 

a favore del corpo di lui che è la Chiesa” (Col.1,24).

S.Francesco d’Assisi, P. Pio da Pietralcina, s.Giovanni della Croce, Santa Gemma Galgani, per i santi la croce, soffrire per Cristo, è stato sempre una grande sorgente di gioia.

Quello che era vero per loro lo è anche per noi: soffrire con Cristo genera gioia, consolazione; dovrebbe diventare un aspetto normale della nostra vita. Quando arriva l’ultimo momento della nostra sofferenza, l’ora della morte, la sofferenza della morte e la morte della sofferenza coincidono.

La tribolazione non è un bene in sé, è una realtà della vita che può diventare bene e gioia con la meditazione sulla fede, la speranza e l’amore. Per vivere in tal modo non è necessario essere eroi, basta credere.

 

Adorare il disegno di Dio (Giob.38,4,42,1-6)

Infine, la sofferenza, come il male,è un mistero. Dobbiamo cercare di dare una risposta al mistero, ma alla fine, come Giobbe, dobbiamo piegare il capo e adorare il mistero di Dio.

Questo mistero è illuminato solo dalla Croce di Cristo. Se riusciamo ad adorare il disegno di Dio, incominciamo a sentire la gioia di soffrire.

 

La Croce nella vita religiosa

La croce occupa un posto eminente nella vita religiosa: la croce come mistero di dolore e di morte. La vita religiosa , fin dagli inizi, è stata caratterizzata da un notevole spirito di penitenza e austerità: rinnegamento di sé, sacrifici, duro lavoro e una quantità di vincoli. Questa dimensione penitenziale ha le sue radici nel cuore e trova la sua espressione nelle pratiche esterne: penitenza, come sofferenza ed espiazione per il peccato, in conformità e partecipazione alle sofferenze di Cristo.

Oggi, l’aspetto penitenziale della vita religiosa è in decadenza. Le penitenze del passato sono considerate esagerazioni. Ma, mentre allora le Case religiose erano considerate Case di gioia, ora, piuttosto spesso, nonostante tutti i conforti e le facilitazioni, nella vita religiosa c’è molto disagio e malcontento. Abbiamo abbandonato il sacrificio ed è sparita la gioia.

Esaminiamoci alla luce di questa beatitudine. Siamo tra coloro che piangono e che vogliono essere consolati, quelli di cui parla il Signore? O piuttosto, perché temiamo di soffrire, respingiamo tutto ciò che costa pena e fatica, e la nostra vita è vuota, senza senso, priva di gioia?

 

Guardiamo a Gesù, il sofferente Servo (di Jahvé, che è il benedetto, per seguirlo nella sia Passione e così partecipare alla sua gioia.

 

 

 

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