Koinonia Febbraio 2018


Dopo l’Assemblea del 2 dicembre 2017

 

RIPARTIRE DA ROMA VERSO KAIRÒS-ITALIA

 

I - “Ebbene, noi siamo qui per capire e prenderci la responsabilità di stare in mezzo a due epoche: il che vuol dire che stiamo tra una fine e un principio… Noi siamo dentro la fine e dentro il principio, i quali perciò dipendono anche da noi”. Sono le parole con cui R.La Valle apre l’Assemblea “Chiesa di tutti chiesa dei poveri” il 2 dicembre a Roma. Mentre a conclusione della sua analisi, volendo indicare la prospettiva e il compito dell’assemblea romana, dice: “L’alternativa è quella per cui è riunita questa assemblea, ed è di dare mente, cuore e gambe perché venga il tempo e sia questo, in cui non solo nei santuari né a Gerusalemme, sia adorato il Padre in spirito e verità”.

Se la prospettiva è quella di uscire da un mondo che finisce, l’impegno è prestarsi per l’avvento di un nuova epoca. Tutto questo non può rimanere in sospeso come modo di dire, ma deve entrare nelle fibre della nostra esistenza quotidiana e qualificare il nostro cammino come esistenza cristiana e teologica: e cioè ricerca del Regno vissuta e condivisa! Infatti essa “si inserisce in un contesto messianico che annuncia la salvezza, e nella nostra tradizione, pur frequentata da tanti falsi profeti, c’è un solo messia, che è Gesù, che appunto perciò è chiamato il Cristo”.

Già nell’appello kathecon la raccomandazione finale era questa: “Ciò che auspica questo appello è che tale visione del mondo e della civiltà di domani non solo sia enunciata come ideale, ma sia assunta come compito, diventi resistenza e azione, si faccia movimento”.

Prendendo atto della necessità di discernere dove sta veramente il cambiamento in senso storico e culturale, non possiamo nasconderci che al fondo c’è un sostrato teologico da cui non si può prescindere. Se gli eventi e i processi storici ne sono la materia, la dimensione di fede ne è la forma. Certamente la materialità storica appare più rilevante, ma l’aspetto teologico è più importante e trasversale, e richiede d’essere messo in rilievo:  non basta lasciarlo allo stato implicito. Non a caso si cita il n.10 della Gaudium et spes, quando dice che “sotto tutti i cambiamenti ci sono delle cose che non mutano” (affirmat Ecclesia omnibus mutationibus subesse quae non mutantur).

È significativo, in effetti, che il “cambiamento d’epoca non solo venga evocato con le parole di papa Francesco, ma che si faccia riferimento al suo magistero e al suo pontificato come tempo di svolta. Ecco allora, tra i tanti cambiamenti in atto, la segnalazione e l’approfondimento di alcuni fenomeni “che veramente finiscono e su cui massimamente, a mio parere – dice Raniero - si gioca l’alternativa tra una fine che potrebbe essere tombale e un nuovo principio di cui forzare l’aurora”.

Sono, come già sappiamo, la fine dell’ istituto-guerra come strumento politico; la fine della segregazione istituzionale dei popoli e il ritrovato diritto alle trasmigrazioni (jus migrandi); la fine di un rapporto di sfruttamento della terra,  perché torni ad essere madre e rispettata in quanto tale; se questi movimenti hanno già qualcosa di biblico, un cambiamento d’epoca  avviene complessivamente dentro il Popolo di Dio, e precisamente come uscita dal regime di cristianità - come unità organica tra politica religione e fede -  per ritrovare il volto evangelico della chiesa o, come dice la Valle, ritrovare il cristianesimo.

Proprio in questo senso, sono importanti queste annotazioni: “Il papa dunque prende atto che c’è una forma religiosa che è finita. E in compenso ha la forza e la capacità di dar vita a una nuova predicazione cristiana. La predicazione nasce da una teologia, da una liturgia, da una lettura della Scrittura. Così infatti si era formata la cristianità, a partire da una teologia pervasa da una certa immagine di Dio, che era il Dio della potenza, del giudizio, della condanna, che aveva bisogno del sacrificio del Figlio per essere soddisfatto dell’offesa ricevuta. È dunque a partire da un nuovo annuncio di Dio, che la cristianità si converte in cristianesimo”.

Intenzionalmente o meno, in queste parole c’è il vero nodo da sciogliere e il vero compito da assolvere dentro il processo di cambiamento d’epoca:  il passaggio da una forma religiosa finita alla nascita di un nuovo Popolo di Dio avviene attraverso “la capacità di dar vita a una nuova predicazione cristiana”, che a sua volta “nasce da una teologia, da una liturgia, da una lettura della Scrittura”, per cui è “a partire da un nuovo annuncio di Dio, che la cristianità si converte in cristianesimo”.

Personalmente mi viene da ripensare a Tommaso D’Aquino che scrive la sua “Summa” o compendio di teologia in funzione appunto di una nuova predicazione. Viene da pensare anche ai conventi domenicani, originariamente luoghi di vita ed elaborazione evangelica, voluti come “case di predicazione” e quindi di ricerca e riflessione teologica, in alternativa alla cristianità ma alla fine anch’essi integrati e ingranaggi del sistema

Se posso introdurre un altro elemento come indice  del cambiamento d’epoca  da scrutare e da assecondare, è quello della “pietà”, che in fondo ci riporta all’istanza di adorazione in spirito e verità, a come cioè si vive personalmente e comunitariamente il nostro rapporto col Padre. È un punto chiave su cui si gioca la vicenda di un nuovo Popolo di Dio!

II – Una istanza di discontinuità non emerge soltanto da una lettura d’insieme del momento, ma è confermata sul piano storico, e viene documentata da Daniele Menozzi nella sua relazione “Dopo quale storia della Chiesa”, dove si legge: “La svolta di papa Francesco conclude il secondo millennio cristiano superando le cadute culturali ed evangeliche che avevano sinistrato i rapporti interni alla Chiesa ed il suo rapporto col mondo”. E per dimostrarlo Menozzi si sofferma “su tre momenti significativi del passato ecclesiale rispetto ai quali il papato di Bergoglio segna un palese mutamento di indirizzo”.

Per prima cosa “Il papa non è il signore della Chiesa” su cui esercita un potere personale, assoluto, illimitato e universale, al punto che, come riflesso ecclesiologico, “essere cattolici significava accettare la monarchia papale sulla Chiesa”. “Tuttavia è anche palese che alcuni tratti del governo di papa Francesco cominciano ad erodere questa impostazione”. Egli vaverso un’ecclesiologia di comunione” che si traduce in collegialità e sinodalità: sono “l’avvio di un processo in cui l’ecclesiologia verticistica scaturita dalla riforma gregoriana cede il posto ad una ecclesiologia di comunione in cui tutte le componenti del popolo di Dio, compresi i laici, partecipano ai processi decisionali”.

E se era necessario decostruire la figura del Papa che è arrivata a noi dal medioevo, così è da superare la lunga stagione controriformistica che viene a noi dal Concilio di Trento, e che ha segnato un modello monolitico di chiesa, tanto che “ fino al Vaticano II l’assetto ecclesiale è stato in larga misura determinato dalle scelte allora compiute. Per fare qualche esempio, si può ricordare l’accentuazione delle opere – in particolare le pratiche sacramentali e il culto delle immagini – come vie per la salvezza; la liturgia in lingua latina; le forme individualistiche della pietà; la separatezza della formazione sacerdotale dal mondo circostante; il clericalismo della pastorale; una gestione dei beni ecclesiastici diretta alla promozione dello sfarzo esteriore; gli ostacoli frapposti all’accesso diretto dei fedeli alla Scrittura. Quest’insieme di elementi – e gli altri che si potrebbero aggiungere – venivano emblematicamente rappresentati come tratti costitutivi dell’identità cattolica attraverso la formula con cui si chiudevano i decreti del Tridentino: anathema sit per chi non aderiva alle concezioni in essi espresse”

Questo stato di cose ha portato da una parte alla condanna e all’esclusione come metodo e dall’altra inevitabilmente alla teorizzazione  e alla pratica della “guerra giusta”, che sono in via di superamento sia come cancellazione dell’anatema che come abbandono e riprovazione della violenza bellica. Altro traguardo che ci sta davanti!

Altro ostacolo da superare è “l’intransigentismo, per un nuovo rapporto con la modernità e con la storia”: “Il terzo momento che vorrei considerare riguarda l’affermarsi nella Chiesa cattolica di quella cultura intransigente che, nata come risposta allo choc rappresentato dalla Rivoluzione francese, è entrata come elemento costitutivo del magistero papale con Pio IX alla metà dell’Ottocento. Da quel momento è diventata il fondamentale punto di riferimento per il papato romano fino al governo di Pio XII ed è stata poi variamente ripresa in nuove declinazioni dopo gli sforzi di abbandonarla all’inizio della seconda metà del Novecento, che si registrarono nel periodo giovanneo e conciliare”.

A fronte di tutto questo, “quel che caratterizza l’indirizzo di Francesco sta nell’inquadramento in una ben diversa impostazione complessiva del rapporto tra Chiesa e modernità. In effetti alla persuasione di un possesso esclusivo della verità politica e sociale – prospettata come il solo rimedio ai mali di un mondo che la pretesa di emancipazione dell’uomo dalla tutela ecclesiastica conduce alla sua rovina – il papa argentino sostituisce l’enunciazione una diversa prospettiva. Nell’organizzazione della vita collettiva la Chiesa si mette ora in relazione con gli uomini, non per additare l’unica strada che li conduce, oltre che alla salvezza eterna, anche alla felicità temporale, ma per cercare insieme a loro quelle soluzioni che meglio rispondono alle esigenze dei tempi. Questa indicazione ha come ovvio presupposto che, nella definizione delle regole del consorzio umano, nessuno può pretendere di essere l’unico depositario della verità e suo esclusivo interprete. È, invece, attraverso il libero contributo di tutti che si può giungere ad individuarla”.

Meritava riportare per esteso queste parole per chiarire cosa c’è in gioco anche ai nostri giorni e per poterci dire come uscirne. In questo senso Menozzi coglie alcune indicazioni, quando dice che nell’ottica di Francesco “il richiamo non va alla legge naturale di cui la Chiesa si autoproclama unica autentica portavoce, ma al Vangelo. Chiara è inoltre l’indicazione che il significato del messaggio evangelico non può essere adeguatamente colto al di fuori del tempo, dal momento che la sua intelligenza può avvenire solo nella storia e nella lucida consapevolezza delle trasformazioni che il suo divenire comporta”.

III – Attraverso il discorso sapienziale di Raniero La Valle e l’analisi storica di Daniele Menozzi una lettura teologica del cambiamento è già emersa. Ma che interviene opportunamente una riflessione teologica propriamente intesa, affidata a Giuseppe Ruggieri. Essa è necessaria come è necessario lo scheletro per un corpo: quello che conta, naturalmente, è la verità allo stato vissuto, ma ad evitare che questa  evapori e svanisca sull’onda dell’esperienza e delle contingenze - diventando opinione, ideologia, pregiudizio - deve in qualche modo avere rilievo.

È necessario cioè che quanto la vita e gli eventi dicono venga ascoltato,  metabolizzato, fatto proprio e custodito interiormente appunto come capacità di discernimento e come cultura: “Non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso” (Dante, Paradiso, V, 41-42) Non basta passare tranquillamente  da un discorso all’altro, magari evidenziando ciò che li differenzia più che quanto possa unificarli. Ecco perché, ripartendo da quanto è stato detto all’assemblea di Roma, l’intento è quello di costruire e sviluppare un discorso unitario e continuativo, di dominio comune. Diversamente, non si capirebbe come sporadici fuochi d’artificio possano accendere quel fuoco che qualcuno è venuto a portare sulla terra per rinnovare il mondo.

Questa rilettura di verifica o di secondo grado ci è appunto offerta dalla relazione del Ruggieri: MA ADESSO È L’ORA DI MANIFESTARE LA FORZA DEL VANGELO”. Dove appunto il cambiamento radicale e il passaggio d’epoca sono visti come manifestazione della “forza del vangelo”, non solo come dato di fatto ma come tematizzazione di principio.

Ricordando che “di un inizio nella Bibbia si parla altre volte… inizio sempre nuovo, o meglio, sempre in movimento”, egli annota:  “Ma il vangelo di Giovanni sposta l’inizio ancora una volta con le parole che abbiamo appena citate, «Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano». Anche qui quindi viene indicato un inizio e questo inizio si pone quando la verità che è Gesù di Nazaret (perché egli manifesta ciò che era in Dio fin dall’inizio), viene comunicata con la potenza dello Spirito. Allora sorge una nuova dimora dove Dio incontra l’uomo. Questa dimora non è più in nessun tempio costruito dall’uomo, sia a Gerusalemme che in Samaria, in nessuna delle nostre Chiese di pietra. È una dimora creata dallo Spirito, ma reale. Essa viene costruita ogni qual volta un uomo e una donna accolgono nella loro vita questo inizio e così adorano Dio in Spirito e verità, raggiungono l’inizio di ogni cosa, di tutto ciò che esiste”.

Ecco allora come la tesi viene enunciata: “Il vangelo è la forza stessa dell’amore di Dio che esplica la sua energia nel cuore dei credenti”. Da qui la percezione diffusa che con papa Francesco stia accadendo qualcosa di nuovo, un nuovo inizio:  “Dopo tanti anni infatti, dai tempi gioiosi di papa Giovanni e del concilio che egli aveva convocato contro tutti i profeti di sventura, era subentrata progressivamente la paura, madre di tutte le condanne, esclusioni, sospetti”.

“L’invito di papa Francesco sta invece qui: riscoprire la gioia del vangelo. È il vangelo annunciato da Gesù, di un regno dove entrano tutti coloro che le Chiese di allora, le sinagoghe, non accoglievano perché lebbrosi, storpi, ciechi, muti, peccatori, poveri che non conoscevano nemmeno la legge ma erano assetati di giustizia”.Quindi ritorno al vangelo come “potenza di Dio” e gioia per i poveri, ma perché questo avvenga bisogna smettere di confonderlo con le glosse dottrinali e disciplinari con cui è stato ricoperto dalle tradizioni umane. D’altra parte è da evitare un ingenuo fondamentalismo come pure interpretazioni puramente sociologica ed umanitaria: “Ora è vero che la dottrina e la disciplina, anche se non sono eterne, sono necessarie. Nessuna comunità può farne a meno. Dottrina e disciplina, come la Legge per il pio Israele, mettono al riparo, custodiscono la tenerezza di un rapporto. Per questo esse non possono oscurare la luce del vangelo, non possono impedirne la forza, debbono invece mediarla, comunicarla”.

“Possiamo anzi dire che il vangelo era Gesù stesso, proprio perché il Gesù che conosciamo attraverso i vangeli era il dono totale del Padre agli uomini e in lui, secondo la bellissima espressione della lettera ai Colossesi, “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Si noti il ‘corporalmente’, perché Gesù era il vangelo, la comunicazione efficace dell’amore del Padre, non solo nella profondità interiore del suo io, ma nel suo stesso corpo”. Per cui, “il vangelo opera nella partecipazione alla sofferenza dell’altro”.

Prendere parte alle sofferenze di Cristo e portare quanto manca ad esse vuol dire aver cura delle sue membra più deboli e più fragili sia in senso materiale che spirituale e diventare strumenti della potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede e apre il cuore all’amore del Padre: “Infatti, è questo il mistero del vangelo vivente che fu Gesù di Nazaret, che scambiò se stesso con l’uomo oppresso dal peccato e in questo scambio coinvolse il Padre. Rileggiamo il brano di 2Cor 5, 17-21, traducendo alla lettera, o meglio secondo la forza dell’etimo originario del termine katallagé, il testo di Paolo: «17Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha scambiati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero dello scambio”.

“I discepoli di Gesù, ci dice allora Paolo, debbono lasciarsi anch’essi “scambiare”, sperimentare la forza creativa dell’accoglienza di Dio, ricevendo a loro volta, con la forza del vangelo che adesso opera in loro, la missione dello scambio, per essere perfetti come il Padre loro celeste, che li ha scambiati con sé nel Figlio suo fatto peccato, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Ed essi ricevono allora gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, che prese la forma degli schiavi del peccato, fino a morire come i delinquenti più abbietti, sulla croce. Con questi sentimenti essi allora “toccano” la carne sofferente di Cristo nel popolo, si commuovono fin nelle viscere per la sofferenza degli uomini e delle donne che incontrano, si caricano della loro miseria, li liberano dal dominio del peccato che domina il mondo”.

In effetti - e siamo al 3° punto - “Il vangelo manifesta la sua forza solo se diventa comandamento concreto e vincolante per coloro che lo accolgono”. “Se è vero infatti che il vangelo è forza di Dio che opera nel cuore dell’uomo, allora si annuncia il vangelo soltanto nella misura in cui esso diventa operante, diventa cioè con le parole di Bonhoeffer, “confessione vivente”, viene percepito come comandamento concreto rivolto a me, che mi spinge all’azione nella situazione in cui io vivo. Il vangelo diventa cioè proclamazione vivente caricandosi del peso della situazione vissuta. Questo implica la lettura di questa situazione, con tutte le sue contraddizioni. Il vangelo in altri termini diventa operante attraverso la lettura dei segni dei tempi”.

“Annunciare il vangelo implica quindi la lettura della propria situazione storica, la lettura dei segni dei tempi. Su questo problema occorre tuttavia distinguere accuratamente tra una lettura sociologico culturale dei segni dei tempi e una lettura cristiana, che solo colui che ha accolto il vangelo riesce a fare. La lettura sociologico culturale dei segni dei tempi li identifica ai fenomeni storici che caratterizzano un’epoca e la distinguono da un’altra, ad esempio la rivoluzione sessuale o il dominio del capitale finanziario che segnano la nostra epoca, assieme a tanti altri fenomeni tipici del nostro tempo. Ma non è questa la lettura “cristiana” dei segni dei tempi. La loro lettura implica e si fonde con una prassi. La lettura è prassi. Per i cristiani il ‘segno dei tempi’ per eccellenza è infatti Cristo stesso. La grammatica necessaria ad una lettura dei segni dei tempi è allora quella delle Beatitudini”. Il vangelo perciò non è rivolto solo ai cristiani, ma a ogni uomo e a ogni donna che si vogliono caricare del peso della storia vissuta.

Caricarsi del peso della storia vissuta: è in questa parte conclusiva del suo discorso - riportata su Koinonia 1/18 - che G.Ruggieri fa ricorso a “Kairos-Sudafrica”, che ha    suggerito  l’ipotesi di lavoro “Kairos-Italia”, come sfida  a superare la frantumazione sociale e culturale del nostro Paese con una ritrovata lettura e azione telogica unitaria.

IV - In appendice o ad integrazione dell’analisi teologica di G.Ruggieri c’è la relazione di Rosanna Virgili “PAPA FRANCESCO ANNUNCIA ALL’UMANITÀ LA SALVEZZA” che  esamina il significato del temine “katécon” o resistenza nel Nuovo Testamento, ma anche guardando a Papa Francesco come artefice del cambiamento d’epoca: “Papa Francesco utilizza due categorie: l’incarnazione e il riscatto, che sono le due anime dei Vangeli; anzitutto l’incarnazione dell’attesa escatologica che significa abbraccio del mondo, a partire da quelli che sono più in basso, cioè da quelli a cui i Vangeli furono rivolti, ossia i poveri, gli esclusi; e dunque c’è questa volontà di abbattere i muri, c’è il dialogo, la collaborazione, l’incontro con le altre religioni; la religione cristiana è assolutamente insieme alle altre religioni, insieme devono servire l’umanità, essere avvocate della giustizia, di chi non ha avvocato: solo così possono avere la dignità di una presenza nel mondo”.

“In conclusione, c’è una tale spoliazione della dottrina cristiana nelle parole di Francesco che mi permetterei di dire: abbiamo parlato a lungo di umanesimo cristiano, ma qui forse si parla di un cristianesimo umano, c’è un capovolgimento perché non si parte dalla identità cristiana che poi viene applicata ai poveri, a tante altre identità umane, piuttosto si ha il cammino opposto, che parte proprio dalla Chiesa in uscita, c’è un esilio di questa Chiesa perché uscire significa esodo ma anche esilio, ed esilio significa lasciare la propria lingua, la propria casa, tanti schemi, anche l’ideologia. C’è un abbandono assoluto di ogni possibile via ideologica; è un atteggiamento che permette il futuro”.

Come si può vedere, c’è una sintonia e sinergia tra i vari discorsi, ed è da sottolineare il fatto che anche  in questo caso si arriva a parlare di annuncio, di predicazione, di kerigma come via di uscita e di liberazione dalle cose passate verso quelle che nascono di nuovo: “Siamo nella fase dell’ascolto, nel cuore del kerigma <...> Papa Francesco annunzia la salvezza all’umanità. Le parole di papa Francesco ci mettono davanti la preoccupazione non tanto di annunciare il Signore risorto, quanto l’annuncio della salvezza all’umanità, ci mettono davanti l’umanità; annunciano la salvezza che è declinata però come misericordia. E quindi la parola misericordia è tutta da costruire: che significa una salvezza che non è più definibile attraverso delle dottrine precise, ma che è un grembo di misericordia, qualcosa che è in formazione, che nascerà?”. È stato già detto che il nodo da sciogliere è la predicazione, l’annuncio, il vangelo in quanto annunciato ai poveri. Per cui non basta proclamare le verità della fede per se stesse, se questa fede non diventa forza di salvezza: se il vangelo non diventa annuncio e azione di salvezza per l’umanità.

V - Quasi in risposta a questa istanza, la relazione di Luigi Ferrajoli “PER UNA CIVILTÀ SENZA GENOCIDIO” ci mette davanti la situazione storica del mondo e del suo governo: un quadro tracciato secondo una “ragione laica”, ma che è come una “praeparatio evangelica” del campo la Parola di Dio va seminata. Tutto il discorso del Ferrajoli, a carattere giuridico-politico,  porta ad un discernimento e ad una consapevolezza di quanto potrebbe portare al genocidio globale e di quanto vi si potrebbe contrapporre, non solo in termini tecnici, ma anche come apporto teologico e azione pastorale.

Sta di fatto che tutta l’analisi molto puntuale e approfondita non è  fine a se stessa, ma è come inquadrata nella problematica del cambiamento d’epoca a cui tutta l’assemblea era dedicata, a dimostrazione che la verità è un’unica medaglia a due facce: e se la verità della ragione umana è aperta al mistero della salvezza, la verità come fede è l’effettuazione di questa salvezza.

Ed in questa ritrovata convergenza si annuncia quella “fine della cristianità” di cui Ferrajoli acutamente dice: ““Fine della cristianità” vuol dire infatti fine della cristianità come identità escludente, superiore, privilegiata, che pretende di affermarsi contro, e al di sopra, di qualunque altra identità diversa. E questo, a me pare, è davvero il primo passo per il riconoscimento dell’uguaglianza, cioè del rispetto e dell’uguale valore e dignità di tutte le differenze - di lingua, di sesso, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come dice l’articolo 3 della nostra Costituzione - che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri, ma anche di ciascun individuo una persona come tutte le altre”.

Facendo riferimento al titolo dell’incontro romano - “Ma viene un tempo, ed è questo” - egli conclude: “È questo, e non altro, il tempo della svolta, proprio a causa dell’urgenza imposta dalle minacce catastrofiche che incombono sul nostro futuro. C’è peraltro una novità, proprio nelle sfide odierne alla ragione politica e giuridica, che consente una nota ulteriore di ottimismo. Queste sfide segnalano non soltanto i problemi politici più gravi che dovranno essere affrontati urgentemente con scelte radicali dirette a mitigare i mutamenti climatici, a disarmare il pianeta, a garantire la pace e a proteggere i beni e i diritti fondamentali di tutti. Esse rivelano anche un’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra e l’esistenza, per la prima volta nella storia, di un nuovo tipo di interesse pubblico e generale, ben superiore a tutti gli interessi pubblici nazionali del passato: l’interesse di tutti alla sopravvivenza del genere umano e all’abitabilità del pianeta, idoneo a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica, dall’alto e dal basso, come politica interna del mondo basata sulla massima attuazione del principio di uguaglianza. È questa la grande novità del nostro tempo. Al di sopra di tutte le differenze religiose, nazionali, politiche, ideologiche e culturali, al di là delle stesse disuguaglianze economiche e dei tanti conflitti che dividono l’umanità, la minacce generate dall’attuale sviluppo ecologicamente insostenibile e dai tanti armamenti micidiali - nucleari, chimici, convenzionali - segnalano anche un’opportunità senza precedenti: la possibilità di rifondare la politica e le garanzie dell’uguaglianza, della pace, della democrazia e dei diritti umani sulla base della necessaria interdipendenza mondiale da essi generata e della percezione, destinata a divenire sempre più diffusa, dell’umanità come un’unica nazione accomunata, proprio dai pericoli in atto, da un nuovo e generalizzato sentimento di appartenenza di tutti alla medesima condizione e perciò alla medesima comunità”.

Devo dire che, ascoltando queste parole al momento in cui venivano pronunciate, mi è venuto spontaneo dire, non per compiacere o per appropriazione: “Non sei lontano dal Regno di Dio!” (Mc 12,34). Un regno di Dio che altro non è se non l’avvento del mondo e dell’epoca qui delineati o sognati. Una osservazione interlocutoria porta ad interrogarsi sui soggetti storici di questo cambiamento d’epoca:  e se al discorso giuridico-politico manca la dimensione sociale, al discorso teologico manca la dimensione pastorale. Al di là di espedienti istituzionali e auspici a buon mercato, il problema è l’impegno sul campo, che è a caro prezzo.

 

Alberto Bruno Simoni op

 

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