Koinonia Febbraio 2018


Se questo è il problema…

 

«È un Papa che sa ascoltare. Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l’ebraismo rabbinico deriva da loro; e l’ha fatto”. Sono parole del Rabbino Di Segni, che non ci impediscono di rivisitare la parabola di Luca 18,9-14, che ci presenta appunto anche un “fariseo” come tipo di religiosità declamata rispetto al sentimento impercettibile del pubblicano. Viene da pensare alla povera vedova che getta le sue due monetine nel tesoro del tempio mentre i ricchi vi “gettavano” le loro offerte. Così come potremmo riandare al ricco epulone e al povero Lazzaro, ricordare la sentenza su Dio e su mammona e Dio e Cesare, così come riconsiderare i “benedetti” e i “maledetti” di Mt 25. In sostanza, non sono altro che il discorso della montagna di Matteo e quello della pianura di Luca che prevedono beatitudini e maledizioni per gli uomini davanti a Dio.

 

La parabola di Luca forse sta a dirci che se c’è un problema di rapporto tra vangelo ed umanità, questo non è di aggiustamento o di diplomazia, ma è interno alla fede stessa, al modo in cui viene vissuto il rapporto dell’uomo col suo Dio. Un sasso nello stagno di una religiosità chiusa in se stessa l’ha gettato il Vaticano II. E da allora  abbiamo avuto a che fare col problema Chiesa-mondo, fede-storia, credenti-non credenti; e le soluzioni più diverse sono state trovate per lo più sul piano culturale, sociologico, di linguaggio, di comprensibilità, dando per immodificabile la sostanza della fede, che peraltro ne usciva compromessa o perfino svuotata. Di qui radicalizzazioni e polarizzazioni autoreferenziali o di segno temporalistico da parte di una chiesa che riesce a stare assieme e apparire unitaria più come contenitore che per vitalità interna.

 

Questo stato di cose è stato descritto via via  in diversi modi - come ad esempio “praticanti che diventano credenti e credenti che diventano praticanti”. Ora il problema si presenta in termini di visibilità religiosa e fede non confessionale,  di equilibrio tra chiesa “ad intra” e chiesa “ad extra”, dove appunto si gioca il senso stesso della evangelizzazione: come ragion d’essere della chiesa stessa e da sempre motivo delle nostre scelte e del nostro impegno. Si tratta semplicemente di questo: che l’evangelizzazione sul campo trovi e si dia quelle forme di vita che la rendano tale. In questo senso, un altro modo di formulare il nostro impegno è che l’evangelizzazione sia l’altra faccia dell’evangelismo!

 

Forse è il caso di ricordare che “evangelizzazione” negli anni ’70 era parola che cominciava appena ad essere sdoganata, per lo più come sinonimo di prassi pastorale aggiornata: per renderci conto di come questo nodo sia sempre da sciogliere, nonostante le tante soluzioni prospettate! Ed anche quando, come oggi, essa sembra diventata l’istanza di fondo, fino a diventare l’asse portante della chiesa di Francesco, non per questo è riconosciuta e trattata come la vera emergenza per cui spendersi, non tanto in maniera professionale ma con tutta la passione. Il nostro motto dovrebbe essere: “Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io” (1Cor 9,23).

 

In questa linea, ci ritroviamo di continuo a ripartire daccapo, “senza borsa, né sacca, né sandali” (Lc 10,4) e cioè senza garanzie di sorta. Ma questo consente al tempo stesso di ritrovare la spinta propulsiva iniziale: e cioè quella forza di fede che si esplica sì in forme e scelte di vita, ma che è prima di tutto punto di forza, fonte  ed obiettivo (fons et culmen) di esistenza ed esperienza cristiana. Infatti, “se non crederete, non avrete stabilità” (Is 7,9b). Non si può promuovere la fede se non credendo!

 

La fede non è semplice presupposto di gestione, di progetti, di programmi, di organizzazioni, di imprese, iniziative, manifestazioni ecc. a sfondo religioso o a carattere ecclesiale, non è insomma un sistema ma avventura di vita. Essa si pone nella linea della persona, della dignità, della coscienza, della libertà, di ciò che rende uguali nella differenza senza facili omologazioni. Per cui è principio di unità non in quanto consenso a dottrine o appartenenze a mondi precostruiti (che è confessionalità), ma in quanto libera relazione a ciò che si percepisce e si riconosce come realtà profonda. Per ogni singolo cristiano vale quanto dice Paolo in Col 2,16-17: “Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo!”.

 

Certamente non si dà una fede allo stato puro, ma sempre in contesti religiosi e culturali:  sta di fatto però che essere adoratori del Padre in spirito e verità trascende e relativizza perfino ogni confessione religiosa - “né su questo monte né in Gerusalemme” - a cominciare dalla propria. L’intima unione con Dio non va confusa con i suoi segni e strumenti - fossero pure i sacramenti -, mentre è proprio questa che può generare l’unità del genere umano, “in timore e tremore”. Come dire che bisogna andare in profondità   per dilatarsi in estensione, ed è il senso verticale del  rapporto che consente la dimensione orizzontale. E per dire anche che il vero cambiamento avviene nel corpo e in un corpo, nei soggetti interessati prima che in un codice di comportamento.

 

È qui senz’altro il punto da chiarire anche teologicamente, ma per il momento basta avere un criterio di discernimento e di scelta per andare avanti, e cioè quando il contesto è in continuo cambiamento e noi ci ritroviamo a cercare nuove condizioni di praticabilità per quanto ci sta a cuore: e cioè il servizio e la promozione della fede mediante la predicazione del vangelo. Se si vuole sempre tutta da inventare, ma intanto rimaniamo in ricerca.

È qui che il discorso ci porta a tentare quell’innesto all’Assemblea di Roma del 2 dicembre scorso e a lanciare l’ipotesi di lavoro “Kairòs Italia” come libera convocazione a pensare e prospettare quale esistenza cristiana e teologica sia necessaria oggi nel nostro Paese. Non è una campagna né una mobilitazione: è semplicemente la chiamata a concorrere alla presa di coscienza del problema di una rinnovata presenza evangelica e al compito di farsene interpreti.

 

È stato lanciato l’appello per un “cambiamento d’epoca” e da parte nostra vorremmo semplicemente raccoglierne il testimone, per passare dalle tante analisi ad un tentativo di sintesi e di incarnazione di visioni e di modelli che rischiano di rimanere tali. D’altra parte, materiale di costruzione è stato prodotto, e sarebbe un peccato non usufruirne. Ecco perché ci proponiamo una rilettura complessiva degli interventi all’assemblea romana, in fedeltà allo spirito e ai propositi che l’hanno animata, salvo archiviare tutto e magari ripetere operazioni simili a scadenze debite.

 

Per dare un minimo di continuità ad iniziative tanto simili quanto disperse, forse bisogna tornare ad ascoltarci e fare in modo che tanti discorsi diventino cultura attraverso la recettività e la creatività di tutti. Trattandosi di “cambiamento d’epoca” - che avviene anche se rimaniamo alla finesta -, il primo cambiamento da fare è nell’atteggiamento e nella metodologia. Esso è davvero un “kairòs”: bisogna coglierlo, attenderlo, esserne partecipi e prestarvisi senza riserve.  

 

Se poi in questo impegno volessimo due modelli e protettori, potremmo fare ricorso a “un uomo chiamato Simeone: un uomo retto e pieno di fede in Dio, che aspettava con fiducia la liberazione d’Israele” (Lc 2,25); o anche ad una profetessa, Anna, che “sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Il segreto è non stancarsi e non rinunciare mai ad aspettare la liberazione di Israele e parlarne a quanti aspettano la redenzione di Gerusalemme! L’importante  è mirare l’obiettivo giusto che suscita speranza, perché è anche questione di spiritualità, e cioè di trasformazione nella propria carne. 

 

Alberto Bruno Simoni op

 

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