Koinonia Febbraio 2018


Cosa direbbe Federico Scianò: per ricordarci di lui

 

UNA COMUNICAZIONE BLOCCATA

 

Per “comunicazione politica” si intende qui quella dei partiti. Per quanto mi riguarda, farei una ulteriore precisazione, limitando il discorso ai gruppi dirigenti dei partiti, utilizzando la nozione di “classe politica”, secondo la vecchia terminologia di Gaetano Mosca. I gruppi dirigenti di partito sono certamente “classe politica”, ma la “classe politica” comprende anche altro. E mi si consenta un’altra delimitazione di campo. La “comunicazione”, come sappiamo, può essere quella verbale e quella non verbale, fatta di comportamenti, di simboli, di silenzi. Per quanto mi riguarda, faccio riferimento solo alla “comunicazione verbale”. Dicendo, quindi, “comunicazione politica”, intendo riferirmi alla “comunicazione verbale della classe politica” in Italia oggi.

Comunemente si dice che in Italia oggi la classe politica usa un linguaggio oscuro e incomprensibile, tanto che è stato coniato il termine “politichese”. E, per “politichese”, appunto si intende un gergo linguistico - lo ripetiamo - oscuro e incomprensibile.

Forse è pedante, ma non è superfluo, sottolineare che questi due aggettivi, in astratto, non sono sinonimi, anche se esprimono tutti e due la stessa notazione negativa. A pensarci bene, infatti, un linguaggio può essere oscuro ed essere comprensibile. Ha scritto, per esempio, il critico Giorgio Manganelli: “Esistono testi letterari chiari, ma ciò è del tutto irrilevante alla loro esistenza letteraria”. E ancora: “Uno scrittore può essere oscuro perché è affascinato, è chiamato da una sorta di complessità che solo attraverso l’oscurità è conseguibile... Dante fu ed è uno scrittore oscuro. Manzoni è chiaro, Joyce è oscuro... Quando Eliot scrisse The Waste Land parve una provocazione, ma oggi Eliot è un classico e la sua idea dell’oscurità ha insegnato per quali tenebrori sia possibile conseguire il fulmineo abbagliamento - non la chiarezza - della complessità” .

Se tutto questo si può dire di un testo letterario, perché non si può dire di un discorso politico? Dunque, ciò che è oscuro, non necessariamente è incomprensibile. E possiamo anche dire il contrario? Possiamo dire che ciò che è incomprensibile, non necessariamente è oscuro? Cioè un discorso può essere incomprensibile e chiaro? Pare proprio di sì. Scrive un altro critico letterario, Edoardo Sanguineti: “La nozione di chiarezza, per nostra disgrazia, pare essere intrinsecamente e fatalmente oscura”. E continua: “c’è una chiarezza lessicale e concettuale, una chiarezza sintattica, una chiarezza espositiva... È incredibilmente utopico che possano sommarsi insieme così diverse e distinte chiarezze”.

Benissimo. Allora quando diciamo che in Italia la “comunicazione verbale della classe politica” è oscura e incomprensibile, probabilmente deduciamo la nostra valutazione negativa dal fatto che le due qualità negative ci sarebbero entrambe: la mancanza di chiarezza e la mancanza di comprensibilità. Ma questa conclusione ci lascia veramente soddisfatti? E se il problema fosse, non l’oscurità o l’incomprensibilità, ma semplicemente il fatto che la “comunicazione” non c’è, oppure è scarsissima? Mi sia consentita un’ipotesi abbastanza assurda. Facciamo l’ipotesi che questo linguaggio politico che definiamo “oscuro” e “incomprensibile” sia invece chiaro e comprensibile. Ci accorgeremmo allora che la nostra insoddisfazione, che appunto siamo soliti attribuire a oscurità e incomprensibilità, sarebbe in realtà da attribuire al fatto che non ci viene comunicato niente, o troppo poco. Noi percepiamo chiaramente che, attraverso la stragrande maggioranza dei discorsi politici, ci viene comunicato il nulla, o il quasi nulla. E ci sentiamo frustrati. Questo è il problema.

Nella comunicazione politica, infatti, come in ogni altro tipo di comunicazione, a parte la chiarezza o l’oscurità, a parte la comprensibilità o il suo contrario, ci devono essere almeno tre elementi costitutivi fondamentali, e cioè: qualcosa da comunicare, la volontà di comunicarlo, qualcuno a cui destinare la comunicazione. Forse sono proprio questi tre elementi che ci dicono qual è il problema di una “comunicazione politica” che non comunica. Il cosiddetto “politichese” è un modo di essere più che un modo di parlare. La classe politica italiana non sempre vuole comunicare, perché non sempre ha qualcosa da comunicare e, quando comunica qualcosa, non sempre vuole andare oltre la cerchia degli addetti ai lavori. Non dico che tutto sia così e che sempre sia così. Faccio l’ipotesi che, almeno in parte, il cosiddetto “parlare oscuro” della nostra classe politica sia in realtà un non comunicare, più o meno consapevole. Se questa ipotesi è fondata, non è difficile spiegarsi perché la classe politica italiana non comunichi, o comunichi pochissimo.

Quando si parla di democrazia bloccata, in fondo, che cosa si vuole dire? Che in Italia i partiti vivono una vicenda politica, in larga misura, avvitata su se stessa. Non ci si batte per vincere o perdere. Ma per consolidare, o migliorare, la propria massa di consensi elettorali, nel concerto di sette-otto partiti. Ogni partito ha un certo numero di avversari e un certo numero di alleati. Non sempre è facile spiegare se stessi quando si vogliono cose molto simili a quelle che vogliono gli altri. E non sempre è facile spiegare chi è l’avversario più credibile di un certo partito, quando quel partito ha diversi avversari. Ma, soprattutto, la posta in gioco di una competizione elettorale quasi mai è che la coalizione dei partiti al governo rischia di finire all’opposizione, e che i partiti di opposizione aspirano ad andare al governo. Ognuno tende a restare dov’è. E, si badi bene, questo non è un dato numerico, ma un dato culturale. C’è (o, quantomeno, c’è stata finora) la convinzione che dovesse essere così, per il bene di tutti, fino al punto che nel `73 il Pci tranquillizzò i dubbiosi, promettendo che neppure col 50% più uno sarebbe andato al governo. Certo, da allora ad oggi tante cose sono cambiate e tante altre sono in movimento, ma nella stragrande maggioranza dei casi è prevalente la tendenza dei leader di “parlare ai propri”, o al massimo, ai cosiddetti “simpatizzanti”, non a tutti, addetti e non addetti ai lavori. E questa tendenza non può che accentuare la distanza chiamiamola “verbale” fra classe politica e società. Persino al livello di burocrazia.

 

Non dimentichiamo che forse siamo l’unico paese al mondo che, quando va al referendum, dice sì per dire no e dice no per dire sì. Questo perché la nostra burocrazia, complice la nostra classe politica, applica in modo formalistico e accademico il principio abrogativo del referendum, come se non fosse possibile trovare un raccordo di buon senso fra le esigenze della tecnica giuridica e il sentire comune della gente, a cui, in fondo il referendum si rivolge: è un problema di “comunicazione politica”. In altre parole la “comunicazione politica” di una democrazia bloccata non può che essere una “comunicazione bloccata”. Ovviamente non vogliamo qui addentrarci nell’analisi della democrazia bloccata, ma non c’è dubbio che essa è il risultato di un groviglio di scelte e di non scelte, di paure legittime e meno legittime, di interpretazioni conscie e inconscie della realtà, di maggiore o minore consapevolezza storica del presente. Il linguaggio oscuro e incomprensibile è insieme causa ed effetto di questo stato di cose.

Non può esserci dubbio che una società più matura comunichi meglio di una società meno matura. Il linguaggio comunicativo non è un fatto tecnico. O solo in parte è un fatto tecnico. Essenzialmente è un dato della nostra maturità, nelle persone come nei gruppi, è un elemento nel nostro rapportarci con noi stessi e con gli altri. Nelle persone come nei gruppi. Per inseguire un linguaggio politico più comunicativo, non si tratta allora di mandare a scuola di mass media la nostra classe politica; si tratta di lavorare perché si sblocchi la democrazia. Con lo sbloccarsi della democrazia, probabilmente si sbloccherà anche la “comunicazione politica”. E nessuno saprà se lo sbloccarsi dell’una sarà causa o effetto dello sbloccarsi dell’altra.

 

Federico Scianò

da La comunicazione politica in Italia (a cura di Jader Jacobelli), Roma-Bari, Laterza, 1989, pp.181-184

 

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