Koinonia Febbraio 2018


IL PARADOSSO DELLA FEDE (I)

 

Parte prima: Aprir la strada a Dio

 

È scritto che “il Signore” apparve ad Abramo come “l’Onnipotente” (Gen 17,1). Ma cosa significa in tale contesto tutto ebraico la parola “onnipotente”? Il termine ebraico El-Shaddai ha un significato incerto e gli studiosi propenderebbero piuttosto per “Dio della montagna” o qualcosa del genere. Bisognerebbe infatti abbandonare del tutto le categorie filosofiche a cui siamo abituati parlando della potenza del Dio biblico; ne ha parlato a fondo Hans Jonas su quello straordinario libretto che ha per titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz.

Ma anche André Neher ha detto cose molto significative al riguardo: “Dio non è l’Onnipotente, come suggerisce una terminologia superficiale e volgare, ma l’Essere che accetta di limitare il suo Potere… Shadday, che viene tradotto, con leggerezza, con Onnipotente, è invece Dio che dice al suo Potere: fin qui, non oltre, poiché al di là c’è il campo di un altro, il campo dell’uomo. Esiste perciò in ogni impresa divina una specie di Insicurezza radicale: Dio non può prevedere fino a che punto arrivino i suoi atti, poiché un frammento del progetto divino è tra le mani dell’uomo”. Per questo tante volte “Dio non sa ‘dove sbattere la testa, dove metter mano’: è costretto ad acconsentire a certe cose che non vuole affatto. Non può desiderarne altre che invece desidera” (Il pozzo dell’esilio).

Che cosa dice infatti questo potentissimo Dio ad Abramo. Seguimi? No, dice: “Cammina davanti a me” (Gen 17,1), dice: vai tu avanti in questa strada impervia e incerta e io ti seguirò, sarò attento a quello che ti accadrà, mi metterò in ascolto delle tue decisioni, e ci saranno tratti di strada in cui dovrai essere proprio tu a guidarmi. Fino ad ora ho fatto camminare gli uomini dietro di me ed è andata buca, ora provo a invertire la situazione: sii tu a guidarmi.

E anche questa è novità grande e purissima. Abramo non è Noè. Il buon Noè eseguiva ordini senza aprire bocca, Abramo invece vuol dire la sua, osa persino venire a contesa con Dio, chiede ragioni. Noè, dice ancora Neher: “Come l’invalido ha bisogno del bastone di Dio per sostenersi. Abramo invece cammina ritto, da solo, davanti a Dio”. Non c’è qui un gregge che segue e si lascia condurre, qui c’è un uomo che si mette a guida, un apripista, uno che sa farsi strada tra i rovi: “Abramo e, dopo di lui, gli uomini dell’Esodo – dice ancora Neher – sono araldi che camminano davanti al Sovrano e gli aprono la strada” (L’esilio della parola).

Dio dunque lo lascia andare avanti. Ma può anche capitare che l’uomo si avvantaggi troppo, che cammini un po’ troppo speditamente, fino ad accorgersi voltandosi indietro, di come Dio non ci sia più a seguirlo. E allora l’uomo si chiede: Ma dov’è finito Dio? Eppure mi sembrava questa la strada giusta. Ma perché mi ha mandato avanti se lui conosce meglio di me le cose?

E Dio intanto ha preso un’altra strada ed è già arrivato laggiù, più speditamente di quanto si potesse immaginare, e aspetta da sopra quell’“orizzonte provvisorio che l’uomo non ha ancora saputo individuare con lo sguardo” (L’esilio della parola). E quando lo raggiunge è come se gli dicesse: Vedi? Ti sembrava di capire tutto, ti sei fatto prendere un po’ troppo la mano, quasi potessi fare tutto da te, e invece ecco che scopri qualcosa che nemmeno immaginavi, qualcosa che solo io posso fare e ti posso regalare.

Il cammino è verso il futuro e se Dio scompare alle spalle guai a tornare indietro o fermarsi, perché Dio “è già in attesa, davanti, laggiù”, e quando si arriva al punto in cui egli è, bisogna forse ricominciare tutto da capo in un cammino in cui ci si trova come spiazzati e che sembra non avere termine, un cammino nel quale oltretutto tocca a te di nuovo stare davanti, perché soltanto vedendoti camminare e vedendoti prendere una direzione piuttosto che l’altra, Dio può sapere cosa farà in futuro, in un futuro che riguarderà tutti, Dio, il suo testimone e profeta, e l’umanità intera. Quello non è il cammino che Dio fa con un uomo e basta, anche l’umanità che sta da altre parti viene infatti da Dio continuamente tenuta d’occhio: la benedizione sarà per “tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3), fino all’ultimo giorno. Quello di Abramo è un cammino con continue partenze verso mete sempre nuove e inaspettate, perché è sempre Dio che indica la direzione. Come la manna che scendeva giorno per giorno nelle sabbie del deserto, tutto viene da lui, ma è come se ogni volta volesse prima di tutto vedere il libero spirito d’iniziativa e i bisogni dell’uomo di fede che gli cammina davanti.

 

La fede è anche una forza di resistenza di fronte all’interminabile procedere di un tempo che sembra non avere fine, di fronte a una terra promessa che sembra allontanarsi anziché avvicinarsi. Fede è anche lotta contro lo scoraggiamento, contro l’istinto che ti porterebbe a tornare indietro: com’erano belle le dimore di Ur e di Carran, com’erano buone le cipolle d’Egitto… Ma indietro non si torna, solo il futuro ci farà finalmente incontrare ciò che è stato promesso, e nel futuro che si allontana se Dio tarda troppo a giungere a noi con tutto ciò che ha promesso, la fede, lo sappiamo, potrebbe anche scomparire dalla faccia della terra; lo stesso Gesù temeva questo esito: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).

In che consiste questo continuo ricominciare il cammino, questo continuo rimettersi a essere “arameo errante” del padre della fede? Consiste – dice Karl Barth – in una “volontà infaticabile, incorruttibile di diminuire, rinunciare, abbassarsi, morire, in un sempre rinnovato partire dalla nuda, neutrale umanità nella sua totale povertà e problematicità. Dio viene trovato direttamente muovendo dal mondo peccaminoso e sofferente, non da un’altura religiosa che sovrasta il mondo … Gli autentici figli di Abramo sono quelli che sempre di nuovo Dio fa sorgere dalle pietre. Dove  ci si dimentica questo, i primi diventano ultimi. E soltanto coloro che sono sempre nuovamente gli ultimi, saranno i primi” (L’Epistola ai Romani).

Ricominciare il cammino alla maniera di Abramo è dunque sempre ricominciare dall’ultimo posto, non da “patriarca” o da “teocrata”, ma da mendicanti, dalla condizione in cui non si è in grado di fare un solo passo se non c’è la parola di Dio che ci dà indicazioni. Fede è mettersi nella condizione di poter camminare soltanto con l’aiuto di Dio, ma quando si parte, ci si accorge pure di quanto bisogno abbia Dio di quel nostro ascoltarlo e avviarci. È un cammino altalenante e pieno di contraccolpi, quello della fede, non un cammino lineare, il domani è sempre da scoprire, ma da scoprire insieme, nel reciproco ascolto: l’uomo deve sempre ascoltare Dio, ma anche Dio deve ascoltare l’uomo che a lui ogni volta si rivolge con i propri bisogni. Se la comunicazione si interrompe si naviga a vista e il domani potrebbe riservare sorprese amare.

Se l’umanità punta i piedi e si ribella ecco i velenosi serpenti che mordono e uccidono, ma Dio, anziché starsene con mani conserte e aria compiaciuta, scenderà fino a farsi egli stesso un “maledetto” (Gal 3,13) innalzato sulla croce per attirare tutti a sé e salvare l’umanità perduta. Dalla croce in poi chi è morso dal serpente è a lui che deve guardare, esattamente come un giorno, nel deserto, si guardava il serpente di bronzo appeso sull’asta per salvarsi (Nm 21,4-9; Gv 3,14). Se tu cammini umilmente nelle vie della fede, Dio sta dietro di te e ti segue, perché è quando tu sei debole che lui è forte. Se invece alzi la cresta e ti fai forte egli diventa debole e solo, ed è allora costretto ad abbandonarti, a percorrere solitario un’altra via aspettandoti laggiù, dove meno te lo aspetti, magari crocifisso, crocifisso per te, per salvarti.

 

Di qui è partito tutto il dinamismo della storia di cui facciamo esperienza. L’esperienza spirituale della Grecia antica e dell’India supera forse quella ebraica, eppure sono entrambe fuori da ogni senso della storia, da ogni incidenza sul processo della storia; in Grecia si sono manifestati una contemplazione artistica e filosofica “che nessun’altra cultura ha superato – dice Berdjaev , ma ci fornì un cosmo statico, chiuso, in cui non esiste l’agire storico appassionato”. Ancora: “La Grecia elaborò il concetto dell’anima, mentre questo concetto fu estraneo al popolo ebraico per il quale il baricentro stava non tanto nel destino individuale dell’uomo quanto nel destino del popolo” (Il senso della storia). Si salva un popolo non un individuo, si salva l’uomo tutto, carne compresa, non l’anima soltanto. La salvezza è della storia non dalla storia, si salva “la creazione” tutta (Rm 8,19), si attendono “un cielo nuovo e una terra nuova” (Ap 21,1), non si vola con l’anima nell’etereo spazio di un qualche aldilà, ci si salva nel cuore del tempo, non dal tempo. Per questo il tempo che passa pesa e non si riesce a stare nell’indifferenza del tanto tutto eternamente è.

Ebrei, cristiani e musulmani vengono dall’esperienza di fede di Abramo e perciò tutte e tre queste fedi sorelle sono ancora in attesa della risurrezione dei morti e del giudizio ultimo sulla storia. Uniche ad attendere cose come queste dal Dio unico nel contesto generale delle religioni.

 

Per vedere come si muove Abramo, di cosa lo rende capace la fede, dobbiamo metterci in ascolto di ciò che narra la Scrittura sacra. Al capitolo 15 della Genesi è descritto l’episodio delle promesse e dell’alleanza. Cerchiamo di leggerlo attentamente.

Abramo ha già percorso parecchio cammino e non son state tutte rose e fiori: arrivato a Canaan, Dio gli dice che non a lui ma alla sua discendenza darà quel paese. Ma come si può avere discendenza se non si hanno figli? Egli però non ha nulla da obiettare, comunque costruisce l’altare, pianta la tenda e invoca il nome del Signore. Ci si aspetterebbe per lo meno una vita tranquilla a questo punto e invece ecco una bella carestia che costringe Abramo a scappare in Egitto col rischio persino di perdere la propria moglie: avere una moglie bella come Sara davanti a uno come il faraone potrebbe portar male. Ma alla fine Sara e Abramo ne escono con onore e persino arricchiti; meno male, anche se proprio quella grande ricchezza lo porta a dividersi dal nipote Lot che lo aveva sempre seguito. Lot si stabilirà a Sodoma e per salvarlo dalla prigionia a seguito di un attacco di re che invadono Sodoma, Abramo dovrà anche entrare in guerra e combattere, un contesto particolare in cui incontrerà una singolarissima figura, quella di Melchisedek. E dopo tutto questo l’episodio delle promesse e dell’alleanza che, come si diceva, andremo a leggere attentamente, per comprendere meglio sia Abramo che il Dio di Abramo.

“Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione: ‘Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande’”. A questo punto tutti noi amanti del buon Dio avremmo pensato: se lo dice lui dobbiamo continuare a credere, zitti e mosca. E invece la fede di Abramo è di una pasta diversa dalla nostra, noi siamo rammolliti e rassegnati, lui no, lui comincia ad aprire bocca, a chiedere ragioni, a ribattere come si fa con chi cerca di prenderci in giro. “Rispose Abram: ‘Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco’. Soggiunse Abram (è qui da notare una breve pausa, come se Abram avesse per un momento atteso una risposta che non arriva e perciò riprende): ‘Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede’”. Come dire: lo capisci o non lo capisci che mi stai raccontando delle frottole?

Ciò che qui la fede di Abramo inventa è l’iniziativa del dialogo. Fino ad allora l’uomo rispondeva come si fa con un sovrano che incute paura, anche Caino aveva risposto alla domanda di Dio, ma qui è la prima volta che un uomo osa sbattere sul tavolo qualcosa di suo. “La freccia partiva sempre da Dio”, dice Neher, ora invece è Abramo che osa lanciare la frecciatina, togliersi il sassolino dalla scarpa per così dire. Qui ha inizio il vero dialogo, qui gli interlocutori cominciano a parlare quasi sullo stesso piano: Abramo lancia una sfida e Dio, lungi dal respingerla, la raccoglie, subito. Anzi, dice ancora Neher, è “come se l’avesse attesa da sempre” (L’esilio della parola).  La risposta del Signore la sentiamo essere immediata proprio perché l’interlocutore ha sferrato un colpo decisivo che lo chiama a responsabilità.

“‘Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede’. Poi lo condusse fuori e gli disse: ‘Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle’ e soggiunse (anche qui è da notare una pausa simile a quella del discorrere di Abramo che è chiamato a credere, una pausa di silenzio, di attesa di qualcosa che stenta ad arrivare, dunque qualcosa di faticoso anche per Dio che la sta per promettere, e poi la ripresa) ‘Tale sarà la tua discendenza’”.

Abramo è appena uscito dalla tenda, è notte e sta col naso all’insù a guardare il cielo stellato. Un assurdo, solo un folle poteva credere quella cosa lì. Ma Abramo, pur restando senza parole, sente di non dover chiedere più nulla, è convinto e basta: “Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia”, questo ci riferisce il narratore sacro. L’immagine della fede che qui viene narrata è quella di un vecchio uomo che non osa rompere il silenzio mentre guarda il cielo in una notte di stelle. Dio ha appena parlato, ha appena promesso cose grandiose e lui crede senza battere ciglio, confida, ha estrema fiducia.

Una simile fede la si ritroverà in una giovanissima figlia d’Israele, colei che diventerà la madre di Gesù, la madre di Dio addirittura, la Theotòkos Odigitria, che nelle icone non solo tiene in braccio il Bambino Gesù benedicente, ma anche con la mano destra indica la strada invitandoci a seguirla. Il sì di Maria e il sì di Abramo appartengono allo stesso mistero: senza il sì di queste due creature umane la storia della salvezza sarebbe andata molto diversamente, magari abortita sul nascere.

 

Ma da questo botta e risposta in cui provocazione, fatica, promessa e fede strettamente s’intersecano, si passa al patto di sangue, al “taglio” dell’alleanza. La scena è in qualche modo inquietante: Abramo deve prendere degli animali, deve ucciderli, spaccarli a metà e porre le parti una di fronte all’altra, ad eccezione degli uccelli. Appena fatto tutto ciò ecco che sui quei cadaveri piombano dei rapaci. Abramo deve scacciarli con forza. Mentre il sole sta tramontando su Abramo cade un torpore e poi “un oscuro terrore” e Dio gli parlerà di schiavitù e di morte. Intanto si fa “buio fitto”, ed “ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse (tagliò) questa alleanza con Abram” (Gen 15,17). Tutto avviene sulla falsariga di un antico modo di stipulare patti: i contraenti passavano in mezzo agli animali divisi e sanguinanti come dicendo: accada anche a me quello che è accaduto a questi animali se non mantengo quanto ho promesso. In un passo di Geremia la minaccia è chiara: coloro che hanno trasgredito l’alleanza verranno resi “come il vitello che spaccarono in due passando fra le sue metà…, i loro cadaveri saranno pasto agli uccelli dell’aria e alle bestie selvatiche” (Ger 34,18-20). 

Ma qui non tutti e due i contraenti passano, chi passa, nella fiaccola che serpeggia tra le carni che sanguinano, è solo il Signore, anche qui, come già con Noè (Gen 9,9), il patto è unilaterale, là c’è un uomo ansioso e stordito che attende nella notte, dunque qui solo Dio può solennemente dire: accada anche a me come a questi animali se non mantengo quanto ho promesso. È come se in Dio fosse emerso un qualche senso di colpa: Abramo certamente non vedrà ciò che gli è stato promesso, Abramo morirà per quanto in felice vecchiaia, senza possedere la terra in cui abitava, se non un pozzo e quel piccolo pezzetto di terra in cui verrà seppellito insieme a Sara; e persino la sua discendenza sarà perseguitata per quattro secoli in terra straniera.

La storia riserva sorprese e qualche volta nemmeno Dio sa che pesci pigliare. Qui il mistero del Dio crocifisso già balena con tutta evidenza. E anche quegli uccelli rapaci che piombano rimandano decisamente alle parole con le quali Gesù annuncia le tribolazioni degli ultimi giorni e della venuta del Figlio dell’uomo: “Dovunque sarà il cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi” (Mt 24,28; cfr. Ap 19,17-18)).

 

Daniele Garota

(1. continua)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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