Koinonia Gennaio 2018


A PRESCINDERE DAL CRISTIANESIMO*

 

Albert Nolan, il domenicano impegnato nella lotta contro l’apartheid in Sudafrica, nel volume “Jésus avant le christianisme” (1) presenta a credenti e non credenti un Gesù in carne ed ossa, nel suo ambiente storico reale, nella sua nazione, classe sociale, famiglia. Il libro, però, non vuole essere soltanto una ricostruzione storica, ma una immedesimazione esistenziale.

A prescindere da (così andrebbe tradotto quell’”avant’’ del titolo) duemila anni di Cristianesimo, proviamo a metterci nei panni di Gesù, a capire le sue scelte, i suoi gesti, le sue parole: se fossimo stati suoi contemporanei, le avremmo condivise? Esiste oggi la possibilità di assumere, nel contesto sociale nel quale viviamo, posizioni analoghe? Nella misura in cui ciascuno di noi si sente di poter rispondere “sì” a questa domanda può dichiararsi cristiano, a prescindere da duemila anni di Cristianesimo, a prescindere dal ruolo che il Cristianesimo svolge oggi.

Gesù è nato in una regione colonizzata dai Romani già 63 anni prima della sua nascita, governata da un procuratore romano, sotto la continua minaccia dell’invasione armata, che avvenne 27 anni dopo la morte di Cristo.

Israele era profondamente divisa circa la posizione da assumere nei confronti del potente oppressore: c’erano gli zeloti, religiosi, rivoluzionari, clandestini, impegnati in sporadiche azioni di guerriglia; c’erano i farisei, moderati, riformisti, legalisti; gli esseni, radicali, idolatri, al di sopra delle parti; i sadducei, aristocratici, conservatori, disposti a collaborare con i Romani..

La suddivisione non era soltanto politica, di opinione, era soprattutto di casta, cioè di rango e di prestigio. I legami di sangue erano strettissimi, forte il ‘senso di superiorità, o quantomeno di estraneità fra gli abitanti delle diverse regioni. Rigida la gerarchia sociale che divideva anche verticalmente la popolazione: il prestigio derivato dal ceto era un valore molto più stimato della ricchezza.

Ai livelli più bassi di questa scala gerarchica erano i malati, coloro che non potevano contare neppure sulle loro braccia: si aggiravano in masse - esclusi, disprezzati. In questo clima di emarginazione, sospetto e sopraffazione la tradizione profetica ebraica svolgeva il compito di spiegare al popolo il significato di quanto andava accadendo, il senso dei “tempi”. I profeti, più che pre-vedere, vedevano dentro, cioè interpretavano i segni dei tempi.

Giovanni Battista spiegava alle folle che Dio era in collera con il suo popolo e che la distruzione sarebbe giunta inesorabile se i figli di Israele non avessero accettato di spogliarsi dei loro beni e dei loro privilegi, se non si fossero purificati con il digiuno e la penitenza.

Tra le tante voci che giunsero al suo orecchio, fu proprio quella del Battista che colpì Gesù più profondamente. All’età di 30 anni, Egli accettò di farsi battezzare da Giovanni. Quell’atto va visto come una presa di distanza da tutti i legami che lo vincolavano alla sua famiglia, al suo ceto, alla sua patria. Una scelta di radicale autonomia e riappropriazione di se stesso. I gesti che seguirono si mantennero sempre coerenti a questa scelta iniziale.

Gesù infranse le barriere della sua classe sociale: accettò di sedersi a tavola con gli strati più umili della popolazione (pur appartenendo, Lui, ad un ceto che oggi potremmo definire “medio”). Non esitò ad avvicinare pubblicani e prostitute, peccatori, stranieri, ammalati. Egli mostrava di ignorare il loro passato, di liberarli dall’etichetta che l’opinione pubblica a tutti i costi voleva imporre loro.

Gesù rinunciò alle sue sostanze, rifiutò (e pretese che come Lui facessero tutti doloro che si dichiaravano disposti a seguirlo) il principio stesso della proprietà. Il miracolo dei pani e dei pesci, secondo padre Nolan, va inteso come un miracolo di divisione, di partecipazione del proprio agli altri, e non di “moltiplicazione”.

Gesù condannò ogni forma di solidarietà di gruppo, ogni forma di esclusione (perché no? di apartheid). Rinnegò perfino i legami familiari. “Se qualcuno viene da me senza odiare suo padre e sua madre, sua moglie e i suoi figli, i suoi fratelli, le sue sorelle, la sua stessa vita, non potrà essere mio discepolo” (Lc 14,26). Queste sconvolgenti parole vanno intese, secondo padre Nolan, nel senso che “la solidarietà familiare deve essere sostituita da una solidarietà più profonda con l’insieme della famiglia umana”.

Questo il significato delle azioni di Gesù: nel tentativo di interpretare le sue parole, ancora una volta l’autore vuole calarsi nella mentalità dell’epoca per mettere in evidenza la distanza che ce ne separa e coglierne meglio il senso.

Alla luce della prospettiva profetica, l’annuncio di Gesù è quello di un nuovo tempo che si apre. Dove il Battista aveva parlato di penitenza, Gesù invita ad una festa; dove il Battista aveva annunciato l’imminente catastrofe, Gesù la salvezza. Il Regno di Dio, per Gesù, era già in atto: il perdono già concesso, la riconciliazione già avvenuta. Quel che sembrava invero simile, era già reale.

Questo miracolo non poteva essere opera umana soltanto; il Regno di Dio era stato concesso agli uomini come dono. Il contributo dell’uomo nella fondazione del Regno di Dio sta tutto nella sua Fede. La fede esalta, amplia il potere dell’uomo, perché con essa egli si fa veicolo del Potere di Dio. La fede è determinazione, decisione, speranza: ne sono privi coloro che dubitano, esitano, pongono condizioni o riserve. La storia è piena di uomini di fede, di uomini che hanno vissuto e operato spinti da questo genere di forza. Ma non tutte le fedi si equivalgono. La forza della fede non sta solo nell’atteggiamento di coloro che la possiedono: sta nel suo contenuto, che può essere vero, giusto o no.

“Credere in Dio, scrive padre Nolan, è credere che la bontà è più potente del male, che la verità è più forte della menzogna.... Chiunque pensi che il male trionferà sul bene, o che il male e il bene si confrontino in una lotta il cui esito è incerto, chiunque pensi questo è un ateo”.

Dio si è rivelato come compassione, amore: nessuno può credere in Lui se non ha assunto nei confronti del suo prossimo questa disposizione d’animo. La pietà umana è il senso elementare delle parole di Gesù: un senso ancora attuale, valido sempre.

Nell’ultima parte del libro l’autore vuole valutare il peso politico del personaggio Gesù nell’ambiente in cui vive. La sua predicazione non voleva invitare le masse alla rivolta, ma non era neppure un messaggio strettamente religioso di disimpegno dalla vita politica. Questo distacco ascetico era, a quel tempo, predicato dagli esseni, tra i quali qualcuno ha voluto collocare anche Gesù. Egli in realtà credeva che un cambiamento delle istituzioni non avrebbe comportato un reale cambiamento per i singoli. Occorreva trasformarsi dall’interno, rinascere (metànoia), sradicare il male alla radice, cioè dal cuore stesso degli uomini. “L’unico modo di liberarsi dei propri nemici - scrive padre Nolan - è amarli”. Agli occhi di Gesù i Romani non erano più nemici di coloro che mantenevano le discriminazioni all’interno del popolo ebraico, non più nemici dei farisei o degli zeloti che difendevano le barriere della legge e del culto.

Quale fu il vero senso della condanna di Gesù? Contrariamente a quanto gli evangelisti vogliono far credere, padre Nolan sostiene che fu il tribunale romano e non il Sinedrio a condannare Gesù. Pilato, che si era già distinto per la crudeltà delle repressioni, temeva, infatti, il seguito crescente che Gesù andava attirando dal giorno in cui, sprezzante della vigilanza delle guardie romane e dei sacerdoti, aveva cacciato i mercanti dal Tempio. Anziché difenderlo e condividere la responsabilità di quel gesto, i sacerdoti preferirono consegnare Gesù alle autorità romane come capro espiatorio, sostenendo che “è meglio che uno solo muoia piuttosto che il popolo intero”. Per questo sparsero la voce che Gesù si proclamava Messia e re dei Giudei e pretendeva distruggere e ricostruire il Tempio in tre soli giorni. Il settarismo giudaico si alleò con quello romano e Gesù fu la vittima dell’apartheid.

Esistono razzismi di ogni tipo, in ogni epoca: razzismi dei quali non siamo neanche pienamente coscienti: sono le preclusioni, i formalismi, i pregiudizi: tutti i paraocchi che ci impediscono di vedere nell’altro, qualunque sia il colore della sua pelle, l’abito che indossa, l’opinione che professa, sempre e soltanto un prossimo. Contro tutti questi razzismi ha combattuto Gesù, senza mai esitare, mai arretrare neppure di fronte alla violenza. quando le circostanze la rendessero necessaria. Senza mai ricercare l’approvazione degli altri, contro tutto e tutti, perfino i familiari e gli amici più cari.

Il martirio e la morte, che Gesù accettò senza mai proferire una parola, sono l’ultima, radicale prova di coerenza della sua vita. L’applicazione pratica, la verifica estrema della sua fede.

 

Anna Marina Storoni Piazza

 

(1)Nolan A., «Jésus avant le Christianisme», Editions Ouvrières Paris, 1979.

 

*Questa presentazione del libro di P.A.Nolan è apparsa su Koinonia 8/1985, per iniziativa di Marina Storoni Piazza, che lo aveva letto nella versione francese. Il libro era uscito nel 1976 mentre l’edizione italiana sarà del 1986. Perché riprenderla ora, quasi ad introdurre il discorso sul “Kairos Sudafrica” che segue? Per la semplice ragione che sempre Giuseppe Ruggieri ne fa un esplicito richiamo nella sua relazione di Roma, presentando tra l’altro A.Nolan come “domenicano del Sudafrica, colui che ispirò il più famoso documento di condanna dell’apartheid”, appunto il “Documento Kairos”. Se però rimaniamo sensibili a queste opportunità e a questi segnali, è perché siamo immersi e impegnati nel processo di  decostruzione della cristianità, non solo per ritrovare, come alcuni sostengono, il cristianesimo, ma per mettere tra parentesi il cristianesimo stesso e tornare per quanto possibile al “vangelo eterno”, sapendo che “la parola di Dio non è incatenata!” (2Tm 2,9). Anche se a causa del vangelo c’è da soffrire e portare catene come malfattori. (cfr. ib)

.