Koinonia Gennaio 2018


GUEVARA RACCONTA GUEVARA

 

In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Ernesto Guevara, il Centro Studi e Iniziative America Latina di Firenze, nel corso dell’anno appena trascorso, ha promosso ben tre iniziative per ricordare la figura del grande rivoluzionario argentino. Nella prima, CHE GUEVARA VISTO DA UN CRISTIANO, che si è tenuta nel giugno scorso presso la parrocchia fiorentina di Santa Maria a Ricorboli, è stato messo in evidenza come mai questo fautore della lotta armata contro l’imperialismo americano è diventato un simbolo anche per tanti movimenti popolari di matrice cristiana, soprattutto in America Latina. Nel secondo incontro, L’ATTUALITÀ DI ERNESTO CHE GUEVARA, che si è tenuto presso il  Circolo Vie Nuove, si è cercato di capire perché, a cinquanta anni dalla morte (un tempo che sembra infinito per la rapidità con cui sta cambiando oggi il mondo) il Che mantiene ancora per tanti un notevole fascino. Infine, il 6 dicembre scorso, sempre presso il Circolo Vie Nuove, su proposta della Casa Editrice Giunti, si è tenuto un incontro di presentazione del libro IL CHE, MIO FRATELLO alla presenza di Juan Martin Guevara. Il successo dell’iniziativa ha superato di gran lunga le previsioni: una sala stracolma, una testimonianza intensa da parte dell’autore, la presenza di un attore professionista, Giancarlo Conti Bernini, che ha letto una pagina toccante del libro, il ricordo di una carissima amica del Che, Tita Infante (1).

Per il Centro America Latina, che si è sobbarcato in gran parte l’organizzazione dell’iniziativa, è stata una scommessa, e una scommessa vinta, dopo i due precedenti appuntamenti, anch’essi coronati dal successo.

Al di là del prestigio dell’autore (il solo fatto di essere un fratello di Ernesto Guevara gli dava a priori un credito che altri scrittori non possono vantare) questo libro, così diverso da quelli scritti finora, colma una lacuna: quella di raccontare una figura eccezionale vista nella sua intimità, attraverso gli occhi di un fratello, dei vari parenti e degli amici più cari.

I ricordi di Juan Martìn, di quindici anni più giovane del Che, cominciano dall’infanzia di Ernesto,  che non poteva conoscere direttamente, non essendo ancora nato, ma che aveva percepito nell’ambiente familiare attraverso i racconti della madre, del padre, dei fratelli (Roberto e Celia) e degli amici più grandi di lui. Nel suo libro Juan Martìn Guevara, dopo aver rammentato svariati episodi dell’infanzia del suo fratello più grande (2),  non manca di ricordarne le gesta, la fama conquistata rapidamente a Cuba, durante gli anni della lotta vittoriosa contro il dittatore Batista, la sua esperienza politica nella Cuba rivoluzionaria dei primi anni ‘60 del Novecento, le sconfitte subite là dove pensava di portare la rivoluzione, prima nell’Africa appena uscita dal colonialismo, poi in Bolivia dove perse la vita a soli trentanove anni. Ma l’ottica dell’autore è sempre personale: scaturisce dalle lettere che il fratello (diventato ormai il Che, come lo chiamano i compagni per il suo intercalare argentino) invia ai familiari, dalle rare visite che questi possono fargli a Cuba, dalle notizie, spesso distorte, che su di lui arrivano attraverso la stampa, la radio, la televisione. E poi l’apprensione di saperlo lontano, in qualche parte del mondo, a suscitare improbabili rivoluzioni contro l’imperialismo americano in nome della giustizia, dell’uguaglianza, della fratellanza fra tutti gli esseri umani.

Juan Martìn, stimolato dalle numerose domande del pubblico, si sofferma sui rapporti tra il fratello Ernesto e Fidel Castro. Tutti sanno della differenza di vedute fra i due leader della rivoluzione cubana: il più realista Fidel che, facendo di necessità virtù, accetta la dipendenza dall’Unione Sovietica per mettere Cuba al riparo da una possibile invasione americana, e l’“idealista” Guevara che, disilluso dai sistemi politici realizzati dal comunismo reale, pensa di suscitare una rivoluzione a partire dai paesi del Sud del mondo.

Alcuni storici, sulla base di queste divergenze, hanno ipotizzato che la fine del Che sia dipesa da un sostanziale tradimento di Castro che, pressato dai sovietici, l’avrebbe abbandonato al suo destino, non fornendogli alcun aiuto durante il suo sfortunato tentativo rivoluzionario in Bolivia. Juan Martìn respinge questa tesi nel modo più assoluto. Da parte sua il Che, nonostante le sue divergenze con Castro, non ha mai contestato la sua leadership e ha sempre manifestato pubblicamente la sua ammirazione per il capo della rivoluzione cubana; e Fidel, da parte sua, ha sempre testimoniato per il Che un’amicizia assoluta e al tempo stesso altrettanta ammirazione per il suo coraggio, la sua lealtà, la sua coerenza, proponendolo, dopo la sua morte, come l’esempio più grande da seguire  per tutti i cubani e per tutti coloro che, in ogni parte del pianeta, sognano un mondo più giusto e solidale.

Un altro elemento che ha messo in evidenza Juan Martìn (e che ritroviamo nel suo libro) è il rapporto fra gli USA e i leader della rivoluzione cubana. Per qualche tempo l’amministrazione americana, ben sapendo che Castro, come del resto gran parte dei “barbuto”, non era comunista, ma solo un patriota progressista, riteneva di poterlo in qualche modo controllare, a patto che non si facesse trascinare da Guevara, marxista dichiarato. Una moderata riforma agraria, purché gli interessi delle multinazionali americane in Cuba rimanessero intatti, poteva anche essere accettata. Ma quando, sotto la spinta del Che, l’intera società cubana si orientò in senso socialista (nazionalizzazione di banche, trasporti, sanità, sistema scolastico), la Cuba rivoluzionaria diventa un bubbone da estirpare e ben presto lo stesso Fidel è descritto come l’incarnazione del male (3).

L’autore ricorda quanto il Che sia stato importante per i suoi familiari e, viceversa, come lo stesso Ernesto li amasse, pur tenendoli a distanza perché nessuno potesse pensare che una semplice parentela portasse loro benefici di sorta.

Ricorda Juan Martìn che per lui e i suoi fratelli il Che non fu mai “assente”, anche dopo la morte. Essi non amavano tanta notorietà e per quasi cinquanta anni non vollero scrivere su di lui. Il primo a rompere questa “consegna del silenzio” è stato proprio il nostro autore che nel suo libro ricorda come l’essere parente prossimo del Che, quando la sua identità veniva conosciuta, gli procurava curiosità e ammirazione, ma anche motivo di persecuzione. Poco prima della dittatura militare, quando l’Argentina stava già vivendo sotto governi reazionari, Juan Martìn, militante di sinistra, ma non certo guerrigliero, venne arrestato. Questa fu la sua fortuna. Era un prigioniero “in chiaro”: tutti sapevano dove si trovava, amici e familiari potevano andarlo a trovare e così non divenne uno dei 30000 desaparecidos della dittatura militare. Quando questa finì, dopo otto anni di prigionia, venne scarcerato.

Nel corso della discussione alcuni dei presenti (e lo stesso autore ne ha fatto cenno) hanno affrontato un tema a lungo dibattuto: perché la figura del Che è stata paragonata a quella di Gesù (4)? L’immagine di Guevara senza vita, comparsa su tutte le televisioni e in tutti i giornali del mondo, somiglia in modo sorprendente a quella del Cristo morto del Mantegna e non c’è dubbio che anche questo abbia spinto tanti a metterli a confronto. In effetti, sebbene la rivoluzione pacifica predicata da Cristo si discosti radicalmente dalle scelte del guerrigliero Guevara, non mancano motivi comuni: una fine tragica per entrambi in un’età ancora giovane; la stessa scelta dei poveri, degli umiliati, degli sfruttati; una coerenza testimoniata fino al martirio; e per entrambi una morte annunciata.

“Vi auguro l’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità e del’impegno”. Queste parole di don Ciotti sembrano il ritratto esatto di Ernesto Guevara. E Victor Jara, cantautore cileno vittima della dittatura di Pinochet, nella sua intensa canzone “El Aparecido” così dipinge il Che: “Porque Regala su Vida / Ellos le Quieren Dar Muerte”. Come gli imperialisti, proprio perché il Che  “regala” la propria vita, lo vogliono veder morto, così i neoliberisti di oggi ne vorrebbero cancellare anche il ricordo. La legge della gratuità è incompatibile con quella del denaro.

 

Bruno D’Avanzo

 

NOTE

(1) “L’ho conosciuto molto giovane, quando era soltanto Ernesto, ma aveva già in sé il futuro Che Guevara. Da quegli anni giovanili, l’ho visto progredire nel suo percorso personale, andando sempre avanti; non si è fermato mai e chi lo conosceva  ben sapeva non solo che ‘le grandi sfide non avevano il potere di fermarlo’, ma che sarebbe andato incontro al suo Destino <…>.

È difficile mettere insieme una tale grandezza: la sua sensibilità e la sua tenerezza, la sua ricchezza umana.

Troppo caloroso per essere intagliato nella pietra Troppo grande perché possiamo immaginarlo nostro. Ernesto Guevara, per quanto fosse argentino, è stato il più autentico cittadino del mondo” (Juan Martìn Guevara, IL CHE, MIO FRATELLO, Ed. Giunti, Firenze, 2017).

 (2) Juan Martìn riporta un episodio dell’infanzia di Ernesto che ne attesta, oltre che l’audacia, l’innato senso di giustizia. Una ditta che forniva energia elettrica per l’illuminazione stradale (i costi della quale erano a carico degli abitanti) decise improvvisamente di aumentare i prezzi in modo assolutamente ingiustificato. Ogni protesta sembrava cadere nel vuoto. Nel contratto, però, era previsto che le lampadine erano a carico dell’azienda, e in caso di rottura dovevano essere sostituite immediatamente. Fu allora che una banda di ragazzini capitanata da Ernesto cominciò a distruggere sistematicamente le lampadine, e così la ditta, non riuscendo a trovare i colpevoli, si vide costretta a revocare gli aumenti.

(3) A lungo gli USA, e la polemica dura tuttora, denunciarono i capi della rivoluzione cubana per le numerose condanne a morte che vennero inflitte ai batistiani dopo la vittoria. Molte di queste furono decise proprio dal Che, accusato dagli USA di essere un violento assetato di sangue. In linea di principio, in quanto amanti della pace, non possiamo accettare questo tipo di pena senza appello;  tuttavia non saremmo dei buoni giudici se ci astraessimo dal contesto storico. In realtà nessuno venne condannato alla pena capitale per le sue idee contrarie alla rivoluzione, ma perché responsabile, come autore diretto o come mandante, di crimini efferati: assassinii, torture, sparizioni. Anni dopo Fidel giustificò la durezza di quelle scelte come un male minore: senza  condanne “legali” il popolo si sarebbe fatto giustizia da sé, e sarebbe stato molto peggio.

In quanto al Che, resta famosa la sua massima: bisogna essere duri senza perdere la tenerezza. Guevara, anche quando parla di odio per il nemico, non pensa mai alle persone, ai singoli soldati che combattono contro i rivoluzionari. I nemici catturati vengono da lui sempre trattati con umanità e, se feriti, li fa curare, come se fossero suoi compagni. Se poi non ha la possibilità di portarli con sé come prigionieri, li libera tutti, fuorché quelli che hanno commesso violenze contro la popolazione civile, che vengono passati per le armi. 

(4) Il teologo della liberazione Jon Sobrino, ad esempio, sottolinea il fatto che Che Guevara fu assassinato per lo stesso motivo per cui fu ucciso Gesù.

.