RIFLETTENDO SU LEFEBVRE

La nostra stampa ha avuto una fiammata d'interesse per il caso di Mons. Lefebvre. Si era giusto finita la fase di entusiasmo - e delusione - per i campionati europei di calcio, e benvenuto è stato l'episodio del vescovo dissidente, meno popolare degli idoli sportivi, ma sufficiente “riserva" per gli amanti del sensazionale. Ma pochi giorni dopo è sopravvenuto il gran caldo, e gli interessi dei mass-media si sono trasferiti su quest'altro registro.

Di Lefebvre si è parlato anzitutto mettendo in risalto la sua ossessiva passione per la Messa (e la liturgia in genere) in latino. Di questo si deve certo parlare, anche se il discorso non si può limitare a ciò. Si è scritto che un cardinale ha detto: se vent'anni fa si fosse permesso di celebrare la Messa in latino, oggi non vi sarebbe lo scisma. Peccato che questo cardinale, quando era Nunzio a Bruxelles, avesse pure detto (in privato) che egli non si riteneva responsabile degli errori commessi dal Concilio Vaticano II...

In latino si è sempre celebrato in casi particolari (lo faceva anche Paolo VI), e io mi ricordo di una Messa officiata in latino (e inglese) da Mons. Dabrowski, segretario dell'episcopato polacco, a un convegno internazionale tenutosi nel 1979 a Varsavia: vi era anche Carlo Carlevaris, prete operaio, che mi disse di ritenere buona la scelta. Ma eravamo tutti di formazione umanista, e il latino lo avevamo studiato e ancora ce lo ricordavamo. Mi chiedo che cosa capiterebbe ora con della gente più giovane di noi, che non avesse frequentato le scuole di indirizzo umanistico. E porto un piccolo esempio: in una delle mie classi (triennio di Istituto Tecnico) una sola allieva su sedici ha letto nelle medie alcuni brani dei poemi omerici e dell'”Eneide” e sa chi è Ulisse. Questo è il risultato della nostra cultura (o incultura?) di massa: i giovani di sedici, diciotto o venti anni conoscono i cantanti di moda, e tra Virgilio e Madonna non hanno esitazioni, preferiscono la seconda, non conoscendo il primo.

E non servirebbe nemmeno reintrodurre il latino nelle medie, non soltanto perché le nozioni apprese sarebbero troppo superficiali, ma anche e soprattutto perché la "cultura" odierna è sempre meno influenzata dalla scuola, e sempre più dai mass-media e specialmente dalla televisione, che inietta dosi quotidiane di anglofonia e anglomania di pessimo gusto. In una simile situazione voler mantenere la liturgia in latino significa  scegliere un estetismo molto elitario a scapito della partecipazione dei fedeli “indotti".

Ma dietro l'alibi del latino la scelta di Mons. Lefebvre è di ben altro carattere, come qualche commentatore è pur riuscito a intravedere. Si tratta del rifiuto di un'attitudine conciliare, in particolare di quella ecumenica. Il Concilio certo si è voluto pastorale (e missionario), non dogmatico, ma ha aperto nuove prospettive, o meglio ha  ufficializzato le aperture portate avanti in precedenza da movimenti pionieristici. L'ecumenismo, pur nelle diverse impostazioni e con differenti gradualità, è apparso e appare come una scelta obbligata: i cristiani costituiscono una minoranza nel mondo, ed anche in Occidente; questo li ha obbligati a riflettere sul loro ruolo di sale del mondo e di lievito della pasta.

Inoltre si è sgretolato il concetto di "cultura cristiana”: se questo può valere "sotto un certo aspetto" per l'Occidente (nel senso che il cristianesimo è all'origine di certi valori che ormai sono stati fatti propri dalla cultura secolarizzata), il discorso è diverso per altre grandi culture non modellate dal cristianesimo.

Pertanto il confronto tra la fede evangelica e le culture diventa inevitabile, se si vuol essere fedeli all'imperativo di Gesù di predicare il messaggio di salvezza in tutto il mondo. In tale prospettiva va inquadrata la sempre maggior presa di coscienza della gravità della divisione tra le Chiese cristiane: siate "uni” perché il mondo creda, scrive Giovanni, e Paolo afferma che non vi sono “partiti" (o “chiesuole”) nell'unica Chiesa, che non vi è la fazione di Pietro, di Paolo, o di Apollo, ma che tutti i fedeli appartengono a Cristo. Altrimenti come si può predicare ai non-credenti lo stesso vangelo di salvezza? L'ecumenismo non è dunque fine a se stesso, né tanto meno è una moda uniformistica e conformista, ma è condizione indispensabile per la missione.

Resta comunque il fatto che lo scisma è grave e che tutti noi dobbiamo esserne addolorati, e non cercare di sminuirlo come si è fatto con un certo cinismo. E qui voglio riportare qualche considerazione di un giovane monaco non certo sospetto di tradizionalismo. A suo avviso il Papa avrebbe dovuto permettere a Mons. Lefebvre di consacrare i vescovi di sua scelta. Io non sono tanto d'accordo, perché ciò avrebbe significato sconfessare la sentenza di Paolo VI, e poi avrebbe creato un precedente, che in seguito avrebbe potuto avere serie conseguenze. Comunque ciò comporterebbe prima una seria meditazione - biblica, teologica e storica - sul modo di intendere l'autorità papale.

 Ma quello che mi è piaciuto e che sottoscrivo, nel discorso del mio amico monaco, è che il Papa avrebbe potuto non invitare Mons. Lefebvre a Roma, ma andare da lui e Econe, e discutere con lui e pregare insieme. Pio VI alla Fine del XVIII secolo andò a Vienna per cercare di evitare la costituzione del “giuseppismo”, specie di chiesa nazionale imperiale sul modello del gallicanesimo, e Monti scrisse in quell'occasione il suo poema “Il visitatore apostolico". Allora i Papi non erano abituati a viaggiare, mentre Giovanni Paolo II percorre incessantemente le vie del mondo per incontrare le folle. Questo viaggio sarebbe certo stato meno spettacolare di tanti altri, ma forse non meno utile.

 

Ettore De Giorgis

 




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