P. MICHELE PELLEGRINO
PASTORE E MISSIONARIO
Nato a Centallo (Cuneo) nel 1903, Michele Pellegrino. è ordinato sacerdote nella diocesi di Fossano il 19 settembre 1925. Nel 1929 si laurea in lettere all'Università Cattolica di Milano, nel 1931 in teologia alla facoltà teologica di Torino e nel 1933 in.filosofia di nuovo alla Cattolica. E' stato direttore spirituale al seminario di Fossano e a 32 anni è nominato Vicario generale della stessa diocesi. Dal 1940 al 1967 insegna letteratura cristiana antica all'Università statale di Torino, prima come libero docente e incaricato e poi come titolare della cattedra. Nel 1965 Paolo VI lo nomina arcivescovo di Torino e nel 1967 gli conferisce la porpora cardinalizia. Il 27 luglio 1977 si dimette da arcivescovo. Colpito in seguito da grave malattia, trascorre gli ultimi anni della sua vita all'Istituto Cottolengo dove muore il 10 ottobre 1986.
Non farò qui un ricordo
di Padre Michele Pellegrino in quanto mio professore di Letteratura Cristiana
Antica all'Università di Torino, perché, pur avendo tanto da dire al riguardo,
rischierei un discorso autobiografico, troppo centrato su me stesso. Accennerò
soltanto a questo fatto, che il suo insegnamento mi ha dischiuso degli
interessi e dei cammini di investigazione, che in seguito avrei - alcuni, non
tutti - approfondito; questo insegnamento - ci tengo a sottolinearlo - fu
soprattutto un magistero di vita.
E non voglio nemmeno,
ampliando il discorso, parlare di lui come uomo di cultura: ma dovrei dire
piuttosto di accademico, perché tutta la sua attività fu "culturale",
quella di vescovo non meno che quella di insegnante. Si pensi al suo intervento
all’ultima sessione del Concilio Vaticano II, in cui insisteva sul rapporto tra
libertà e cultura, binomio inscindibile se non si vuole ridurre quest'ultima a
strumento di dominazione di una gerarchia, sia essa ecclesiastica o politica,
militare o economica.
Qui però mi sono
proposto di tratteggiare una caratteristica costante del suo zelo apostolico:
l'incontro con gli altri nella loro concretezza e nella loro diversità. Questi
“altri" li ritrovava in primo luogo nella Chiesa, nel cattolicesimo e
nelle altre denominazioni cristiane, ed in particolare nella Chiesa torinese.
Da un lato quindi fu un ecumenista convinto, la cui convinzione e il cui
impegno si fondavano nella frequenza della Bibbia e dei Padri; d'altra parte
egli era membro di una Conferenza Episcopale in quel.tempo soprattutto
allergica in maggioranza alle arditezze che distinguevano il suo modo di
concepire il comportamento e l'azione di un vescovo. Così, anche se a poco a
poco, la sua figura aperta e rigorosa si impose al rispetto dei vescovi
piemontesi, che furono allora avanguardia in Italia, la sua posizione fu assai
spesso minoritaria in seno alla CEI. Per non parlare della Curia romana, dove
non pare avesse molte simpatie. Tuttavia, egli accettò sempre la sua scomoda
situazione in modo sereno, senza desistere dalle sue convinzioni e intuizioni,
sicuro com'era che il “bonum certamen” di cui parla Paolo si vince passando
attraverso la sofferenza e l’incomprensione, che altri è chi semina ed altri
chi miete. E' per questo che vedo molta analogia tra il suo destino e quello di
padre Chenu.
E poi vi erano le
tensioni all'interno della Chiesa di Torino. Ogni comunità ecclesiale che vuole
essere viva esperimenta questa situazione drammatica. Egli non volle mai
imporsi autoritariamente, anche quando la polemica saliva di tono: alcuni di
noi (e fra questi mi metto anch'io) non sempre capirono ed apprezzarono questo
stile, che sapeva unire la fermezza alla dolcezza. Attento com'era a “non
soffocare gli spiriti", si limitava ad esercitare una funzione di
discernimento, quella che contraddistingue chi esercita il governo nella
Chiesa, senza voler essere “il" profeta o “il” teologo, egli che pure
aveva ricevuto un carisma profetico-teologico.
Padre Pellegrino cercava
di conoscere le varie persone ed i vari gruppi per. meglio comprenderne le
esigenze e le speranze. Un solo esempio, illuminante: egli seguì con estrema
attenzione l'attività dei preti-operai, che all'inizio del suo ministero
episcopale conosceva poco e verso i quali era naturale nutrisse qualche timore,
dopo le crisi avvenute in Francia negli anni '50; ma poi, resosi conto che essi
avevano il “carisma della frontiera”, non solo li appoggiò ma fu al loro fianco
su quella frontiera.
E' per questo che la sua
attività episcopale non si esauriva nella pastorale. Il pastore infatti si
prende cura del gregge, conosce le sue pecore (non più certo ad una ad una,
impresa impossibile nella nostra società e nelle nostre grandi, troppo grandi
diocesi...), gioisce e soffre con loro. Ma vi sono delle pecore (e da noi sono
sempre più numerose, forse sono pure la maggioranza) che non appartengono al
gregge del pastore, che sono proprietà di altri pastori o che semplicemente
"fanno parte per se stesse". Eppure l'annuncio va portato anche ai
lontani ed agli indifferenti: con discrezione, senza sentirsi migliore di loro,
senza pretendere di salvarli dal momento che la salvezza viene solo da Dio. Un
annuncio che si fa con la presenza, facendo intendere che l'uomo di Dio è uomo
per tutti gli uomini, o meglio, che egli proclama che Dio si è fatto uomo per
tutti gli uomini.
Gli incontri con gli
operai in sciopero o in cassa integrazione non avevano finalità politico-partitiche (eppure lo chiamarono
anche - ohimè, quanto stupidamente - il “vescovo rosso") e nemmeno erano
sottese ad essi delle finalità di proselitismo o di neo-temporalìsmo.
Padre Pellegrino era un missionario nel senso più pieno del termine: "mandato" presso tutti, ebrei o gentili, ad annunciare che Dio si interessava di loro, che il Padre avrebbe reso giustizia a coloro che subivano l'ingiustizia. Per questo lo hanno pianto in tanti, soprattutto gli umili, che egli ha aiutato a riconquistare quella dignità che spesso gli uomini negano loro ma della quale Dio li riveste, come proclama il "Magnificat".
Ettore De Giorgis