IL PECCATO E IL PERDONO

NELLA TEOLOGIA DI LUTERO

 

 

Il discorso sulla natura umana "viziata" o “malata”, tipico del pensiero medioevale, non ritiene l'attenzione dei nostri contemporanei, Lutero, benché molto debitore di questo pensiero, sotto tale.aspetto è moderno, e la sua visione del peccato è esistenziale: esso non è considerato come un atto singolo, o come una serie di singoli atti, com'era in una certa ottica oggettivista (e come lo sarà in seguito, e come in molti casi continua ad essere); ma nemmeno si può dire che il peccato risieda essenzialmente nell'intenzionalità dell'atto, come sostenevano (e sostengono) i teologi soggettivisti.  Il peccato è la predisposizione al male, e come tale è costitutivo della condizione umana: i peccati.singoli (gli atti) sono pertanto concepiti come espressione di questo male originario, del  peccato originale, per usare il vocabolario della teologia tradizionale.

In questo caso, come in altri, Lutero interpreta.in modo radicale la teologia di S.Paolo: “In me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io ad agire, ma il peccato che è in me... Eccomi dunque, con la mente, pronto a servire la legge di Dio, mentre, di £atto, servo la legge del peccato. Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà? Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore" (Rom 7,18-25).

La lettura di Lutero è corretta, ma unilaterale, in quanto non considera l'altro aspetto, ottimistico della teologia paolina sul peccato e sulla redenzione, espresso nella lettera agli Efesini (che fa parte del "corpus” paolino, anche se facilmente è posteriore alla morte dell'Apostolo): "Per mezzo di Gesù Cristo noi tutti, ebrei e pagani, possiamo presentarci a Dio Padre, uniti dallo stesso Spirito Santo. Di conseguenza, ora voi non siete più stranieri, né ospiti. Anche voi, con gli altri. appartenete al popolo e alla famiglia di Dio. Siete parte dì quell'edificio che ha come fondamento gli apostoli e i profeti, e come pietra principale lo stesso Gesù Cristo. E' lui che dà solidità a tutta la costruzione e la fa crescere fino a diventare un tempio santo per il Signore. Uniti a lui, anche voi siete costruiti insieme con gli altri, per essere la casa dove Dio abita per mezzo dello Spirito Santo" (Ef 2,19-22).

La giustificazione del peccato è opera della sola fede. Io direi: della sola grazia, poiché la redenzione è universale, non si riduce ai soli cristiani; ed è ora di finirla con l'espediente dei "cristiani anonimi”, di coloro cioè che si comporterebbero da cristiani senza essere - o voler essere - cristiani... Redenzione universale,dicevo, perché altrimenti essa non sarebbe completa, e perché nessun rifiuto di Dio, per quanto possa . essere radicale, è consapevole sino in fondo, data la limitatezza della nostra condizione umana. Si pensi all'angoscia di Dostoievski di fronte alla prospettiva che anche un solo essere umano possa essere dannato; e se Amiel non aderì al cristianesimo, fu per l'identico motivo. Ora, se degli uomini – limitati e per qualche verso malvagi - non accettano la sofferenza “eterna” di loro simili, il Dio di bontà sarebbe da meno di loro? “Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore", è scritto nella prima lettera di Giovanni (3,20). E chi non consente? A meno di non immaginare un Dio “giusto vindice” ecc. ecc.: proiezione troppo antropomorfa, e comunque poco evangelica.

La giustificazione per la fede ha sempre fatto parte della dottrina cristiana, ma è stata  progressivamente occultata dal peso delle opere e delle pratiche: a Lutero il merito di averla riscoperta nella sua essenzialità. Non è che egli neghi il valore delle opere, come troppo spesso si pensa da parte cattolica: il fatto è che queste hanno un'importanza “seconda” - che non significa “secondaria” - rispetto alla confessione di fede (e della grazia che la previene), ossia sono una conseguenza della fede, sono espressioni gratuite (o almeno dovrebbero essere: ma vi è un “assolutamente gratuito" nell’uomo? Io ne dubito) del nostro amore per Dio, per questo Dio che ci salva malgrado noi stessi. Quindi le opere, se sono necessarie, non sono mai meritori, e mai mezzi di salvezza, perché "se fosse vero che Cristo ci salva perché osserviamo le norme della legge, allora Cristo sarebbe morto per niente" (Gal 2,21). Questo era l’errore fondamentale dei piissimi farisei e dei religiosissimi pelagiani. Ma la meritocrazia è esclusa dalla prospettiva  neotestamentaria: “Tutti chiudano la bocca e il mondo intero si riconosca colpevole davanti a Dio, perché nessuno potrà essere riconosciuto giusto da Dio in base alle opere che la legge comanda (Rom 3,19-20).

Lutero ha insistito giustamente sulla gravità del peccato personale, che richiede una continua conversione; ha lasciato invece troppo in ombra la dimensione sociale del peccato, sottolineata spesso e con forza nella Bibbia e nei Padri della Chiesa. Sotto questo aspetto la sua prospettiva teologica appare carente anche a molti luterani. Oggi poi viviamo in un'epoca in cui il sociale acquista una dimensione sempre più rilevante in ogni campo dell'attività umana, e i cristiani fanno bene a insistere sulle implicanze comunitarie del peccato. Tuttavia Lutero può aiutarci con il suo continuo richiamo al peccato come responsabilità personale, a correggere una prospettiva unilaterale, che in molti casi considera peccato essenzialmente ciò che comporta delle conseguenze sociali negative, mentre tende a trascurare il peccato personale, che corrode il cuore dell'uomo e talora si esaurisce in esso. Con questo non si vuol dare nessun avallo all'intimismo implicito in diversi "revivals” religiosi che caratterizzano il nostro tempo di "sicurezze frantumate”. Il peccato è innanzitutto un limite personale e contemporaneamente diventa un fatto di disaggregazione comunitaria, perché sono le persone a costituire la comunità, e non viceversa. Tuttavia i due termini sono intimamente legati: quando si chiese a Mounier quale delle due realtà, persona-e-comunità, fosse più importante, rispose che forse ciò che contava di più era la congiunzione “e" che le univa indissociabilmente.

 

Ettore De Giorgis

 




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