PACIFICO NON E' SINONIMO DI PACIFISTA
Le Edizioni CENS (Centro
Studi Ecumenici di Sotto il Monte) hanno raccolto in un volume intitolato
significativamente (ma genericamente) "La Pace", edito nel 1982, i
contributi di diversi autori, credenti e non credenti, a proposito di questo
argomento. I saggi pubblicati sono di orientamento e di valore molto diversi:
alcuni di alto livello, altri costituenti una panoramica organica ma non
originale di idee da tempo largamente diffuse; alcuni situantisi in una prospettiva
religiosa ed etica, quindi non soltanto contingente, altri di troppo marcata
parzialità (*).
L'articolo di François
Houtart mi pare decisamente mistificatorio: se gli Stati capitalisti non sono
che delle garanzie per il potere economico, è vano ogni discorso sulle
istituzioni e sul diritto; e se negli Stati di "socialismo reale" è
invece il politico che determina l'economico (non dico che ciò non sia anche
vero, ma il discorso è più complesso), allora è lecito parlare di
"capitalismo di Stato"? Che senso abbia poi ancora il
"riflettere in termini di classe" a livello mondiale, proprio non
riesco a vederlo. Certo, gli Stati Uniti hanno la loro colpa nell'abbandono
della politica di distensione: ma che l'Unione Sovietica (in cui pure l'autore rileva
"en passant" la contraddizione tra progetto socialista e Stato
nazionale) sia stata costretta ad irrigidirsi per rompere l'accerchiamento
statunitense, credo non lo pensino nemmeno più i partiti comunisti
occidentali.Se poi la soluzione consiste nell'accentuare le contraddizioni tra
gli Stati Uniti e l'Europa (e non tra l'Unione Sovietica ed i Paesi satelliti),
non si pensa che sarebbero allora gli americani a sentirsi
"accerchiati" ed a trarne non piacevoli conseguenze? La vulgata
marxista usata dall'autore, il dogma dell'economia al posto di comando (almeno
per quanto riguarda gli Stati capitalisti), la polemica unilaterale
anti-americana sono caratteristiche della "sinistra-non-indipendente"
italiana ed europea, aralda del neo-pacifismo.
Ruggero Orfei, anche se
appare più anti-americano che anti-sovietico, è assai più equilibrato nei
giudizi. Una sua affermazione è tuttavia di estrema gravità: "Nel blocco
europeo orientale il caso della Polonia è esemplare con le sue deficienze di
pianificazione e con la sua agricoltura che è rimasta arretrata, forse perché
non aiutata dai pianificatori in quanto residuo di una realtà di proprietà
privata. Ma la carenza di merci di consumo ha aperto un conflitto sociale che
diventa sempre più politico" (pag.80). Ridurre il caso polacco e
l'esperienza di "Solidarnosc" ad un conflitto essenzialmente
economico significa non soltanto aver capito nulla della realtà sociale
polacca, ma insultare - sia pure inconsapevolmente - la lotta eroica di un
popolo che con estrema dignità difende dei valori trascendenti. Anche qui
l'economico è misura di tutte le cose. Che senso ha allora pronunciarsi per la
crescita zero e per uno sviluppo qualitativo? A parte il fatto che è proprio lo
sviluppo, anche quello qualitativo, che fa oggi questione.
Dispiace poi che David Maria
Turoldo, nella sua "Salmodia di Zagorsk", faccia cenno soltanto a dei
Paesi oppressi dagli Stati Uniti, senza alcun riferimento alla politica
espansionistica ed oppressiva dell'URSS. E' vero che essa fu composta in occasione
del Convegno delle forze internazionali della pace del 1974, tenutosi in
Russia... Infatti la "Salmodia contro le armi" è meno manichea e
ripartisce le responsabilità. Tuttavia l'alternativa è quanto mai ingenua,
esaltando un tipo ideale di operai che si rifiutano di fabbricare le armi. C'è
ancora qualcuno che crede a questa divisione dogmatica tra buoni e cattivi?
Non si può qui entrare nel
dettaglio degli interventi di Ernesto Calducci e di Andrei Sacharov: il primo
insiste sulla pace come dato culturale (e non naturale) ed esalta giustamente
la razionalità; il secondo considera che la pace è minacciata assai più
dall'URSS che dagli USA, e che i sovietici conducono una campagna di
distensione unilaterale, in cui il disarmo è previsto solo per l'Occidente.
Norberto Bobbio, come sempre,
dimostra un'estrema lucidità ed un'alta coscienza morale. I diritti dell'uomo
sono strettamente connessi con la pace, anzi questa è determinata da quelli, e
non viceversa. La pace deve quindi essere tutelata da precise norme giuridiche.
Malgrado tutte le loro deficienze, gli Stati occidentali sono quelli più
democratici, proprio perché il diritto vi è più rispettato.
Giancarlo Bruni sviluppa una
bellissima riflessione biblica sul fondamento della pace e sul rifiuto della
guerra per un cristiano. "Shalom" in ebraico ha un senso più pieno
che il nostro termine "pace": esso indica sia la compiutezza
personale sia l'armonia comunitaria. E' errato separare l'Antico dal Nuovo
Testamento, in quanto la rivelazione di Dio è progressiva e si va facendo
strada in un mondo di violenza: la vittoria dell'Assiria diventa pertanto
simbolo della vittoria sulla guerra, che Dio, essendo un Dio pacifico, non
tollera. Infatti il Messia, in quanto servo di Jahvè, è non violento: la pace è
dunque radicata nella Parola di Dio e nello Spirito del Messia, essa è
costruita da Dio, mentre è proprio sulla morte di Dio che nasce la violenza. In
tale prospettiva la profezia consiste nell'indicare le cause e i luoghi donde
nascono la violenza e la non violenza. Dal momento che Dio non dà formule
politiche - poiché egli è un Dio di libertà - le scelte politiche esigono la
mediazione razionale, tenendo però sempre presente che tale scelta deve essere
sottomessa all'imperativo etico.
Il saggio più interessante
del volume è comunque quello, inconfondibile nel suo stile, di Ivan Illich.
Egli fra l'altro sostiene che la pace ebraica, lo "shalom", non ha
nulla a che vedere con quella romana, la "pax": tuttavia entrambi
questi modelli si rivelano oggi esausti. Occorre poi infrangere la concezione
illuministica secondo cui la pace rende simili le culture: è la guerra che le
assimila, mentre la pace rispetta la loro pluralità. Egli passa poi a criticare
la pace dei pacifisti, che è una pace astratta, senza dimensione storica, e che
quindi non può essere la pace del popolo; ma anche la pace economica, che oggi
da molte parti viene superficialmente indicata come la pace
"tout-court", è stata nel passato, ed è ancor oggi, marginale. Anzi,
spesso la pace popolare è in contrasto con la pace economica. Ciò che è in
crisi, infatti, è il binomio sviluppo-pace, poiché lo sviluppo (quello
economico, naturalmente, e non quello personale) troppe volte viene ad essere
una vera guerra contro la pace, per cui la conclusione, solo in apparenza paradossale,
che Illich ricava da tale constatazione è la necessità di limitare lo sviluppo.
Ammesso che Illich sia un
utopista, la sua utopia ha radici ben salde nella tradizione, ossia per lui la
storia è davvero maestra di vita. Così egli rivaluta il Medio Evo, in cui la
concezione della pace, secondo la Chiesa e secondo l'Impero, consisteva nel
proteggere i poveri ed i loro mezzi di sussistenza dal flagello della guerra.
Ma con il Rinascimento questa pace finì, poiché emerse l'egoismo degli Stati
nazionali e autoritari. Da allora in poi la pace assume una connotazione
mercantile e diventa grande produttrice di beni e di servizi, a misura
dell'"homo oeconomicus" che inizia ad afermarsi. Questa pace sempre
più proteggerà la produzione, esalterà il produttore contro il consumatore,
farà violenza all'ambiente, entrerà in conflitto contro coloro che non
dipendono dal "dio Consumo". Da tale visione deriverà la divisione
del lavoro tra uomini e donne (assegnando alle donne i lavori residui) e quindi
avrà origine un nuovo tipo di guerra, quello tra i sessi. Illich conclude la
sua requisitoria affermando che la pace economica è importante, ma non è che un
aspetto della pace del popolo: pertanto occorre combattere la sua pretesa di
costituire la pace nella sua interezza. Non dovrebbero esserci dubbi,
soprattutto per i cristiani. Invece non è così, purtroppo…
Ettore
De Giorgis
(*) AA. VV. "La Pace...
Se non cambiate modo di pensare, perirete tutti insieme",
Ed. CENS, Sotto il Monte
1982, pp.214, £ 6.000