Della "Octogesima adveniens" abbiamo già
presentato una breve sintesi in Koinonia (9/1981). Non ci dispiace ritornarvi
con l'analisi dell'amico E. De Giorgis, perché riteniamo che questa lettera
debba rimanere uno dei documenti più illuminanti e orientativi della coscienza
cristiana in senso evangelico.
RICORDANDO L’”OCTOGESIMA ADVENIENS” (I)
Io mi stupisco, e talora
mi scandalizzo, che certi eventi che hanno marcato il nostro passato prossimo,
e di conseguenza il nostro presente, siano così presto dimenticati: nel 1981
ricorreva il centenario della nascita di Giovanni XXIII e ben poche
pubblicazioni lo hanno ricordato; nello stesso anno si dava il decennale
dell'"Octogesima Adveniens", e chi ne ha fatto caso? Guai a quel
popolo che non conserva una memoria collettiva, che non fa riferimento ad una
"traditio": esso è labile, incostante ed inconsistente, e cede ad
ogni soffio di vento, ad ogni variare di moda. Tanti guai delle nostre
cristianità non hanno forse origine in questo sradicamento culturale?
Io credo, e non sono il
solo a crederlo, che l’"Octogesima Adveniens" sia di gran lunga il
documento papale più aperto in materia di insegnamento sociale. La lettera è
stata scritta in periodo di espansione economica, quando l'ottimismo
industriale, il mito del progresso indefinito erano divenuti dottrina comune, a
tal punto che chi osava affermare di non essere del tutto d' accordo con tale
ideologia dominante veniva qualificato come un profeta di sventura. Ora, se
Paolo VI riconosce i vantaggi apportati dall'era post-industriale, egli
individua pure i suoi aspetti negativi, ed è su questi che insiste: urbanesimo
sregolato, consumismo, pubblicità spudorata, anonimato, discriminazioni,
sfruttamento, carenza di alloggi, pericoli per la stabilità familiare, ecc.: ecco
l'altra medaglia del tanto vantato benessere; per cui viene da chiedersi: un
benessere ottenuto a tal prezzo non è intrinsecamente perverso? Il Papa afferma
giustamente che si tratta di ricomporre il tessuto sociale, di creare centri di
interesse e di cultura a misura d'uomo, in definitiva di ricreare le città. In
quest'opera titanica, ma necessaria - perché dalla sua riuscita o no dipende la
sopravvivenza o meno della convivenza civile - il compito dei cristiani è di
animare il sociale, portando ai disperati un messaggio di speranza. A molti
parrà ovvio o banale: io invece credo che sperare nella speranza - quella che viene da Dio, non quella che si
creano gli uomini per mascherarsi la durezza della realtà - sia un'impresa quanto mai rischiosa, non meno
folle che credere nello scandalo della Croce.
La lettera di Paolo VI,
diretta al cardinale Roy, si sofferma in particolare su alcuni dati preoccupanti: sull'ambivalenza della città,
che nella Bibbia è spesso sinonimo di peccato e di orgoglio, ma che indica pure
Gerusalemme, il luogo dell'incontro con Dio; sulla difficoltà del dialogo tra
adulti e giovani, difficoltà inevitabile quando è in crisi il concetto stesso
di tradizione; sui diritti della donna, che non devono però andare a scapito
della sua femminilità; sui diritti dei lavoratori, che devono potersi unire in
organizzazioni sindacali e ricorrere quando è il caso allo sciopero, che però
va attuato con grande senso di responsabilità; sull'emarginazione dei più
deboli (vecchi, minorati, ecc.); sulle varie forme di discriminazione
(soprattutto sul razzismo e sul nazionalismo); sul problema demografico,
opponendosi alle concezioni malthusiane;
sull'ambivalenza dei mass-media, affermando che le informazioni devono
essere vere, i bisogni propagandati reali e non manipolati, ed autentici i
valori cui ci si riferisce: "Gli uomini che detengono questo potere hanno
una grave responsabilità morale in rapporto alla verità delle informazioni che
essi devono diffondere, in rapporto ai bisogni e alle reazioni che fanno
sorgere e ai valori che propongono" (§ 20). A dieci anni di distanza si
può constatare quale soffio profetico animasse la preoccupazione pastorale di
Parlo VI. Ma più interessante ancora è il riconoscimento che i cristiani si
trovano nel mondo in situazioni diverse, sia oggettivamente - talora hanno un
riconoscimento ufficiale ed una presenza effettiva come gruppo, talora sono
minoritari, talora costretti al silenzio - sia soggettivamente, in quanto si
situano nel campo dei conservatori come in quello dei rivoluzionari. Pertanto
“di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola
unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa
la nostra ambizione e neppure la nostra
missione" (§ 4). Qui si invalida inequivocabilmente, come ha ben visto
padre Chenu, la concezione di “dottrina sociale cristiana": l'azione dei
cristiani, liberata dal peso dell'ideologia, può tornare ad essere libera ed
inventiva, oltre che non clericale, poiché Paolo VI ribadisce più volte che la
responsabilità della scelta nel temporale. spetta ai singoli cristiani; vi è
insomma un “ministero dei laici” i quali dovranno sempre ispirarsi alla
Scrittura, ma non strumentalizzarla per scelte temporali, dal momento che essa
ha un valore universale ed eterno.
Riconoscendo l'autonomia
della politica, Paolo VI non cede a nessuna tentazione spiritualista- Al contrario; infatti egli scrive che per un
cristiano l'attività politica è un dovere: “Il cristiano ha l’obbligo di partecipare
a questa ricerca (di un modello sempre perfettibile di democrazia - n.d.r.) e
all'organizzazione e alla vita della società politica" (§ 24). Infatti
Paolo VI, fedele alla tradizione tomista, è convinto che la politica
costituisce la più alta attività dell'uomo; ma nello stesso tempo rifiuta la
“religione politica”, ossia l'ideologia: "Non spetta né allo Stato né a
dei partiti politici, che sarebbero chiusi su se stessi, di tentare di imporre
un'ideologia, con mezzi che sboccherebbero nella dittatura degli spiriti, la
peggiore di tutte" (§ 25). In modo particolare egli critica le due
ideologie dominanti attualmente (o meglio, dieci anni fa, perché adesso esse
pure conoscono una grave crisi): il marxismo ed il liberismo; quest'ultimo è
tuttavia confuso, come avviene correntemente, con il liberalesimo; ora, nessuno
negherà che vi siano state troppo frequenti contaminazioni tra i due: tuttavia
molti nostri guai non derivano dal fatto che la nostra cultura è troppo
liberale, ma dal fatto che lo è troppo poco. Perché una vera laicità, che
rifugga tanto dall'integrismo quanto dal laicismo, non può fondarsi che sui
grandi valori della tradizione liberale, come hanno ben avvertito molti
intellettuali di tendenza socialista: "Dopo essere stata una lotta contro
l'isolamento ed il ripiego su se stessi, la laicità deve oggi svilupparsi come
‘arte del pluralismo' e come ripartizione migliore dei mezzi di comunicazione
sociale" (*). Certo, un cristiano che si consideri grosso modo un
liberalsocialista si renderà conto che non basta, come afferma giustamente
Paolo VI, proclamare i diritti dell'uomo, e che anche il loro necessario
fondamento giuridico non sempre è rispettato, e comunque, anche se lo fosse,
non potrebbe soddisfarlo pienamente: occorre la solidarietà, ossia l'amore per
il prossimo, ed in particolare verso i più deboli. E' a questo livello che si
manifesta la specificità cristiana, che è una specificità di cui i cristiani
non detengono il monopolio, ma.le cui motivazioni.hanno un preciso fondamento
biblico.
La diffidenza di Paolo
VI verso la concezione stessa di ideologia non potrebbe esprimersi più
chiaramente che in questo passaggio della lettera: “E’ necessario sottolineare
l'ambiguità che può celarsi in ogni ideologia sociale?... La fede cristiana si
pone al di sopra e talora all'opposto delle ideologie" (§ 27).
Ora, il regresso delle ideologie alla moda (il marxismo, ma anche lo scientismo, il freudismo, lo strutturalismo...) può considerarsi iniziato con il Maggio '68, e negli anni successivi è andato sempre più accentuandosi. Tuttavia, come giustamente avvertì Paolo VI, esso può sboccare verso una trascendenza o indirizzarsi verso un positivismo tecnologico: in quest'ultimo caso si ricadrebbe sotto il dominio di un'altra dittatura ideologica, la tecnocrazia; ma anche la prima soluzione è aperta al rischio, in quanto può ricondurre a posizioni integriste, quindi ideologiche (ed è ciò che in molti casi sta avvenendo), qualora non vi sia tensione tra il polo politico ed il polo profetico, per riprendere la terminologia di Mounier, anche se egli metteva in guardia contro il pericolo contrario (quello di un impegno non ancorato in un assoluto). E’ appunto quest'essere-in-tensione che costituisce laicità.
Ettore De Giorgis
(1. continua)
(*) G.Malaurie, Esprit, ott./nov. 1981, p. 59