LA PAURA DEL DIALOGO


Uno dei problemi verso cui la cultura contemporanea si dimostra più sensibile è quello della comunicazione a tutti i livelli: questo soprattutto dopo la crisi dell'esistenzialismo che aveva - almeno nelle sue espressioni più conosciute - eretto l'incomunicabilità a dogma sia pure negativo ("l'inferno sono gli altri", secondo la nota espressione di Sartre). Non c'è quindi da stupirsi se anche nella Chiesa si insista da vari anni su una questione così vitale e attuale.
E' su questo sfondo che va collocata l'iniziativa dei 14 intellettuali cattolici, autori della lettera aperta "Per una comunicazione più profonda e più autentica nella Chiesa" (cfr. Rocca, 15 giugno 1980).
Essi notano che, dopo gli entusiasmi del Concilio e del primo post-Concilio, la comunicazione ecclesiale è ritornata ad essere difficile, e che quando esiste è troppo spesso soltanto formale: se sono rari i casi di repressione (che pure esistono e di cui il più clamoroso è l'"affare Kung"), è però vero che la comunicazione avviene quasi soltanto dall'alto in basso: opera di dignitari ecclesiastici e semmai di "teologi di corte", microfono dei primi, che ricercano il plauso (e quindi il consenso passivo) delle folle. Si fa come se in poche persone vi fosse una concentrazione di carismi, mentre il discorso di Paolo esclude il totalitarismo carismatico, poiché per l'apostolo i doni dello Spirito sono diffusi in tutta la comunità, a beneficio di tutti i suoi membri.
E' un discorso difficilmente contestabile, a condizione che si facciano due precisazioni. Innanzitutto a questa incomunicabilità verticale ne corrisponde una orizzontale, dal momento che le così dette Comunità di base (ma quale è questa "base"? è una "base" di popolo o un vertice di intellettuali e pseudo-intellettuali? è un discorso incarnato e concreto quello che ne emerge o non piuttosto un verbalismo da salotto?) non sembra abbiano sviluppato in questi anni un dialogo "orizzontale", ma si siano invece chiuse in un settarismo esclusivista, da "migliori-della-classe". E poi, perché il pluralismo sia effettivo, i cristiani non dovrebbero mai pretendere che le istanze gerarchiche sanzionassero i loro punti di vista e le loro scelte, poiché ciò porterebbe ad un nuovo uniformismo, anche se battezzato come "progressista": occorre invece richiedere che si accetti il fatto di essere diversi, ed il confronto va fatto tra "credenti diversi" uniti nella stessa fede trinitaria e cristologica.
Detto questo, non si può non consentire con gli estensori della lettera aperta sul fatto che una Chiesa in cui sia carente la comunicazione interna si trovi ad essere scarsamente inserita nel mondo, e che quindi viva troppo dall'esterno i grandi problemi che scuotono l'umanità: le dichiarazioni sulla pace e sulla giustizia restano a livello di principi e non scalfiscono il cuore degli uomini, soprattutto dei credenti.
Io credo che i motivi della scarsa comunicazione intraecclesiale e del conseguente scarso inserimento nel mondo siano soprattutto di ordine culturale e teologico, e solo in seconda istanza di carattere pastorale. In primo luogo non si è ancora presa coscienza, in vasti settori della Chiesa (e per Chiesa non intendo qui solo quella di Roma, ma tutte le confessioni cristiane, cattolica come riformata, ortodossa come anglicana) che la cristianità è definitivamente defunta; e allora ci si arrocca su posizioni difensive, per mantenere, consolidare, ampliare i resti di "quella che fu la cristianità" - impresa titanica e anche commovente, ma votata al fallimento. Come conseguenza di questa attitudine vetero-cristiana si ha il culto dell'abitudine e la paura del rischio (e pensare che Mounier parlava dell'"avventura cristiana"...), il timore di essere sospinti verso nuove terre, paura comprensibile e congenita, che già caratterizzò gli Ebrei usciti dall'Egitto'e i giudeo-cristiani che temevano le audacie missionarie di Paolo. Infine, tale tipo di attitudine religiosa (che io rispetto ma che non condivido, perché mi va troppo stretta) ha la tendenza a esprimersi in una fede di tipo dogmatico (necessaria, certo, ma non esclusiva) e non esperienziale. Ora, come disse Kierkegaard, Gesù Cristo non insegnò una dottrina, ma visse una vita....
Concludendo, vorrei dire ancora che la lettera dei 14 intellettuali cattolici mi trova in gran parte consenziente, anche se mi sembra che esprima una situazione tipicamente italiana, o almeno europea. In America Latina, ad esempio, le cose non stanno così. Mi si potrà obiettare da un lato che non si possono trasferire meccanicamente in una cultura le esperienze di un'altra cultura, proprio per la necessità di incarnare e di situare la fede; e d'altra parte che i miti (e oggi c'è un mito dell'America Latina, ne convengo) possono essere pericolosi alibi ed evasioni che, favoriscono il disimpegno. D'accordo. Ma è pur vero che la conoscenza comparata di altre situazioni può aiutarci ad evitare e a correggere certi errori. Ora, io credo che il concetto di "massa" sia fuorviante, e che si debba ritornare a parlare di "popolo", come amava fare Péguy. Certo, anche nella Chiesa brasiliana vi è una minoranza d'avanguardia, ma essa non è staccata dal popolo, a differenza dell'intellettuale europeo, impregnato del dottrinarismo marxista-leninista-gramsciano, che si vuole "coscienza delle masse". In America Latina le "minoranze profetiche" sono lievito nel popolo e del popolo, e di questo condividono l'esistenza. E' lo stile di vita che è tutt'altro. E, come diceva Buffon, "Le style, c'est l'homme" (lo stile è l'uomo).

Ettore De Giorgis



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