GALLERIA DOMENICANA






SAN DOMENICO
di Georges Bernanos


Se si interroga per la prima volta la vita di uno di questi santi, e in particolare del fondatore di un ordine, le voci che ne escono sembrano all’inizio innumerevoli e diverse tanto da turbare lo spirito. Se si segue passo passo l’ordine dei fatti questa specie di vertigine non farà altro che crescere, poiché la loro successione temporale non ha alcuna importanza, o solo molto scarsa.
Questi grandi destini sfuggono più di qualunque altro a qualsiasi determinismo: irradiano e risplendono di una sfolgorante libertà.
Ad un primo esame, solo il genio sembra conferire ad alcune di queste vite fuori dalla norma il medesimo carattere di indipendenza, di sovrana spontaneità. Invece non è affatto così. Al contrario, si potrebbe sostenere - e con quali illustri esempi!- che il genio ha sempre in sé qualcosa di ostile e irriducibile, e quasi un principio di sterilità. Se egli realizza questa meraviglia di ispirazione e di equilibrio che è l’opera d’arte compiuta, il più delle volte - quando non vi collabora la carità divina - è attraverso una sorta di specializzazione mostruosa che consuma tutte le potenze dell’anima e la lascia divorata dall’orgoglio in un egoismo disumano.
L’uomo di genio è così poco presente nella propria opera che quasi sempre questa è testimonianza impietosa contro di lui. Invece l’opera del santo è la sua stessa vita ed egli vi è completamente immerso.
Tuttavia la difficoltà non è assolutamente risolta: al contrario, a questo punto della meditazione appare quasi irrisolvibile.
L’esperienza degli uomini ci insegna a penetrare abbastanza a fondo nelle loro intenzioni attraverso il solo confronto - già troppo crudele - tra pubblico e privato. Non vi è atteggiamento - per quanto bene e pazientemente mantenuto- che non porti in sé la propria contraddizione, nessuna menzogna è così compatta da non presentare neanche un punto debole o che per lo meno non possa essere smascherata. Come il chirurgo impara la vita per mezzo del cadavere, ed il biologo analizza i rifiuti organici per cercare di sorprendervi il segreto degli scambi e delle funzioni, così il moralista sa di avere davanti a sé questo personaggio artificioso e fraudolento, questo cadavere mascherato, di cui noi stessi siamo le vittime tanto quanto gli altri, fino a quando il primo sguardo del giudice, al di là della morte, non lo manda in pezzi. Invece il santo è di fronte a noi ciò che sarà di fronte al giudice. Il nostro sguardo stupito non si trova davanti a una vita diminuita (come si vorrebbe far credere), o alla mortificazione continuamente rinnovata, ma alla vita nella sua pienezza e come allo stato nascente, la vita stessa, come una sorgente ritrovata. Ritrovata, poiché l’avevamo perduta, ed appena ritrovata persa nuovamente.
Il povero nomade, nel mezzo dei suoi deserti di sabbia, che chiede per sé e per le sue bestie un goccio d’acqua torbida, non riesce a credere che esista sempre un paese di fontane e che vi sarà nuovamente per le sue labbra e le sue mani un getto gelato, un’onda spumeggiante e azzurra.
Si pensa che un Benedetto, un Domenico, un Ignazio ci siano più vicini rispetto a un Jean de la Croix o ad una Caterina da Siena, perché sono anche dei legislatori e dei conquistatori. E’ vero, così ci impartiscono delle lezioni che la prudenza umana può intendere. Ma che vista corta!
L’ambizioso che cercasse di trovare qui un metodo o ricette originali perderebbe il proprio tempo. Non esistono formule per la santità, o, per meglio dire, ella le contiene tutte. Unisce ed esalta tutte le potenze, realizza la concentrazione orizzontale delle maggiori facoltà dell’uomo. Anche solo per riconoscerla, esige da noi uno sforzo e la nostra partecipazione, in qualche modo, al suo ritmo, al suo immenso slancio. Senza dubbio sembra più facile trascrivere, secondo il vocabolario comune, la storia della fondazione dei Predicatori, piuttosto che un’illuminazione di Angelo da Foligno. Tuttavia, se fosse stato in nostro potere alzare uno sguardo unico e puro sulle opere di Dio, l’ordine dei Predicatori ci sarebbe apparso come la carità stessa di San Domenico realizzata nello spazio e nel tempo, come la sua orazione visibile.
Ecco perché i metodi moderni della critica storica in tali materie non hanno finito di deluderci.

Le esistenze dominate dalle grandi passioni umane, al di là del loro apparente disordine, possiedono una certa unità di fondo che permette di trasporre le più illustri sul piano di quelle ordinarie, di trovare loro - se così si può dire - una specie di denominatore comune. Niente è più monotono o più miseramente ripetitivo della passione. Cesare ci fa comprendere quel tale ambizioso di capoluogo, e quel funzionario coloniale ci apre l’animo di Nerone. La passione prende tutto ciò che le si concede e non restituisce nulla. Al contrario, la carità dà tutto, ma a lei viene reso anche di più. Quale contabilità sovrumana presiede questo magnifico scambio? Se lo storico si atterrà ad una rigorosa esattezza imparerà ben poca cosa dall’esistenza di un santo.
Le vecchie leggende la sanno molto più lunga, poiché trascrivono in simboli le realtà profonde. Queste possiedono il carattere di ingenuità che sembra sviare appositamente la nostra logica e la nostra esperienza.
Come potrebbe non essere così? Ogni vita di santo è come una nuova fioritura, l’espansione in un mondo che l’eredità del peccato rende schiavo dei suoi morti - di una miracolosa, edenica ingenuità.

II - In questo senso poco ci importa che Domenico appartenesse o no all’illustre famiglia dei Guzman, e fosse così parente degli antichi re di Spagna. Ci basta sapere che egli era di sangue militare, e immaginarlo bambino, con i capelli biondi, quasi rossi, gli occhi azzurri e la pelle chiara dei suoi antenati visigoti - Ruodrico, Wilhelm, o Froïla - mentre in cima all’umile torre feudale di Caleruega , dall’unico torreón rettangolare costruito dal suo avo alla frontiera del paese moro, guarda scorrere verso il mare le acque chiare del Douro. All’estremo orizzonte, molto oltre le pianure grigie striate dalle rocce rosse del trias, fiorite di eriche rosa, di ginestre e di salicornie, con i loro cespugli di lavanda, d'issopo e di rosmarino dove pascolano i piccoli maialini neri, la sierra di Guadarrama alza al cielo i suoi alti contrafforti scuri e dietro la loro massa enorme ecco Toledo, dove i capi castigliani lottano contro i Mori. In una ripresa o due, aperta la breccia, i piccoli cavalli infaticabili arriverebbero sulla riva del fiume e si vedrebbero nuovamente agitarsi sulle rive i lunghi mantelli bianchi e i giachi dorati...Non è così lontano il tempo in cui nei mercati mori si comprava una donna per un dirhem e un bambino cristiano per mezzo dirhem! Non c’è una di queste capanne di argilla e paglia affastellate ai piedi del torrione, dove non ci si intrattenga ascoltando storie meravigliose, dai toni solenni e piene di sangue, che appartengono al genio di questa razza cresciuta nella disgrazia e nella povertà. Il pastore, coperto dalla testa ai piedi con pelli di montone, e che sembra in mezzo alle sue bestie anche lui una bestia gigantesca, ne alimenta i propri sogni, la mano chiusa sul suo bastone guarnito in ferro. Ma a voce bassa si parla anche di quei familiari - padre, figlio, fratello - rapiti dagli audaci ladri pagani, venduti come bestiame, che lentamente si avvicinano alla morte nei supplizi e nel terrore della schiavitù, in fondo a queste città misteriose piene di ricchezze inaudite e sotto un cielo d’incanto. Talvolta le donne piangendo si passano tra loro il messaggio portato da lontano da un catalano sospetto, probabilmente rinnegato o ebreo. Dopo aver ricordato con disperazione tutto ciò che egli non ritroverà più, il miserabile enuncia timidamente il prezzo del suo riscatto - cifra favolosa, straziante miraggio! «La cattività presso i Mori fu una delle piaghe della Spagna, più angosciosa della carestia» scrive il R.P. Petitot. Ora, mentre questi duri contadini, o i nobili così simili a loro, sognavano rappresaglie, armate disfatte e teste tagliate, non è possibile supporre che il piccolo Domingo, che fino alla morte fu un amico così tenero, sentisse il cuore tremare di pietà a tali racconti? Thierry d’Apolda ci riferisce che, vent’anni dopo, il giovane canonico d’Osma un giorno decise di vendere se stesso per riscattare il figlio di una povera donna. Forse tocchiamo qui la molla segreta di un’infanzia sulla quale i cronisti non possono insegnarci molto. Questa immaginazione delicata fu presto crudelmente ferita. Molti altri giovani castigliani subirono a quel tempo la medesima prova, e come unico risultato si inasprirono. Lui, al contrario, si apre d’istinto e totalmente alla divina compassione - e da allora inizia senza alcun dubbio il poema della sua carità.

La madre di Domenico, la beata Giovanna, figlia dei signori di Aza, era di antica nobiltà. Domenico era l’ultimo dei suoi figli e forse il più profondamente amato - se si deve dar credito alla tradizione secondo la quale la futura gloria di suo figlio le fu annunciata in sogno. La madre lo tenne sette anni con sé, poi lo portò da suo zio, l’arciprete di Gumiel d’Izan (che dista solo quattro leghe da Caleruega). Qui Domenico visse nell’oscurità e nello studio fino all’età di quindici anni. A questo punto decisero di mandarlo alle scuole di Palencia, quelle che saranno più tardi l’illustre Università di Salamanca. Queste scuole erano celebri già da allora e d’altronde la Spagna intera, come il resto della cristianità, si sentiva trasportata in quell’irresistibile movimento in ascesa che fu il prodigioso tredicesimo secolo.
Secondo il venerabile programma carolingio, sei anni furono consacrati allo studio della grammatica, della poetica, della logica, e poi dell’algebra, dell’astronomia e della musica. Terminato questo primo ciclo, Domenico ha ormai ventun’anni, ma studierà o professerà la teologia a Palencia fino all’età di trentun’anni. Fu allora che avendolo chiamato presso di sé il priore del capitolo di Osma, Diego de Azevedo, Domenico diventò canonico regolare di questo capitolo e ne fu nominato sottopriore quando Diego fu chiamato egli stesso al seggio episcopale di Osma. Domenico ha trentaquattro anni. Quanti altri, con natali altrettanto illustri, e non meno studiosi o eloquenti, sono morti priori di Osma! Tuttavia, all’insaputa di tutti, e senza dubbio all’insaputa di se stesso, la grande opera, già compiuta, fremeva nel suo cuore. Il giovane canonico dai capelli biondi, dalle belle mani, dalla voce forte e dolce allo stesso tempo, che legge sulle rive dell’Ucero e risponde ai saluti con quella sorta di tenera urbanità tanto amata dai suoi figli, è egli stesso l’ordine dei Predicatori, non già frutto di un calcolo astratto, ma nella piena effusione della vita. Qui tutto è fresco, puro, nuovo, tutto tende verso l’alto, come l’universale ascesa dell’alba. E’ l’ordine dei Predicatori, questa grande avidità di conoscenza e il grande desiderio di instaurarla nel Cristo. E’ l’ordine dei Predicatori, questa sacra impazienza che fa ruggire Domenico come un leone, nella sua piccola cella, ai piedi del Crocifisso - «a gemitu cordis sui rugitus solebat emittere». E’ l’ordine dei Predicatori, il grido dell’apostolo che, in tempi di carestia, vende ciò che ha di più caro, i suoi libri: «Come potete studiare su delle pelli morte, mentre i vostri fratelli muoiono di fame!». E’ l’ordine dei Predicatori, infine, la sublime inquietudine dell’oscuro sottopriore che, in piena fioritura della vita monastica, cerca invano una regola a sua misura senza trovarla. Così simile agli altri uomini - e allo sguardo di Dio e degli angeli, nuovo, appositamente creato, unico!

E’ povero, solo, e ha il tempo contato: diciassette anni, duecentoquattro mesi!
Oltre a ciò, egli non sembra avere alcun piano prestabilito, ignora la sua strada. Ma ha qualcosa di meglio di un piano: il distacco fondamentale, la libertà interiore che attira senza dubbio lo Spirito dall’alto dei cieli, così come un uccello affascinato. E’ allora che gli viene dato all’improvviso un primo segno, peraltro oscuro. Il re di Castiglia invia Diego de Azevedo e Domenico in Danimarca per negoziarvi il matrimonio di suo figlio con una principessa di quel paese. Che al termine del loro lungo viaggio i due ambasciatori abbiano appreso della morte della giovane principessa, questo è senza dubbio di nessuna importanza. L’avventura, un po’ burlesca, ha un altro significato. Domenico è ancora sottopriore di Osma e già i suoi legami si sono spezzati. Ha attraversato molti paesi, è stato testimone della grande angoscia della Chiesa: i monaci trincerati nei loro conventi; i vescovi inerti o sospetti, carichi di processi e di beghe legali; il clero mantenuto in uno stato di ignoranza abietta in mezzo a un popolo affinato quotidianamente dal progresso materiale e la crescente facilità della vita; le parrocchie all’abbandono, lasciate nelle mani di vicari mercenari da parte dei loro legittimi pastori; la predicazione ridotta a nulla, limitata alla recita domenicale del Credo e del Pater, o affidata ad associazioni laiche prive di alcuna dottrina, ad oratori da fiera; il papato impotente, sommerso, tradito, costretto a far ricorso al suo ultimo esercito, la suprema riserva cistercense - e in questo terribile disordine, come i lupi attraverso un villaggio saccheggiato, gli apostoli di una dottrina strana, venuta dall’Oriente, che fanno del diavolo il pari e l’avversario di Dio...
Guardate l’immagine del vecchio vescovo, sulla lunga strada monotona, a tante leghe dalla sua povera cattedrale, che non può credere che il mondo sia così malvagio, mentre la famosa voce impassibile ancora sconosciuta grida la sua collera e la sua speranza nella campagna deserta!
E improvvisamente eccoli, il giovane e il vecchio, che, sazi di tristezza, prendono una decisione - bella, toccante, così simile ai grandi sogni della gioventù! Bruciano le tappe, corrono a Roma, si gettano ai piedi del Santo Padre, e chiedono umilmente il permesso di evangelizzare i Cumani. Chi sono i Cumani? Sono dei pagani nomadi dell’estrema Dacia di cui essi hanno sentito parlare in Danimarca, così crudeli e astuti che li avrebbero fatti mettere immediatamente a morte, loro, gli umili servitori di Dio...Innocenzo III, scrive Padre Petitot, era piccolo di taglia, portava un copricapo a punta, parlava con voce forte e brusca. Mandò indietro Diego alla sua diocesi.
Ogni uomo predestinato, almeno una volta nella vita, si è sentito colare a picco, toccare il fondo. La sensazione che ci venga a mancare tutto in un solo istante, questa sensazione di completo spodestamento è, al contrario, il segno divino che qualcosa sta iniziando. E’ verosimile che il vecchio vescovo, che tra l’altro morirà ben presto, e il suo giovane compagno, conobbero sulla via del ritorno questo senso di amarezza. Seguirono la valle della Loira, poi quella del Rodano, attraversarono Lione, Avignone, Nîmes. Ovunque si respira un’aria di tradimento. Grandi e piccoli signori avidi dei beni della Chiesa, vescovi felloni, monaci rinchiusi nelle loro fortezze, popolino oggi beffardo e domani feroce, sguardi sornioni, mani furtive, piazze di villaggi brulicanti come formicai improvvisamente mute al loro passaggio...la piccola carovana camminava lentamente attraverso la burrasca prossima a scoppiare. Come dovevano ridere di cuore le giovani donne al loro passaggio! Durante il giorno - la notte non essendo altro che un gran rumore confuso - incontravano talvolta la scorta di un ricco abate, dall’aria furtiva, armata fino ai denti, come in un paese nemico.
Una volta svanita la nube di polvere, accadeva spesso di vedere uno di questi catari, testa e piedi nudi, i capelli ancora zuppi dell’ultimo acquazzone, sordido e severo sotto le sue vesti, a cui le madri venivano a porgere in ginocchio i propri figli...E così raggiunsero Castelnau, nelle vicinanze di Montpellier.
Nel borgo trovarono grande assembramento di uomini, muli e cavalli: erano i due cortei del potente abate di Cîteaux, Arnauld Amalric, e dei due legati papali, Châteauneuf e Raoul de Fontefroide, che li accolsero con tutti gli onori. A partire dal giorno seguente si riunirono in conferenza. I legati deplorarono fortemente il libertinaggio e la simonia dei preti, l’ambizione dei prelati, i loro intrighi con i signori, l’indegnità del vescovo di Narbonne, l’insolente parzialità del conte di Tolosa e della sua nobiltà a favore dei rinnegati e dei ribelli. Insieme ad Amalric, essi giudicavano che la ribellione sarebbe stata ben presto generale e che sarebbe stato necessario soffocarla nel sangue. A quel punto chiesero sinceramente l’opinione dei due stranieri. Che balzo dovette dare il cuore dei due amici a questo invito!
Questi risposero all’unisono che bisognava immediatamente mandare indietro scudieri, cavalli e muli, deporre i ricchi abiti e incamminarsi a piedi sulle strade, alla mercé di Dio, mendicando il pane quotidiano. Ecco come Diego de Azevedo, Domenico, i monaci cistercensi e i legati decisero di prendere per Béziers. Il Medioevo ha dato scandalo con molti vizi, ma non è mai stato volgare.
Ciò che bisogna ammirare in un proposito così audace non è solamente la generosità, ma la sua perfetta correttezza. Quando il mondo sfugge alla tirannia delle idee mediocri cade preda delle idee audaci che divengono folli poiché nulla è più raro del vero spirito pratico in cui San Tommaso vede giustamente un prolungamento dello spirito speculativo. Ma il pensiero di Domenico si congiunge qui senza saperlo a quello dei grandi Papi i quali, nella prima metà di questo secolo, gettarono nella mischia predicatori e mendicanti. I monasteri erano rimasti ciò che già erano in piena anarchia feudale: degli asili e delle fortezze. Possono essere paragonati a quei soldati armati così pesantemente che la fanteria leggera inglese li distruggerà da lontano senza mai lasciarsi avvicinare. Perché una tale rivoluzione fosse portata a compimento - e cioè venisse sanzionata da Roma - era innanzi tutto necessario che San Francesco e San Domenico si sacrificassero per provare che ciò era possibile. E’ questa infatti la parte che Dio riserva ai propri santi.
Quindi non è forse proibito pensare che Domenico seguisse un suo piano. Ma quanto deve essere lontana la verità da questa pigra ipotesi! Se la santità svolge una storia dovrà essere piuttosto qualcosa come un succedersi senza ripetizione in cui ogni momento è unico. L’opera non è matura, è la carità che è pronta, è l’essere vivificato dallo Spirito che ha ormai raggiunto il culmine dell’eccellenza.
Nulla lo fermerà e l’ostacolo, già crollato, non è che una guida o un punto di riferimento. La volontà del grand’uomo ha sempre qualcosa di rigido. Quella del Santo, al contrario, è libera, docile e pura. Cosa volete opporre di saldo o quale trappola volete tendere a colui che in qualunque istante è sempre pronto a donare tutto? Infatti egli dà tutto. Il suo primo impulso è quello di gettarsi avanti. Questi magnifici eroi della speranza si battono sempre come disperati. La roccaforte del signore Etienne, a Lervian, è un rifugio di rinnegati catari, il più celebre dei quali è Thierry, anziano decano del capitolo della cattedrale di Nevers. La piccola compagnia vi corre. Non pensiamo che questi neo-manichei fossero degli stupidi: l’erudizione biblica di alcuni di loro era inaudita. Essi sapevano trarne vantaggio in maniera eccellente, legando abilmente la loro causa da un lato alla reazione delle coscienze davanti al decadimento e al degrado di un certo clero, e dall’altra al movimento democratico più potente allora che in qualsiasi altro momento della nostra storia.
Il fiorire di un’eresia d’altronde è sempre un fenomeno alquanto misterioso. Quando all’interno della Chiesa un vizio raggiunge un certo grado di maturazione, l’eresia germoglia spontaneamente e getta immediatamente i suoi mostruosi rami. Le sue radici sono nel corpo mistico; è una deviazione, una perversione della sua vita stessa. L’eresia catara è nata sull’ignoranza e sulla pigrizia del clero, come quella valdese è nata sulla sua avarizia e lussuria. «I vescovi - dirà solennemente il concilio del Laterano - a causa delle loro infermità, per non parlare della mancanza di conoscenza assolutamente intollerabile nonché biasimevole, non sono più capaci di predicare la parola di Dio». Se la carità di Domenico non ne avesse avuto il presentimento, l’esperienza glielo avrebbe insegnato nel corso degli aspri scontri che sosterrà per mesi a Lervian, a Béziers, a Carcassonne, a Tolosa, a Verfeuil, a Montréal.
Le leggi della dialettica sono anche quelle dell’azione. Il vero dialettico disdegna gli errori parassiti e si porta immediatamente al centro stesso del ragionamento nemico.
Allo stesso modo vediamo Domenico che, come un condottiero, cerca il contatto non per saggiare l’avversario, ma per batterlo. Certo, tra i catari vi sono ipocriti da smascherare, ambiziosi da umiliare, ignoranti da sconcertare. Lo vedo disprezzare questi facili trionfi; senza dubbio non ci pensa affatto. Ma dato che i migliori tra i catari sono a Fanjeaux, in mezzo a un popolo fanatico, è là che egli corre a rinchiudersi, con gran pericolo per la sua stessa vita. Ha appena ricondotto a Dio nove dame della piccola nobiltà che fonda insieme a queste la casa di Prouille - il suo primo e umile bottino.
Quasi subito il Papa Innocenzo III chiamava il Re di Francia, il Duca di Borgogna e il Conte di Champagne in soccorso della cristianità. Diciotto mesi più tardi Béziers cadeva, seguita da Carcassonne. Per altri sei anni l’onda passa e ripassa sulla povera terra. Quando si ritira, Prouille è sempre in piedi e Domenico, d’accordo con il vescovo Foulques, si è saldamente insediato a Tolosa. Tuttavia, dopo dieci anni di incessante predicazione, il santo ha con sé solo sei compagni. Più d’uno si sarebbe scoraggiato o almeno avrebbe mostrato fretta di recuperare il tempo perduto: lui invece invia tranquillamente la sua piccola truppa al maestro Stavensby che proprio a Tolosa professa l’apologetica e la teologia. Un tale sangue freddo fa riflettere.

L’istituto dei «missionari apostolici di Tolosa» risale al 1215. Domenico ha quarantacinque anni e morirà sei anni più tardi.
Il destino dei grandi è sottomesso alla legge comune: sembra che la loro fortuna abbia una giovinezza, una maturità, un declino e una fine. A Marengo tutto va bene; a Waterloo invece tutto è perduto. Ma la vita di un santo ha un altro ritmo. Gli inizi sono lenti, spesso fastidiosi; le contraddizioni vengono dall’esterno, ma anche dall’interno. Poi, quando l’opera ha trovato il suo equilibrio misterioso, viene come strappata dalla terra e prende il volo.
Tutti gli storici di San Domenico consacrano più della metà delle loro pagine allo studio di questi ultimi dieci anni. Questa stasi forzata rischia di lasciare il lettore insensibile ad uno slancio tanto prodigioso. La carta con la quale Innocenzo III prende sotto la sua immediata protezione il monastero di Prouille è dell’8 ottobre 1215. Domenico e il vescovo Foulques sono a Roma. Nel gennaio 1216 ritroviamo il santo a Narbonne, poi a Prouille. Una comunità di religiose si è stabilita a Tolosa. Il progetto della prima regola è appena fissato e già dà l’avvio all’innovazione più audace: l’eliminazione del lavoro manuale che ha per corollario la rinuncia ai possedimenti territoriali. Il 28 agosto di quell’anno il maestro dei Predicatori prende possesso del priorato di Saint Romain, primo convento regolare dell’ordine. Nel mese di dicembre è di ritorno a Roma dove ottiene dal successore di Innocenzo, Onorio III, solenne approvazione. A partire dalla primavera del 1217 è nuovamente a Languedoc e a dispetto di tutti i consigli, con inaudita audacia, mentre la rivolta tuona in tutta la provincia, disperde i suoi fratelli - sette a Parigi, quattro a Madrid - e fa ritorno lui stesso a Roma insieme a un solo compagno. Ha fatto ritorno per fondarvi quasi subito il convento di San Sisto. Ha già radunato una trentina di fratelli, ma fedele alla sua massima che «il grano marcisce quando lo si stipa e fruttifica quando lo si semina», manda una parte della sua compagnia a Bologna la cui Università è rivale di quella di Parigi. Poi corre in Francia per apprendervi della disastrosa morte di Simon de Montfort e della rovina della crociata. Le fondazioni di Prouille e Tolosa sono in pericolo: bella occasione per prelevare due fratelli dagli effettivi ridotti e, dato che Lione è la capitale dell’eresia valdese, è proprio lì che li manda. D’altronde non ha il tempo di seguirli poiché egli è già in Spagna dove fonda, a Segovia, il convento di Santa Cruz. Passa di nuovo i Pirenei, si ferma a Prouille giusto il tempo per donare a ciascuna delle sue care giovani una bella posata d’ebano che ha gentilmente portato nella sua bisaccia in loro onore, e poi parte subito per Parigi prendendo con sé al volo il fratello Bertrand de Garrigue. Lì trova trenta religiosi. Ce n’è abbastanza per fondare pietra su pietra le case di Reims, Metz, Orléans, Poitiers, Limoges. Riparte cinque settimane più tardi diretto in Italia dove arriverà, naturalmente, sempre a piedi. Del resto ha una gran fretta di finire, e si accusa ancora di essere troppo lento. Ha lasciato crescere la barba e finalmente si accinge a raggiungere, con gran ritardo, il leggendario paese dei Cumani - senza dubbio come espiazione della sua pigrizia e per la remissione dei suoi peccati.
Nel settembre 1219 si trova a Bologna dove - riporta la cronaca - la predicazione di Reginaldo (uno dei suoi figli) è scoppiata come un fulmine. La comunità di Saint Nicolas è nel pieno della prosperità: ci si attende meraviglie dal discepolo preferito del maestro. Ragione sufficiente per mandarlo a Parigi. «E’ cosa davvero ammirevole, scrive il beato Giordano di Sassonia, vedere il servo di Dio disperdere i suoi fratelli con tanta tranquillità!».
L’apostolo incendiario ha contro di sé, un po’ ovunque, i decani, i cancellieri, gli arcidiaconi, i vescovi. Ma ha dalla sua il Papa.

Intraprende la riforma delle monache di clausura romane, fonda la comunità di San Sisto con l’aiuto di alcune giovani di Prouille richiamate in gran fretta. Le lettere e le bolle pontificie si susseguono ininterrottamente infrangendo tutte le resistenze a Parigi, Prouille, Tolosa, Madrid, persino a Roma. Nel febbraio 1220 il vescovo di Cracovia porta a Roma quattro dei suoi preti. Domenico ne fa quattro predicatori e due mesi dopo li lancia all’assalto della Polonia. Essi si spingono molto lontano verso Est, dalla parte dei Carpazi, quasi alla frontiera del paese cumano. Ah! Il beato Padre conta di raggiungerli al più presto! Ma prima vuole tenere il primo capitolo generale dell’ordine...non gli sono rimasti che undici mesi da vivere.
Con lo sguardo dell’anima può contare i suoi monasteri sparsi, già oggi potenti e domani sicuramente rivali delle più antiche e ricche abbazie. Tutti questi priori, alcuni di schiatta illustre, educati nelle più rinomate università del mondo, celebri oratori, teologi così sicuri che - per forza di cose e seguendo l’esempio del fondatore - li si vede ovunque non soltanto predicare contro l’eresia, ma addirittura cercarne i promotori, convincerli e consegnarli al braccio secolare (i figli pieni di dolcezza dei terroristi sanculotti riunirono infatti nel medesimo dignitoso odio i Predicatori e l’Inquisizione), ricevono a centinaia pii legati e donazioni. Dove non arriverà ormai la potenza del nuovo ordine?... E’ questo il momento in cui Domenico sceglie di abbandonare i beni già acquisiti, proprietà o decime, e di far concludere dal suo primo capitolo generale una seconda e più solenne alleanza, questa volta indissolubile, con la Santissima Povertà. Straccia solennemente e simbolicamente le carte davanti ai padri capitolari riuniti. E siccome queste povere genti venute da tanto lontano, al prezzo di grandi fatiche e privazioni, potevano essere tentate di cedere a qualche debolezza sulla via del ritorno, egli decide di inserire espressamente nella regola il divieto di andare a cavallo e di caricarsi di averi. Poi fa vendere cavalli e muli all’incanto.
Lascia Roma nel maggio del 1221 e se ne allontana per sempre. Due volte la febbre lo atterra sorprendendolo senza però potergli ancora strappare l’ultimo segreto, l’umile morte che Dio prepara dentro di lui e che già brilla dolcemente nel suo cuore come la fedele piccola lampada del Santuario prima dell’aprirsi del mattino. Dopo un supremo incontro a Venezia con il cardinale Ugolino, suo amico, torna al convento di Bologna con un ultimo volo delle sue grandi instancabili ali. Vi arriva morente.

Le nostre agonie portano il segno del rimorso: sono testimonianza contro il passato, ne rompono i legami e, prevenendo l’ineffabile giudizio, denunciano a pieno la nostra vergogna. Ah! Che il lenzuolo ricopra immediatamente il corpo umiliato, vuoto, dove risplendono le sole unzioni! Ma la vita augusta del santo si getta nell’agonia come in un gorgo di luce e soavità.

Un grande sacco viene disteso in terra e lui vi si corica. Ecco l’uomo di cui alcuni forsennati vorranno fare un carnefice e i meno fanatici una sorta di ministro della polizia dell’anima. Se ora li vede con quello sguardo che già si immerge nell’avvenire, il monaco bianco e nero può ben levare su di essi la sua grande e dolce mano e dissiparli come fumo! Lui, davanti al quale tutto si apre, non comprende il loro odio, poiché giustamente il loro odio è nulla. Essi invocano la scienza contro di lui, ed egli l’ha amata infinitamente più di chiunque altro tra di loro. La luce, ed egli sente che trabocca da lui. L’unico scrupolo, se mai ci fosse spazio per uno scrupolo in un’anima così pulita, sarebbe piuttosto quello di aver troppo amato, troppo servito la prima rinascita intellettuale fino a sembrare che egli sacrificasse allo studio questo stesso ufficio corale che i monaci reciteranno ormai con gioiosa rapidità, così diversa dalla tradizione benedettina. Il secolo era spaventato per una fonte di luce perduta e d’un tratto ritrovata sotto le rovine del mondo antico, ed egli, insieme a due ammirevoli papi, lo ha raddrizzato, l’ha mantenuto fremente nel fascio di luce che suo figlio Tommaso volgerà con decisione verso la croce.
Attorno al moribondo che si svuota del suo sangue mistico, della sua carità divina, in un’effusione di lacrime austere, l’ordine ronza come un alveare con le sue centinaia di monaci che domani saranno migliaia, le sue cinque provincie di Francia, Spagna, Lombardia, Roma, Provenza e i suoi cinquanta monasteri. La cristianità occidentale è salva: non solamente dagli oscuri fanatici il cui barbaro zelo condannava col matrimonio la vita stessa, ma dall’Islam, dallo scisma greco e dai furori di Federico II.
Sì, così com’è, quest’uomo coricato è uno dei più grandi della storia; tuttavia entra nella morte così come ha dominato la vita, con il medesimo slancio senza ritorno, con lo sguardo da bambino. A grandi passi regolari, la sua povera bisaccia sulle spalle, le tasche vuote, ha percorso più di un regno e ora che è disteso ha lasciato la sua bisaccia ma ha tenuto le sue grosse scarpe: pronto, se Dio dovesse resuscitarlo.
Non lascia nulla dietro di sé. I suoi figli bruceranno o disperderanno le sue lettere, i libri annotati di suo pugno, il suo bastone da viaggio, gli abiti, la catena di ferro con la quale si flagellava ogni notte emettendo il potente rantolo la cui eco si ripercuoteva fino all’ultima cella dei fratelli che lo ascoltavano terrorizzati. Allora, si avvolgeva tutto sanguinante nella sua cappa e si stendeva su una panca o su un tavolo...

Questa volta è disteso per sempre. Né il ricordo degli immensi lavori o delle durissime mortificazioni, delle predicazioni, dei miracoli distoglie un istante il suo cuore. Egli teme solo che dopo la sua morte i suoi figli si lascino trasportare verso una vita troppo comoda. Ma quando gli dicono che i monaci ampliano il monastero e alzano di un piano le celle, si scioglie in lacrime e poi scoppia in imprecazioni terribili invocando la maledizione di Dio su chiunque introduca l’uso del possesso temporale nel suo ordine.

L’hanno trasportato su una collina dove l’aria è pura, ma egli teme che il suo corpo venga lasciato lì. «A Dio non piaccia che io sia seppellito altro che sotto i vostri piedi».
Lo riportano al convento di Saint Nicolas su una lettiga. Tutto sudato lo distendono in terra. Etienne d’Espagne lo asciuga con uno straccio di tela. Ventura di Cremona accoglie la sua confessione: quel piccolo soffio che il fratello sente lambirgli il viso è tutto ciò che resta della grande voce che sollevava Roma, la stessa che nel ritiro della notte chiamò Dio tante volte con un grido lacerante, un ruggito per gli infedeli, gli eretici, gli ebrei; quella voce che nello stupendo delirio di una carità universale arrivava fino a pretendere di forzare la giustizia stessa del Padre pregando per i dannati - «ad in inferno damnatos extendebat caritatem suam.»

I fratelli sono riuniti per raccogliere, se possibile, qualcosa della parola che si sta facendo sempre più flebile. Domenico fa un segno con la mano e questi si avvicinano. Dall’umile gesto del santo essi riconoscono che egli deve confessare pubblicamente qualcosa che gli pesa sul cuore. Colui che apparve in sogno al Papa Innocenzo III portando la Chiesa del Laterano sulle spalle, consigliere di pontefici e principi, arbitro di tanti destini, maestro e legislatore per tante coscienze, scopre forse con sgomento, in questo istante solenne, il carattere astratto, quasi terribile, della sua vocazione dottrinale? Quale scrupolo lo tormenta?
Alza sui fratelli i suoi occhi azzurri, il suo sguardo intatto. «Mi accuso - dice il Maestro dei Predicatori - di aver sempre preferito la conversazione delle giovani donne a quella dei vecchi».

Santa Caterina ci riferisce che un giorno Nostro Signore le disse: «L’ordine di mio figlio Domenico è un delizioso giardino, immenso, pieno di gioie e di profumi».

(Traduzione dal francese di Gabriella Garzillo)




.