una vita donata,
per Dio e l'Algeria
"Se mi capitasse un giorno - che potrebbe essere oggi - di essere vittima del terrorismo che sembra voler ora inglobare tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, ricordassero che la mia vita era donata a tutti ed a questo paese". alcuni "pieds-noirs", spesso anziani, rimasti sul posto, e a cui Pierre sapeva parlare come nessun altro (penso ai pellegrinaggi di primavera a Notre-Dame de Santa Cruz, un santuario mariano sulle alture d'Orano); religiosi e religiose, spesso arrivati all'indomani dell'Indipendenza con la forte motivazione di partecipare alla costruzione della nuova Algeria, in settori diversi come l'insegnamento, l'impegno sociale, la formazione femminile; studenti cristiani dall'Africa Nera, venuti in Algeria per proseguire i loro studi universitari; poi, a seconda dei contratti industriali, gruppi di operai stranieri, filippini, egiziani, brasiliani, che lavoravano nel complesso d'idrocarburi d'Arzew, sul cantiere di una diga… Tale era il popolo cristiano di cui Pierre era il vescovo, il legame di comunione, l'animatore. Gregge piccolo, certo, ma allegro e in fin dei conti al suo giusto posto nell'Algeria algerina, con la quale i rapporti erano chiari e cordiali. Quanti sindaci di piccole comunità, per esempio, tentavano di convincere il vescovo a mandare una comunità di religiose per l'animazione femminile. Pierre andava dall'uno all'altro, intrepido e con visibile gioia. Sì, era al suo giusto posto. fr. Jean-Jacques Pérennès, OP
fr. Christian de Chergé, priore di Tibhirine
Sono passati tre anni dalla morte di Pierre Claverie, anni che hanno permesso a quelli che lo hanno conosciuto e amato di meditare su ciò che egli ha dato loro. Ma l'eco suscitata dalla sua scomparsa e dai suoi scritti ha mostrato fino a quale punto il messaggio di Pierre Claverie parli a molte più persone di quante l'hanno conosciuto, a tutti quelli e quelle che hanno percepito che la sua vita, il suo pensiero, e il modo in cui ha vissuto la sua morte sono un messaggio essenziale per il nostro tempo.
Le presenti pagine vorrebbero offrire una prima rilettura di questa eccezionale vita e presentare alcuni dei maggiori aspetti del suo pensiero, facendo il più possibile riferimento a citazioni di scritti o lettere che egli ha lasciato (la maggior parte delle citazioni sono tratte da Lettres et messaqes d'Algérie, Karthala, 1996; e da "La vie spirituelle", n.721, ott. 97). Il piano adottato seguirà le grandi tappe della sua vita.
Pierre Claverie, figlio dell'Algeria coloniale
Pierre Claverie è un figlio del Mediterraneo. Nacque a Bab el Oued nel maggio del 1938, in una famiglia di "pieds?noirs" stabilitasi in Algeria da parecchie generazioni. I suoi vivevano ad Algeri ed avevano due figli: Pierre, nato prima della guerra, e Anne?Marie, sua sorella, nata dopo la guerra. Costituivano una famiglia molto unita, felice, ad immagine dell'amore che i genitori avevano l'uno per l'altro, e che Pierre ricordò così il giorno dell'ordinazione episcopale: "Sono testimone di un amore di più di quarant'anni che unisce due esseri, i miei genitori, così diversi e così vicini, appoggiati l'uno all'altra, crescendo insieme, così uniti, così accoglienti. Siamo cresciuti nella fiducia di quest'amore che vigila con cura e perseveranza sulla felicità dell'altro, siamo cresciuti in questa straordinaria libertà che apriva sempre davanti a noi le porte della vita, ci spingeva ad entrarci con pazienza, con perseveranza, e ci accompagnava con una presenza affettuosa, esigente. Sì, l'amore esiste, è possibile, e io ho avuto la grazia di incontrarlo. E' la mia forza crederci adesso". Credo che il clima familiare evocato abbia fatto molto per dare a Pierre la natura felice, allegra, che si evidenziava nella sua voce, nel suo sorriso, nel suo sguardo luminoso. Egli ne trarrà la capacità di guardare la vita con fiducia. Pierre manterrà dei legami molto stretti con i suoi, ritiratisi a Toulon dal 1962. Scriveva ogni domenica ai genitori una lettera intitolata "Buongiorno famiglia !", nella quale descriveva in dettaglio l'atmosfera della sua settimana. Suo padre ha conservato tutte queste lettere, dal 1958 al 1996, chiudendole ogni fine anno in scatole di biscotti, così che disponiamo di oltre 3.000 lettere manoscritte di Pierre, che raccontano, quasi giorno per giorno, lo svolgersi della sua settimana, in tono a volte intimo, commovente o divertente. Durante i suoi viaggi, negli ultimi anni, Pierre si fermava a Toulon, soprattutto dopo la morte della madre, per fare un po' di compagnia e lettura a suo padre diventato cieco. Questi morì nell'aprile del 1996, quattro mesi prima dell'assassinio del figlio, mentre si aspettava con angoscia qualche notizia sulla sorte dei monaci di Tibhirine. Eccezione fatta per questi ultimi mesi, Pierre Claverie era stato sempre una persona allegra, ottimista, stupendamente predisposta alle relazioni umane. La parola "giubilare" era tra le sue preferite. Le sue origini familiari e mediterranee c'entravano, credo, molto.
Secondo tratto notevole riguardo alla giovinezza di Pierre: era veramente figlio dell'Algeria coloniale, con tutto quanto ciò può significare. Andò al liceo ad Algeri, che lasciò nel 1956?1957 per cominciare studi superiori di scienze a Grenoble, ma, durante tutta l'infanzia, fu immerso nel clima culturale dei "pieds?noirs" d'Algeria. Ecco cosa scrive al riguardo: "Ho vissuto la mia infanzia ad Algeri, in un quartiere popolare di questa città mediterranea cosmopolita. A differenza di altri europei nati in campagna o in città piccole, non ebbi mai amici arabi; né alla scuola del quartiere, dove essi erano totalmente assenti, né al liceo, dove erano in pochi e la guerra d'Algeria cominciava a creare un clima esplosivo. Non eravamo razzisti, solo indifferenti, ignoravano la maggior parte degli abitanti di questo paese. Essi facevano parte del paesaggio delle nostre gite fuori, della scenografia dei nostri incontri e delle nostre vite. Non furono mai compagni" ("La vie spirituelle", p.723). In un altro testo aggiunge: "Ho vissuto la mia infanzia nella 'bolla coloniale'; non che non ci fossero relazioni tra i due mondi, anzi, ma, nel mio ambiente sociale, vissi in una bolla, ignorando l'altro, incontrando l'altro solo come parte del paesaggio o della scenografia che avevamo sistemato per la nostra esistenza collettiva" (Humanité plurielle).
Singolare sincerità, che ci fa apprezzare meglio quanta strada egli dovrà percorrere.
Durante questa giovinezza algerina, Pierre incontra l'Ordine domenicano, tramite il gruppo scout del quale fa parte, la "Saint-Do". Presso gli scout, la sua vivacità gli valse il soprannome di "scoiattolo attento". Rimarrà fedele fino alla morte a questi amici di gioventù, e veniva quasi ogni anno a presiedere grandi incontri di "pieds-noirs" nel sud della Francia. Tutto questo piccolo mondo non era precisamente aperto alla nascita di un'Algeria algerina - non si può dire di meno. Ma Pierre rimase loro fedele, ed era quasi l'unico che poteva parlare loro della nuova Algeria, del dialogo islamico-cristiano, del senso che c'è, per un cristiano, nel restare in questo paese della loro infanzia. Del resto, un mese prima di morire, proprio agli ex della Saint-Do, Pierre predicò, vicino a Montpellier, la sua ammirevole omelia sul senso del dare la propria vita.
In quest'ambiente cattolico assai tradizionale, Pierre percepisce il richiamo a un dono più profondo di sé, attraverso una vita religiosa o sacerdotale. Ne parla con suo padre, il quale gli consiglia di aspettare un paio d'anni prima di prendere una decisione e lo manda a Grenoble, affinché "viva la sua vita" e cominci gli studi di matematica-fisica-chimica. E' quanto fece Pierre nel 1956-1957. Bisogna dire che c'era la guerra d'Algeria e che l'ambiente da cui proveniva non era preparato a ciò che si annunciava: l'indipendenza dell'Algeria. Pierre parlerà in seguito del suo progetto di vita religiosa come di un modo di "darsi fino in fondo". Si può indovinare quanta maturazione questo significava per lui, anzi, quanta scissione. Scriverà più tardi: "Forse perché ignoravo l'altro o negavo la sua esistenza, un giorno mi apparve improvvisamente davanti. Ha fatto esplodere il mio universo chiuso, che si è decomposto nella violenza - ma poteva andare diversamente? - ed ha affermato la propria esistenza. L'emergenza dell'altro, il riconoscimento dell'altro, l'aggiustamento all'altro sono diventati, per me, ossessioni. Sta probabilmente qui l'origine della mia vocazione religiosa. Mi sono chiesto perché, durante tutta la mia infanzia, essendo cristiano - non più di certi altri -, frequentando le chiese - come certi altri -, ascoltando dei discorsi sull'amore del prossimo, mai ho sentito dire che l'Arabo fosse il mio prossimo. Forse me l'avevano detto, ma non l'avevo sentito" (Humanité plurielle).
Siamo dunque nel 1956-1957. Pierre lascia la sua Algeria natale per iniziare gli studi universitari in Francia. E' da lì che si apre una seconda dimensione che segnerà la sua esistenza: la vita domenicana.
"Dare la propria vita fino in fondo": la scelta della vita domenicana (1958-1965)
Una lettera ai genitori, del 1958, ci parla della sua decisione: Pierre ha passato un anno a Grenoble, ha osservato intorno a sé ciò che motiva e fa vivere i suoi amici studenti: un progetto di carriera, un desiderio di successo materiale, la ricerca di uno status sociale. Tutto ciò, dice lui, non è capace di riempire la sua vita. E comunica ai suoi la sua decisione di entrare dopo l'estate al noviziato dei Domenicani. "Se ho scelto il sacerdozio, scrive, è per darmi fino in fondo a qualcosa". Anne-Marie, la sorella, nota che l'espressione "fino in fondo" tornerà molto spesso nelle circa 3.000 lettere che scrisse alla famiglia tra il 1957 e il 1996. Senza entusiasmo per questa scelta, la sua famiglia accoglie la decisione e Pierre scrive loro: "Siete i migliori genitori che si possano avere, questo è il parere di tutti, ed è per questo che date loro un prete". Vent'anni dopo, assisteranno con l'orgoglio di genitori anziani alla sua ordinazione episcopale nella cattedrale d'Algeri.
Quindi nel dicembre del 1958, Pierre entra nel noviziato di Lille, dove lo vediamo insieme allegro e serio. Le sue lettere ci raccontano le mille e una storielle del noviziato, dove a volte lo chiamano "sole in conserva". Il che non gli impedisce di immergersi con serietà nell'avventura spirituale del noviziato, in particolar modo attraverso la lettura della Bibbia e la scoperta dell'orazione. A questo proposito, scrive la seguente pagina, sorprendente per un giovane di 21 anni: "Stamattina, durante l'orazione, ho finalmente scoperto la novità di un Dio Trinità, che mi sembrava finora soprattutto un'arguzia di teologo. Credo che sia l'essenziale del cristianesimo - oltre alla vita di Gesù, il suo insegnamento, la sua Chiesa -, ci rivela Dio non solo come un Dio Padre, e ci dà la figura di ciò che siamo chiamati ad essere: partecipi di una corrente d'amore che unisce il Padre al Figlio oggetto del suo amore - tale inserzione viene realizzata fin da questo mondo, sotto forma ancora nascosta, dalla comunione al corpo di Cristo. Di conseguenza, il Figlio che volle riunirci per riportarci al Padre ci ha dato questo mezzo sensibile, da una parte in segno della nostra vita futura, d'altra parte come mezzo per riuscirci" (lettera del 24 maggio 1954).
Questa citazione un po' lunga ci fa capire quale intensa vita spirituale fosse la sua: essa sarà l'elemento strutturante della sua vita futura. Pierre era veramente un uomo di preghiera. Ad Orano, qualunque fosse l'ora in cui, la sera prima, era tornato dai suoi giri, lo si poteva trovare ogni mattina in preghiera, nella cappella, in una concentrazione straordinaria. Quasi ricostruisse là le sue energie interiori, come testimonierà il suo vicario generale. Proprio alla porta di questa cappella decorata d'artigianato algerino, crollerà, lacerato dalla bomba che gli costerà la vita. Dietro l'altare, c'è questa iscrizione sullo sfondo del mosaico di Tipasa: "In Christo Deo ? pax et concordia sint convivio nostro". Pierre è morto nello stesso luogo dove attingeva la sua forza di vivere, sul luogo della sua preghiera.
I suoi studi di filosofia e teologia si svolgono senza problemi. Pierre viene ordinato sacerdote il 4 luglio 1965, e già progetta di tornare in Algeria. C'era andato per un breve soggiorno, nel 1962, durante il servizio militare. Tempo dopo, reinterpretando le scelte della propria vita, vede in quella di tornare in Algeria l'esplicito desiderio di una scoperta dell'altro, quell'altro che aveva ignorato durante la sua infanzia coloniale: "L'emergenza dell'altro, il riconoscimento dell'altro, l'aggiustamento all'altro sono diventati per me ossessioni... Ho dunque chiesto, dopo l'Indipendenza, di poter tornare in Algeria, per scoprire questo mondo nel quale ero nato, ma che avevo ignorato. Ed è qui che è iniziata la mia vera avventura personale - una rinascita. Scoprire l'altro, vivere insieme con l'altro, ascoltare l'altro, lasciarsi anche modellare dall'altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori, significa concepire un'umanità plurale, non esclusiva"
Il ritorno in Algeria non sarà, di fatto, automatico, perché i suoi confratelli, colpiti dalla sua maturità umana e spirituale, cercheranno di tenerlo nel Saulchoir, come maestro degli studenti. Ne parlerà a lungo con i genitori, con tono scherzoso, in una lettera scritta in "patahouète", argot "pied-noir" popolare. Ma Pierre andrà in Algeria, dove arriverà nel 1965. In seguito, tenteranno ancora di nominarlo al Cairo, oppure Provinciale dei domenicani di Parigi, ma sarà l'Algeria ad avere la fortuna di tenerlo.
Imparare l'altro: gli anni ad Algeri (1967-1981)
Ad Algeri, Pierre Claverie raggiunge la piccola comunità domenicana di tre o quattro Padri, costituitasi all'indomani dell'Indipendenza. Alcuni Padri, molto (troppo) vicini all'Algeria francese, sono tornati in Francia, e la comunità lascia quindi il grande convento chemin Laperlier per abitare un appartamento nel centro della città. Pierre si getta subito nello studio della lingua araba, si iscrive ad un centro linguistico diretto da religiose libanesi, e ne sarà uno dei migliori allievi. Impara la lingua, ma anche l'islamologia e la cultura araba. Sono anni d'intenso lavoro, spesso in camera, interrotto solo dai compiti domestici cui contribuisce come tutti.
Finita questa formazione, andrà a vivere per un anno a Constantine, con Jean Scotto, grande figura della Chiesa d'Algeria, diventato vescovo di Constantine e Hippone, dopo essere stato parroco ad Algeri, durante le ore più dure dell'OAS, ed aver tentato, spesso invano, di aprire gli occhi dei cristiani della capitale sulla nuova Algeria nascente. Jean Scotto è una delle persone che, con il cardinale Duval, hanno preparato la Chiesa a vivere in Algeria dopo l'Indipendenza. Pierre quindi, lavora un anno insieme a lui e si forma sul terreno alla vita della Chiesa nell'Algeria indipendente.
Ben presto, gli giungono le responsabilità; tornato ad Algeri, Pierre è nominato direttore del centro diocesano delle Glycines, in Algeri, nel 1972, quando Padre Henri Teissier diventa vescovo d'Orano. Il centro delle Glycines è come il cuore della diocesi d'Algeri: creato dopo l'Indipendenza, intorno alla biblioteca e all'équipe che anima l'antico Seminario Maggiore, questo centro mira ad aiutare la Chiesa a compiere la sua missione nella nuova Algeria. Dispone, a questo scopo, di vari mezzi: una scuola linguistica, dove vengono insegnati l'arabo dialettale e l'arabo classico; una biblioteca ben fornita riguardo a tutto quanto concerne il Maghreb e il mondo arabo; sessioni d'islamologia; una rassegna stampa mensile. Il tutto è gestito da un'équipe di una decina di religiosi e religiose, di varie congregazioni, della quale Pierre diventa presto animatore. Un animatore efficace, ma anche molto cordiale, la cui porta era sempre aperta, invitando ad entrare senza appuntamento. Da vescovo, conserverà quest'abitudine. Nel corso degli anni, decine di giovani collaboratori laici, di preti, di religiose, hanno ricevuto qui, alle Glycines, la prima iniziazione al mondo algerino. Quando l'arabizzazione dell'educazione si generalizzò negli anni di Boumédienne, il centro delle Glycines aprirà perfino le sue porte ai responsabili algerini desiderosi di perfezionarsi in lingua araba. Pierre si trovava là pienamente a suo agio: aiutando due mondi a capirsi, ad apprezzarsi, a rispettarsi. Diciamo che questo periodo corrisponde anche agli anni piuttosto euforici della post?indipendenza: c'era petrolio in abbondanza, l'islamismo radicale rimaneva ancora molto marginale, si riconosceva alla Chiesa, a parte qualche eccezione, un certo, modesto, ruolo nella società algerina. Pierre rimarrà alle Glycines fino alla sua nomina come vescovo d'Orano nel 1981. Durante questo periodo, Pierre sarà anche presidente di "Rencontre et Développement" ("Incontro e sviluppo"), un'associazione creata dopo l'Indipendenza dalla Chiesa Riformata, allo scopo di fornire ai cristiani d'Algeria qualche possibilità d'azione sociale o umanitaria, presso i profughi Sahraui, i movimenti di liberazione dell'Africa australe, infine presso i profughi senza documenti dell'Africa sub-sahariana, bloccati in Algeria nel loro esodo verso l'Europa dei loro sogni. Immaginate che cocktail questo comportasse: un corso d'arabo o d'islamologia, una riunione con la delegazione del MPLA o del FRELIMO, la preparazione di una conferenza teologica. Furono veramente anni d'intenso lavoro (mai una vacanza!), durante i quali Pierre elaborò e affinò in un certo modo i temi che saranno al centro del suo pensiero e del suo insegnamento in tutti gli anni successivi. Lo si può capire rileggendo i suoi appunti di lavoro, molto abbondanti, che ci restano da questo periodo algerino.
Però, per quanto fosse occupato, impiegò pure questi anni a coltivare l'amicizia, specialmente con un gran numero di amici algerini, presso i quali amava cenare la sera. Grandi dibattiti sull'evoluzione del paese, sull'Islam e il Cristianesimo, gioia di essere semplicemente insieme. Perfino il dentista, algerino, appassionato di Sant'Agostino, abbandonava in sala d'attesa gli sfortunati clienti quando arrivava Pierre, e conduceva lunghi dibattiti su Sant'Agostino e i donatisti. Il giorno della sua ordinazione episcopale, Pierre parlò così ai numerosi amici algerini presenti alla cerimonia: "Fratelli e amici algerini, anche grazie a voi sono quello che sono. Anche voi mi avete accolto e sostenuto con la vostra amicizia. Vi devo la scoperta dell'Algeria, che era il mio paese, ma dove avevo vissuto da straniero tutta la mia gioventù. Insieme con voi, imparando l'arabo, ho soprattutto imparato a parlare e comprendere il linguaggio del cuore, quello dell'amicizia fraterna attraverso cui comunicavano religioni e razze. Ancora una volta, ho la debolezza di credere che quest'amicizia sia più profonda delle nostre differenze... perché credo che questa amicizia venga da Dio e porti a Dio... Sarà certamente una follia credere ancora alla forza delle mani nude e della semplicità umana, ma al seguito di Gesù Cristo, ho la debolezza di credere che sia una forza" (era il 9 ottobre 1981!). I suoi amici musulmani gli fecero quel giorno nella cattedrale d'Algeri un'ovazione che i testimoni non dimenticheranno facilmente. Fra tutte le cose che Pierre ha costruito in Algeria, queste amicizie sono probabilmente la più solida e commovente. Hanno a che vedere con quell'"amore più forte della morte", di cui parlerà nelle sue ultime omelie. Questi suoi amici musulmani lo piangono quanto gli amici cristiani.
In breve, furono gli anni del progressivo imparare l'altro, dell'aggiustamento all'altro, come dirà dopo. Possiamo dire che furono anni felici per lui, felicissimi.
Vescovo in terra d'Orano, un pastore vicino al suo popolo (1981-1996)
Pierre fu nominato vescovo ad Orano nel 1981, per succedere a Mons. Teissier, diventato vescovo coadiutore d'Algeri. Non è abituale per un religioso domenicano accettare l'episcopato. In generale, occorrono motivi particolari, in questo caso riuniti insieme: era originario del paese, parlava perfettamente arabo, conosceva bene il mondo algerino, era teologo e godeva della stima dei cristiani d'Orano, dove Henri Teissier l'aveva invitato spesso. Durante la cerimonia solenne d'ordinazione episcopale nella cattedrale di Algeri, Pierre trovò parole molto forti per dire quale senso assumeva ai suoi occhi: "La follia di Dio: è questa parola di San Paolo che mi viene in mente considerando la scelta che avete appena fatto, con l'aiuto dello Spirito Santo. Se l'apostolo è, per colui che lo manda, come un altro se stesso; se sono chiamato ad essere in mezzo a voi una pietra di fondamento del Tempio che siete voi; se sono ordinato per portare con sicurezza la Buona Novella dell'amore di Dio attraverso il mondo; se devo proclamare con la mia vita e la mia parola che Gesù è risorto, vivo, presente, e agisce in questo mondo con il suo Spirito, allora, sì, avete appena fatto una follia. La vostra unica scusa è quella di credere che lo Spirito possa manifestare la sua scelta tramite i giudizi umani, sempre infermi, e tramite gli eventi di una storia, sempre ambigua. Quella è la vostra scusa, ed è la mia unica forza. Ho la debolezza di credere che Dio agisca in noi con il suo Spirito, a patto che lo lasciamo fare, che lo accogliamo con cuore libero, senza contrazione e senza tensione, le mani aperte, con fiducia".
Eccolo dunque vescovo per 15 anni, durante i quali la situazione della Chiesa cattolica si indebolisce, partendo da uno stato giudicato all'inizio abbastanza sano. Nel 1981 il gregge era già ridotto a qualche centinaio di cristiani:
Di nuovo, aveva tutto un mondo di amici, tra i quali uno, il più vicino, era il suo "vicario generale musulmano", come diceva: un amico che vedeva ogni giorno e consultava quando voleva essere sicuro della reazione algerina di fronte a questa o quella iniziativa o situazione. E' così che seppe, in tempo, lasciare al Ministero della Cultura l'antica cattedrale e l'episcopato, diventati troppo grandi per i reali bisogni della Chiesa. In cambio, le autorità s'incaricarono del restauro di una chiesa e di un presbiterio, dove il vescovo e i permanenti della diocesi disponevano del necessario per vivere, lavorare e pregare. Si trattava allo stesso tempo di prestare un vero e proprio servizio alla città, e di evitare, piuttosto abilmente, che gruppi religiosi radicali se ne impossessassero, il che avrebbe ferito tanti cristiani. Bisogna anche aggiungere che la zona di Orano godeva di un clima di relazioni umane assai specifico: la colonizzazione era stata più mista che in tutti gli altri posti, con un'importante quota di Spagnoli, e i cambiamenti furono meno brutali. Quindi Pierre sviluppò, come ad Algeri dieci anni prima, numerosi legami d'amicizia, con gente d'ogni condizione, dalla donna delle pulizie ai professori dell'università. Ed è quest'intero mondo che partecipò al funerale di Pierre; una fra queste persone musulmane dichiarò pubblicamente quel giorno: "Pierre era il mio vescovo, il mio amico, mi ha insegnato ad amare l'Islam".
La vita del vescovo si divideva dunque tra frequenti viaggi per l'intero territorio di Orano, a Tlemcen, Sidi Bel Abbès, Mascara, Ghazaouet, villaggi di montagna alla frontiera marocchina, dove feci ancora un ultimo viaggio con Pierre, nella primavera del 1994, in compagnia del Maestro dell'Ordine venuto a visitarlo. Quell'anno, già le strade non erano più sicure. Pierre Claverie considerava il suo ruolo come un ministero di comunione confortando ciascuno, incoraggiando le persone nei momenti difficili, visitando i più isolati, mettendo in contatto i cristiani e la società algerina e, ovviamente, insegnando, perché questo era uno dei maggiori compiti del vescovo, compito al quale si dedicò fino in fondo. E' notevole quanto quest'uomo, capacissimo, si è mantenuto sul proprio terreno, accettando certo qualche conferenza o ritiro fuori dell'Algeria, in particolare nel Medio oriente (Egitto, Libano), o in Francia, laddove l'immigrazione e lo sviluppo dell'Islam spingevano la gente ad invitarlo. Così, nel 1988, fu invitato a tenere una conferenza alla Moschea di Parigi, sul dialogo islamo-cristiano. Veniva anche qualche volta a Roma per le attività del Pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso, di cui era membro. Però, era innanzi tutto un vescovo in Algeria, poco propenso a disperdersi. Gli ultimi anni era diventato molto difficile - ne feci l'esperienza - farlo uscire dal paese: riteneva di dover rimanere al suo posto, soprattutto mentre i suoi preti e le sue religiose erano esposti a rischi. I suoi confratelli domenicani avevano tuttavia il privilegio di poterlo far venire per delle ordinazioni diaconali o sacerdotali, e la sua parola colpiva profondamente per la sua capacità di mettere il Vangelo in relazione con le situazioni della vita e le maggiori sfide del nostro mondo.
Alcuni principali temi del pensiero di Pierre Claverie
Non si tratta in nessun modo di presentare in modo esaustivo il suo pensiero, non solo per limiti di spazio, ma anche perché un importante lavoro rimane da fare per riunire i testi dei suoi numerosi ritiri e conferenze. Oltre ad alcuni articoli disponibili in varie riviste ("Études", "Spiritus", ecc.), si troverà una scelta interessante di testi in Lettres et messages d'Algérie. "La Vie spirituelle" (n. 721, ott. 97) ha riunito altri testi. Siamo anche debitori a Pierre della maggior parte del Livre de la Foi, firmato dai vescovi del Maghreb (Le Cerf, 1996, pp.157). In assenza di un inventario più completo, ancora da elaborare, possiamo accennare a tre temi che sembrano fondamentali nel suo pensiero:
L'aggiustamento all'altro
Si è detto prima quanto la riscoperta dell'altro, attraverso la figura dell'algerino musulmano, fosse stata una tappa essenziale nella vita di Pierre Claverie. Lui, figlio "pied-noir" dell'Algeria coloniale, nell'età della maturità fece una vera e propria riscoperta del proprio paese, dei suoi abitanti, della sua cultura; una specie di viaggio fra quegli "altri" che abitavano la sua stessa casa! "Una vera e propria avventura personale, una rinascita" scriverà. Avventura, infatti, dove si lascia ben presto il romanticismo e l'esotismo delle prime scoperte. Perché l'altro è diverso, e ciò si avverte particolarmente quando si è un ospite, minoritario in casa degli altri, come la Chiesa d'Algeria, ospite "in casa dell'Islam", per citare un'espressione spesso usata da Henri Teissier. Qui, l'altro è innanzitutto musulmano, almeno la maggior parte della popolazione; questa realtà fa avvertire profondamente la differenza nella percezione che ognuno ha dell'altro. Più ci si conosce, più ci si apprezza, e più questa differenza profonda, esistenziale, si fa presente, dolorosa. Come se ci fosse una fondamentale impossibilità dell'incontro vero. Qui, ovviamente, sto parlando solo degli uomini e delle donne, musulmani o cristiani, con intenzioni oneste, pacifiche. Ne consegue che l'incontro con altro è un'avventura; ci vuole tempo, pazienza, molto amore. Per esprimere questo lento lavoro, Pierre ha creato e spesso usato l'espressione "aggiustamento all'altro". Incontrare l'altro, conoscerlo per quello che, in verità, è, potere, a nostra volta, essere riconosciuti da lui, nella verità di quello che si è, senza semplificazioni, senza diminuzioni, senza volontà d'assimilazione - neanche inconscia -: questa sì è un'avventura.
Nel caso dell'Algeria, diversi fattori rendono più complicato questo riconoscimento dell'altro: un passato coloniale con la Francia, con quanto significò di umiliazioni, di morti. Dai soldati di Bugeaud a quelli di Bigeard, quanti uomini torturati, quante donne violentate; centinaia di migliaia di morti nella guerra di Liberazione nazionale. Nella parte "pied-noir", oltre 900.000 persone fuggono, nell'estate 1962, abbandonando le loro terre, le loro case, i loro cimiteri. E, oltre questa triste avventura coloniale, la complessa finzione che ognuno porta riguardo all'altro, spesso inconsciamente: dei cliché la cui memoria si è persa. Per l'uno, l'Occidente si limita alle Crociate e alle avventure coloniali; per l'altro, l'Islam è innanzitutto intolleranza e ferocia: come se dal corsaro Barbarossa a Khomeiny, nulla fosse cambiato.
Tutto questo va affrontato interamente quando si sceglie davvero d'incontrare l'altro, in spirito di verità, senza imposture. Perché "scoprire altro, vivere insieme con l'altro, ascoltare l'altro, lasciarsi anche modellare dall'altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori, significa concepire un'umanità plurale, non esclusiva", scrive Pierre Claverie in uno dei suoi più splendenti, più densi testi, scritto nel gennaio 1996 (Humanité plurielle). Vi analizza, tra l'altro, l'evoluzione dell'Islam nella società algerina, mostrando come la crisi culturale profonda attraversata da questa società possa condurla o a una violenza sempre maggiore, o a un passaggio verso una vera modernità.
Questo dimostra come per Pierre Claverie l'incontro con l'altro sia tutt'altro che una cosa facile: bisogna volerlo; bisogna lavorarci; per lui, è affare di una vita intera. Confesserà perfino di sentirsi qualche volta straniero malgrado tutto. Tanti ostacoli, un attentato razzista, una guerra del Golfo, possono di nuovo compromettere tutto in questo lento e paziente lavoro d'approccio all'altro. "Non abbiamo ancora le parole per il dialogo, scrive; bisogna cominciare col vivere insieme, creare luoghi umani dove si mettano in comune le rispettive eredità culturali che fanno la grandezza di ognuno". Costruire questi luoghi di fraternità, grazie a tanti piccoli gesti quotidiani o ai grandi sogni condivisi: a questo si adoperò insieme a lui la Chiesa d'Algeria.
Le testimonianze sentite dagli amici algerini da quando i cristiani sono anch'essi vittime della violenza hanno mostrato quanto quest'approccio sia stato fecondo. Magnifiche amicizie si sono costruite nel corso degli anni, e si sono incredibilmente rafforzate da quando la violenza colpisce anche i cristiani. Redouane Rahal, amico intimo, scrive a proposito di Pierre Claverie: "Conosceva la religione musulmana dall'interno, senza mai darne una valutazione offensiva o retrograda, come facevano certi orientalisti. Sapeva mettere m evidenza i punti d'incontro. Nei suoi interventi (...) parlava con calore ed amore perché aveva fede nell'uomo". Un'altra amica, Oum el Kheir, esclama il giorno del funerale: "Amici, vi farò una confidenza: mio padre, mio fratello, il mio amico Pierre mi ha insegnato ad amare l'Islam, mi ha insegnato ad essere una musulmana amica dei cristiani d'Algeria. Ho imparato con Pierre che l'amicizia è innanzitutto la fede in Dio, è l'amore degli altri. Essere cristiani o musulmani veniva dopo... Amici, mi hanno colpito nella mia carne (...), sono la figlia musulmana di Pierre Claverie". Bisognerebbe citare mille altre testimonianze o piccoli gesti magnifici di amici o sconosciuti che mostrano ogni giorno ai cristiani d'Algeria che la loro preoccupazione per il rispetto dell'altro è stata compresa e ha creato un clima possibile per l'incontro dell'altro. L'assassinio dei 7 monaci di Tibhirine è stato per la popolazione algerina il colmo della vergogna: come abbiano osato sgozzare questi uomini di Dio?
Dialogo e ricerca della verità
Occorre capire bene come questa passione per il dialogo sia per Pierre Claverie tutt'altro che un'astuzia, un abile modo di schivare le diffidenze altrui, per ammansire, cancellare le differenze, o peggio ancora, riportarli a sé. Il dialogo è, fondamentalmente, un mezzo per ricercare la verità. In Humanité plurielle, c'è questo luminoso brano: "Nessuno possiede la verità, ciascuno la cerca; ci sono certamente delle verità obiettive, che, però ci sorpassano tutti e alle quali si può accedere solo dopo un lungo cammino, ricomponendola poco a poco, spigolando nelle altre culture, negli altri tipi d'umanità, ciò che gli altri hanno pure loro acquistato, cercato nel proprio cammino verso la verità. Io sono credente, credo che ci sia un Dio, ma non ho la presunzione di possedere questo Dio, né tramite Gesù che me lo rivela, né tramite i dogmi della mia fede. Non si possiede la verità e ho bisogno della verità degli altri". Alla luce di queste righe, si capisce meglio la sua concezione confidente ma esigente del dialogo: non si tratta solo di dialogo tra persone e religioni diverse, ma anche del dialogo delle culture e delle civiltà, di urgente attualità tra le due sponde del Mediterraneo dove si è giocata l'esistenza di Pierre Claverie. Si ha solo l'imbarazzo della scelta fra i suoi testi al proposito.
Come non menzionare la grande conferenza pronunciata nel giugno 1988 all'Istituto musulmano della Moschea di Parigi, dove Pierre si spiegò in profondità riguardo alle condizioni di un dialogo inter-religioso, tra cristiani e musulmani. "Nel complesso delle relazioni e degli scambi che hanno segnato l'incontro tra cristiani e musulmani, il dialogo non è sempre stato di regola", dice all'inizio, come riconoscendo subito che il dialogo è difficile per il peso dei conflitti e malintesi del passato. Invece di ignorarlo, sarà sano esserne coscienti. Ma nonostante queste "traumatizzanti esperienze vissute come perpetue aggressioni da e tutte due le parti', dei legami sono stati mantenuti, agevolati da scambi commerciali e relazioni politiche: due mondi hanno imparato ad entrare in contatto, vada come vada, imparando qualche volta a rispettarsi, come Gregorio VII col Principe hammadite Al-Nasir, nel secolo XI. "Personalmente, aggiunge Pierre, mi piace tornare a questi momenti della storia quando uomini che tutto poteva opporre si lasciarono attraversare dalla ricerca di una verità più alta". "Ma, aggiunge ancora, basta guardare la mappa delle tensioni che attraversano i popoli per realizzare che le nostre religioni rimangono fermenti di divisione e di guerra piuttosto che di pace". Poi enumera le tante trappole di un dialogo mal compreso: uno scambio privo di reale reciprocità, per esempio, come accade spesso con le minoranze religiose; un dialogo di sole parole, che minimizza lo spessore esistenziale delle differenze. E Pierre menziona i pochi risultati del dialogo islamo-cristiano svoltosi nei grandi convegni ufficiali di Cordoba (1974) o Tripoli. A questo tipo di incontro, preferiva il dialogo paziente che si allaccia condividendo gioie e prove quotidiane, la vera fiducia che nasce quando ci si confronta insieme alle stesse sfide. Fu una conferenza di grande risonanza.
Qualche anno dopo, in una conferenza a Lille, parlò delle esigenze di un vero dialogo.
- "Occorre prima il rispetto dell'altro, il che non è sempre facile, a causa di "una storia difficile da assumere e di immagini sprezzanti dell'altro, sia dal lato musulmano sia cristiano".
-"poi, la convinzione che nessuno possiede la verità... Essendo cristiano, credo che Gesù manifesti la pienezza della verità di Dio e dell'uomo. Ma non possiedo il mistero di Gesù, che si svela alle nostre coscienze, da generazione in generazione, alla luce degli avvenimenti e dell'approfondimento delle nostre conoscenze... Così; gli altri possono avere una parte nel progressivo svelare la verità che intravediamo e verso la quale tendiamo, mentre porta lo stesso nome di Gesù Cristo, per noi cristiani". Intendiamoci, non si tratta qui di "concordismo" a buon mercato, o di negazione delle differenze; si tratta invece di aprirsi a ciò che nella verità della vita altrui mi può aiutare a crescere nella mia stessa verità. Da questo punto di vista, "l'esistenza nel mondo musulmano aiuta a scoprire e approfondire certi aspetti dell'eredità cristiana che conserviamo a volte in modo abitudinario e teorico".
- terza e quarta condizione per il dialogo: guardare la storia in faccia, e parlarsi in franchezza e verità. Da questo punto di vista, non c'era in Pierre la minima falsità, anche per denunciare i fanatismi ai quali la sua stessa Chiesa si è abbandonata nel passato.
Bisognerebbe dare maggiori dettagli per rendere tutte le sfumature della concezione del dialogo di Pierre Claverie, ma queste due conferenze almeno ne tracciano i grandi tratti. Durante il forum delle comunità cristiane, ad Angers nel 1994, dirà: "La parola-chiave della mia fede è oggi il dialogo, non per tattica o opportunismo, ma perché il dialogo è costruttivo della relazione di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro". Poi concluse con queste magnifiche parole: "Possa l'altro, possano tutti gli altri essere la passione e la ferita tramite le quale Dio potrà irrompere nelle fortezze della nostra presunzione per farà nascere una nuova e fraterna umanità" (Lettres et messages, pp.24-25). La passione e la ferita: si direbbe una frase di Emmanuel Levinas.
Al seguito di Gesù
E' una posizione molto esigente, quella, sovrumana forse, diremo. Però, a questa si sentiva chiamato Pierre Claverie, al seguito di Gesù. C'è in lui uno straordinario radicamento nella storia (nel senso forte) di Gesù, la storia della sua vita, della sua morte, la storia della sua vita donata: "Per proseguire la nostra missione di discepoli di Colui che ha dato la propria vita per noi tutti, non abbiamo solo bisogno di ancorare in Lui la nostra speranza", scrive ne "Le lien", nel luglio 1990. "Non abbiamo altra ricchezza né altra ragione di vivere oltre Lui". Ho detto prima quanto Pierre Claverie fosse un uomo di Dio, un uomo di preghiera. Credo che col passare degli anni, e soprattutto nella tormenta degli ultimi anni, Cristo fu la sua roccia, il suo punto di riferimento fondamentale. Espresso senza sentimentalismo, del resto, con molta discrezione; piuttosto un'appartenenza fondamentale, che nulla può indebolire e dove tutto trova la sua fonte.
"In Gesù e per Lui, si realizza l'aggiustamento dell'uomo con Dio e con i suoi simili; Senza questo aggiustamento, il mondo è spezzato e l'uomo diviso si fa boia per l'uomo. In Gesù si inaugura un mondo riconciliato. Egli viene a riaggiustare quanto era disfatto fisicamente, moralmente, spiritualmente. L'opera dello Spirito in Lui si manifesta quando i sordi sentono, i muti parlano, gli zoppi camminano, gli umiliati si rialzano, gli esclusi sono riconciliati. In ognuno la relazione giusta è ristabilita, nel corpo, nel cuore, con se stesso, con gli altri. Alla fonte c è lo Spirito Santo che fa di ognuno un figlio di Dio" (Omelia a L'Arbresle, 1989). Gesù, qui, è il primo di tutti quelli che Dio chiama a questo lungo e paziente lavoro di riconciliazione, Colui che indica il cammino da seguire.
Questo cammino passa per la Croce, e Pierre ne parlava spesso: "Al seguito di Gesù, siamo inviati per essere servitori della Buona Novella della riconciliazione tra Dio e l'intera umanità Questo ministero non ci pone come intermediari tra Dio e l'intera umanità... ma fa di noi dei mediatori, interamente dedicati a Dio e interamente dedicati al mondo, posti con Gesù laddove si ricongiungono la storia ed il regno di Dio. ora questo luogo e una croce... Se siamo gli interpreti di un Dio d amore e se questo Dio ci chiama ad essere gli apostoli di Gesù, siamo di fatto condotti, insieme a lui, sulla via della croce" (Omelia a Froidmont, 1990). Potete indovinare come la sua insistenza sulla croce nasca da una viva percezione della sfida che il mondo rivolge all'amore, alla possibilità di una riconciliazione. Nulla in comune con qualche malintesa esaltazione della sofferenza. Nel 1995, dirà: "La passione di Gesù diventa la passione dell'apostolo. Passione per Dio e per l'umanità da strappare alle potenze di morte che la spezzano. Passione d'amore per l'opera di Dio che si compie tramite i nostri cuori, le nostre mani e le nostre intelligenze. Passione per il corpo di Cristo che e la Chiesa da costruire nell'Eucaristia e nelle incoerenze e contraddizioni della stona. Quando viene il tempo della miseria, viene anche il tempo della Passione, vissuta con Gesù, nel cuore delle fratture e delle violenze del mondo, senz'altra forza che quella di consegnare la propria vita, fino alla fine, nella fiducia nel Padre di ogni amore, affinché Egli compia la sua opera di risurrezione nella carne crocefissa. In questo momento, l'apostolo di Gesù assume e compie, con la sua perseveranza, il dono gratuito della propria vita" (Omelia a Sant'Ignazio, Parigi).
Un testo del genere evidenzia un ancoraggio radicale alla persona ed all'esperienza di Gesù, ed illustra un commento di Bonhoeffer, nelle Lettres de prison: parole come "redenzione" e "salvezza" hanno perso il loro senso; devono "nascere di nuovo" nella preghiera e l'azione per la giustizia.
Il che porta naturalmente ad evocare l'ultima tappa della vita di Pierre Claverie, quella del dono della propria vita.
Verso un dono totale della propria vita
In un certo modo, furono l'aggravamento della situazione politica del paese e la maggiore fragilità dei cristiani che spinsero Pierre Claverie a rendere sempre più pubbliche le sue convinzioni. All'uscita del suo libro Lettres et messages d'Algéne, confesserà ad un amico: "questo libro è una svolta nella mia vita"' Una svolta nel senso che Pierre moltiplicherà conferenze e schieramenti pubblici, accettando interviste alla radio e alla televisione. "Così rischia troppo", dicevano qualche volta i suoi amici. Pure io lo dicevo! Solo dopo la sua morte ho capito: un po' al modo di Dietrich Bonhoeffer, resistente al nazismo, davanti all'estremo pericolo che inghiottiva l'Algeria e tutte le cose per le quali lui e tanti altri avevano vissuto, Pierre Claverie scelse di parlare, di esprimere il fondo delle sue convinzioni, e, se ce ne fosse stato il bisogno, di "dare la propria vita", come scrisse all'indomani dell'assassinio di fra Henri Vergès e di suor Paule-Hélène (i primi religiosi cristiani assassinati). Non che abbia cercato o desiderato la morte - quest'uomo amava talmente tanto la vita ?, ma l'ha accettato come possibile, logica conseguenza delle sue convinzioni e della follia assassina che divorava il suo paese.
Prima, ci furono alcune questioni forti, quando, ad esempio, gli veniva fatta la domanda (e ciò accadeva molto spesso negli ultimi mesi): "Perché rimanete?" Non ci si riferiva certo a lui! Un vescovo non può partire, ma la Chiesa, i cristiani.. "Perché non aspettare giorni migliori, perché esporsi inutilmente? Perché non conservarsi per il futuro?". A questa domanda, mille volte ripetuta, rispondeva: "Noi siamo qui a causa di questo Messia crocifisso. A causa di niente e di nessun altro! Non abbiamo nessun interesse da salvare, nessuna influenza da mantenere... Non abbiamo nessun potere, ma siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stingendogli la mano, asciugandogli la fronte. A causa di Gesù perché è lui che sta soffrendo qui, in questa violenza che non risparmia nessuno, crocifisso di nuovo nella carne di migliaia d'innocenti. Come Maria, come San Giovanni, noi siamo qui, sotto la croce dove Gesù muore, abbandonato dai suoi, deriso dalla folla. Non è essenziale per un cristiano essere qui, nei luoghi di sofferenza, nei luoghi di scoraggiamento, di abbandono?" (Omelia di Prouilhe, alla "Saint-Do", luglio 1996). E aggiungeva, con grande forza nella voce: "Dove sarebbe la Chiesa di Gesù Cristo, Corpo stesso di Cristo, se non fosse prima qui? Credo che muoia quando non è abbastanza vicina alla croce di Gesù. Per quanto paradossale possa sembrare, e San Paolo lo mostra bene, la forza, la vitalità, la speranza, la fecondità cristiana, la fecondità della Chiesa vengono da là. Da nessun'altra parte, né in nessun altro modo. Tutto, tutto il resto è solo polvere negli occhi, illusione mondana. Si sbaglia, la Chiesa, ed inganna il mondo, quando si pone come una potenza fra le altre, un'organizzazione, pure umanitaria, o come movimento evangelico da gran spettacolo. Può brillare, ma non brucia del fuoco dell'amore di Dio, "forte come la morte" dice il Cantico dei Cantici. Perché qui, si tratta d'amore e di solo amore. Una passione per la quale Gesù ci ha dato gusto e ha disegnato la via". Fu, credo, la sua ultima grande omelia pubblica. Era a Prouilhe, dove San Domenico ebbe a che fare con gli eretici.
La seconda cosa che porterà Pierre Claverie ad esprimersi gli ultimi mesi, in modo qualche volta molto aspro, sono i vigliacchi assassinii di religiose e preti cattolici, la maggior parte dei quali aveva passato tutta la vita al servizio degli algerini. Dopo l'assassinio di suor Odette, uccisa mentre si recava alla preghiera serale, o dei Padri Bianchi di Tizi-Ousou, che avevano passato la vita a servire la Kabylia, Pierre lascia esplodere la sua rabbia in un testo del novembre 1995, intitolato Bravo! dove denuncia la vigliaccheria degli assassini, il cinismo di quelli che li guidano o li ordinano da Londra, da Bonn o da Washington (i leaders islamici in esilio), l'ipocrisia di tutti quelli che, da lontano, danno buoni consigli (dialogo con il FIS) a chi è rimasto sul posto mettendo la propria vita in pericolo (dibattito con Sant'Egidio o gli orientalisti). Pierre Claverie conosceva fin troppo bene la complessità delle situazioni e il prezzo di una presenza cristiana in tale situazione: "Che abominevole vigliaccheria da parte di questi uccisori dell'ombra! Che prendano me come bersaglio, questo lo capirei.. essendo vescovo, forse rappresento agli occhi di certe persone un'istituzione aborrita o pericolosa. Sono un responsabile, ho sempre pubblicamente difeso quanto mi pareva giusto, vero, che favoriva la libertà, il rispetto delle persone, specialmente i piccoli e in posizione minoritaria. Ho militato per il dialogo e l'amicizia tra genti, culture, religioni; Tutto ciò merita la morte e sono pronto ad assumerne il rischio.. Ma attaccare fra Henri o suor Paule-Hélène, io non capisco" (testo del 1994, "La vie spirituelle", p.765). Ho riflettuto molto su queste ultime parole e sul clima, molto particolare, del mio ultimo incontro con Pierre, qualche mese prima dalla sua morte. In nessun modo l'ha cercata: sono assolutamente certo su questo punto; ma sono anche convinto che a un certo punto ha percepito che ciò sarebbe potuto accadere come una probabile conseguenza delle sue convinzioni, nella tormenta assassina che portava via l'Algeria. Un po' al modo di Gesù, del quale i Vangeli ci dicono avesse "il viso risolutamente rivolto verso Gerusalemme", Pierre ha scelto di non sviare dalla propria missione, a dispetto dei consigli di prudenza dell'uno o l'altro. Ha rifiutato di scappare, non senza angoscia.
Questa scelta, che appartiene al martirio, era conforme al senso che aveva dato alla sua vita, nelle circostanze attraversate dall'Algeria. Tante volte, parlerà delle linee di frattura: "Gesù è morto lacerato tra cielo e terra, le braccia distese per radunare i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e li drizza gli uni contro gli altri e contro Dio stesso. Si è posto sulle linee di frattura nate da questo peccato. Squilibri e rotture nei corpi, i cuori, gli spiriti, le relazioni umane e sociali hanno trovato in Lui guarigione e riconciliazione perché li prendeva con se stesso. Colloca i suoi discepoli su queste stesse linee di frattura con la stessa missione di guarigione e riconciliazione. La Chiesa compie la sua vocazione e missione quando è presente nelle rotture che crocifiggono l'umanità nella sua carne e nella sua unità. In Algeria, siamo su una di queste linee sismiche che attraversano il mondo.. Islam-Occidente, Nord-Sud, ricchi-poveri. Siamo qui al nostro posto, perché qui si può intravedere la luce della Risurrezione e insieme a lei, la speranza di un rinnovamento del mondo" ("Rester ? Partir?", Le Lien, febbraio 1995).
Al modo di una conclusione
Leggendo testi del genere, non ci si stupisce che l'eco provocata dalla morte di Pierre Claverie e il suo messaggio siano andati ben oltre le frontiere abituali della Chiesa. L'Algeria, dal canto suo, non è uscita dalla violenza assassina, e l'incomprensione tra Occidente e mondo musulmano non smette di crescere Secondo quanto c'è dato a vedere, la riconciliazione tanto aspettata non è vicina. Vorremmo credere, però, che queste vite non siano state donate invano.
in Ricordo di Pierre Claverie, a cura di Enrico Ferri, CUEN, 2000, pp.19-39