14 aprile 2019 - DOMENICA DELLE PALME (ANNO C)

PRIMA LETTURA (Isaia 50,4-7)

 

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare

una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso.

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 21)

 

Rit. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

 

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,

storcono le labbra, scuotono il capo:

«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,

lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

 

Un branco di cani mi circonda,

mi accerchia una banda di malfattori;

hanno scavato le mie mani e i miei piedi.

Posso contare tutte le mie ossa.

 

Si dividono le mie vesti,

sulla mia tunica gettano la sorte.

Ma tu, Signore, non stare lontano,

mia forza, vieni presto in mio aiuto.

 

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,

ti loderò in mezzo all’assemblea.

Lodate il Signore, voi suoi fedeli,

gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,

lo tema tutta la discendenza d’Israele.

 

SECONDA LETTURA (Filippesi 2,6-11)

 

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

l’essere come Dio,

ma svuotò se stesso

assumendo una condizione di servo,

diventando simile agli uomini.

Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù

ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra,

e ogni lingua proclami:

«Gesù Cristo è Signore!»,

a gloria di Dio Padre.

 

VANGELO (forma breve: Luca 23,1-49)

 

In quel tempo, tutta l’assemblea si alzò; condussero Gesù da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re». Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.

Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.

Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere.

Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».

Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori.

Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte.

Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo.

 

 

In altre parole…

 

Entriamo nel “tempo di passione”: così viene chiamato liturgicamente il breve periodo che dalla quaresima ci porta alla Pasqua. Ma non ha senso periodizzare la Passione di Cristo, se non cerchiamo di entrare nel suo mistero, “perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Filippesi 3,10).

 

Forse questa chance, prima che scelta religiosa e decisione di fede, fa parte della nostra condizione umana, che viene messa a nudo in colui che amava farsi chiamare Figlio dell’uomo, e che ha avuto davanti a Dio la precisa coscienza della sua sorte, di cui peraltro cercava di rendere consapevoli anche i discepoli: “E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Marco 8,31).

 

Come dire che siamo discepoli di uno la cui sorte era segnata fin dalla nascita e che peraltro è presentato al mondo dagli angeli come il “Salvatore”! Mentre secondo la lettera agli Ebrei, entrando nel mondo, Cristo dice: “Un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5-7).

 

Siamo davanti ad una necessità e ad una via obbligata che viene da lontano e che ci consente di dire che la passione di Cristo è prefigurata e anticipata nel tempo, e se si parla giustamente di semi del Verbo (“semina Verbi”) in vista della incarnazione, forse è lecito parlare anche di “semi della passione” sparsi dentro l’umanità nei secoli: qualcosa che confluisce e si concentra nel Verbo “fatto uomo”, che “patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto”.

 

Sì, possiamo e dobbiamo soppesare e sentire l’indicibile sofferenza fisica e la spietatezza umana che la infliggeva, ma la vera immane tragedia era nell’intreccio dei rapporti e dei conflitti umani che si consumavano in questa insondabile vicenda: era la menzogna, e la sobillazione del sistema, era la violenza e l’accanimento, il disprezzo e la derisione, l’abbandono e la solitudine, il tradimento e la fuga. Guai ridurre tutto ad emotività e a logiche e pratiche sacrificali: è l’intimo eterno dramma di un Padre che aspetta il ritorno in vita del Figlio, di una umanità prodiga. Tutt’altro che fatto interiore di singoli o evento religioso di pochi, ma passione umana di cui Gesù di Nazaret si fa interprete per noi e per tutti! Come mai questo patrimonio umano di salvezza è diventato riserva confessionale per pochi? Come riportarlo ad essere messaggio di speranza di nuova umanità?

 

Non a caso, della sua “obbedienza” al Padre come “servo di Jahvè”, Gesù vuole renderci in tutti i modi coscienti e partecipi. Ricordiamo il rimprovero che fa ai discepoli di Emmaus: “«Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Luca 24,25-27). Poco dopo, mentre questi due discepoli riferiscono agli altri la loro esperienza il Risorto in persona si incarica di fare chiarezza: “«Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto»” (Luca 24,44-49).

 

Vuol dire che tutto è più che mai aperto e che in questa passione di Cristo possiamo riconoscerci anche noi e che essa continua nel tempo, mentre siamo chiamati ad esserne testimoni, perché “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono”. Si tratta solo della omelia domenicale, della lezione di catechismo, di una lectio divina o di esegesi biblica, o si tratta di qualcosa di decisivo per l’umanità e di assolutamente coinvolgente per ogni chiesa? Sappiamo rispettare le proporzioni e la gerarchia interna alla predicazione del vangelo, o tutto è omologato e ridotto ad indottrinamento, ad elevazione spirituale o ad insegnamento morale? Cosa vuol dire e cosa comporta oggi predicare nel suo nome “a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati”? Non saremmo preda di automatismi liturgici e mentali, che ci fanno ripetere formule di verità in sé sconcertanti ma depotenziate? Per quale ragione Gesù dice ai suoi che manderà su di loro quello che il Padre ha promesso e che saranno rivestiti dall’alto, se non proprio per quella che è una impresa quasi impossibile?

 

La prima lettura del profeta Isaia ci aiuta ad entrare ancora di più nel sentimento e nell’atteggiamento di Gesù, chiamato ad indirizzare una parola allo sfiduciato, facendosi egli stesso discepolo del Padre; ma soprattutto ci dice quale deve essere la nostra attenzione interiore di disponibilità e di ascolto per fare altrettanto, e quale non debba essere inoltre la capacità di resistenza, per non tirarsi indietro davanti alle opposizioni e al disprezzo che “la parola della croce” (1Corinzi 1,18) comporta e prevede, in quanto “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Corinzi 1,23).

 

Il noto passo della lettera ai Filippesi riportato nella seconda lettura farebbe pensare al “Verbo fatto croce” come compimento del “Verbo fatto carne”. In effetti queste parole di Paolo non fanno che parafrasare ed esplicitare il proemio del vangelo di Giovanni. C’è da dire che mentre siamo portati a pensare il mistero della incarnazione come evento permanente che si prolunga nel tempo, siamo invece abituati a pensare il mistero della passione come episodio compiuto e transitorio, dimenticando che invece “abbondano le sofferenze di Cristo in noi” (2Corinzi 1,5): quelle sofferenze, dice ancora Paolo, “che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). Manca un nostro contributo di passione perché si compia il disegno di salvezza scritto nella croce di Cristo?

 

 

Perdonate l’incoscienza di proporvi queste parole scritte di getto e senza particolare studio, nel solo intento di aiutarci ad entrare nel “mistero della passione”, per comunicarci il coraggio di stare insieme sotto la croce, augurandoci di poter dire:  “«Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre”. (ABS)

 

 

 

 

 

In lettura e meditazione… 

 

 È comune attesa dell'uomo religioso di ogni tempo che Dio si manifesta e si fa presente in  uomini ed eventi eccezionali, straordinari, tali da incutere sacro timore, riverenza infantile, resa incondizionata alla maestà divina. Non per nulla la cultura della classicità ha collegato strettamente l'esistenza e il riconoscimento degli dèi alle paure degli uomini.  Ma tali concezioni religionistiche trovano una palese smentita   nel Dio di Gesù Cristo, che si è disvelato appieno nel Nazareno, uomo qualunque, disceso ai più bassi e umilianti strati umani come crocifisso e per questo risuscitato a vita nuova e a principio di vita 'spirituale'. Pari smentita è venuta da Paolo, uomo non eccezionale, anzi dimesso, eppure mediatore dell'energia salvifica sprigionata dal vangelo.

Ebbene, chiediamoci con sincerità: quale immagine di Dio è presente e influente in noi e nelle nostre comunità cristiane? Quella, tipica delle religioni, di un Dio che si disvela tra bagliori di luce accecante e dimostrazioni di onnipotenza, lasciando tracce impressionanti e patenti del suo passaggio, testimoniato in superuomini, oppure quella legata alla croce di Cristo, segno non  tanto di sofferenza quanto  di debolezza e impotenza umane?  E le nostre attese sono volte al miracoloso e prodigioso, capace di stupirci e gratificarci come anche di rassicurarci, oppure verso il faticoso riconoscimento degli umili segni della presenza operante di Dio nella quotidianità e praticità dei giorni feriali del vivere umano e della storia terrena?

 

Giuseppe Barbaglio

In 1-2 Corinzi, Queriniana, p. 136


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