14 giugno 2020 - SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (ANNO A)

 

Raffaello Sanzio: Messa di Bolsena (1512)

 

PRIMA LETTURA (Deuteronòmio 8,2-3.14-16)

 

Mosè parlò al popolo dicendo:

«Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.

Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.

Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

 

SALMO RESPONSORIALE (Salm0 147)

Rit. Loda il Signore, Gerusalemme.

 

Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.

Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.

Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.

 

 

SECONDA LETTURA (1Corinzi 10,16-17)

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

 

VANGELO (Giovanni 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla:

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

 

 

In altre  parole…

 

Si pensava e si auspicava che le esperienze di “Chiesa domestica” nel periodo di reclusione portassero a qualcosa di diverso al momento di riapertura delle chiese, che non fosse il semplice distanziarsi e l’aggiuntiva ritualità di mascherine e guanti: e cioè ad un risveglio di coscienza liturgica perché i fedeli vi “prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso” (SC 11).Tutto è rientrato in buon ordine e sembra quasi che il mondo non abbia più bisogno di salvezza da invocare dall’alto! La circostanza è comunque servita a far capire che dovrebbe cambiare il nostro rapporto con l’eucarestia, il sacramento del Corpo e Sangue di Cristo, spesso convenzionale, consuetudinario, devozionale, sacrale, e cioè celebrativo ed esteriore, o se vogliamo “numinoso”.

Nella storia della chiesa risulta infatti che ogni epoca ha espresso una sua modalità di intendere, vivere e celebrare l’eucarestia. E se nel nostro tempo il modo dovrebbe essere quello indicato dal Vaticano II con la costituzione “Sacrosanctum Concilium”, c’è da dire che il cambiamento è avvenuto più in superficie che nella sostanza, per cui c’è tanta strada da fare in questo senso, anche per uscire da uno stato di recettività passiva da spettatori a cui siamo assuefatti da una parte e l’altra dell’altare. Ma fino a quando dominano forme tradizionali di culto o di suggestione collettiva, rimane un cammino ad ostacoli mal sopportato.

Sappiamo bene che il giorno importante della eucarestia è la Cena del Signore il Giovedì santo. Nella storia poi è stata istituita la solennità del “Corpus Domini”, a partire dal “miracolo di Bolsena” (1264), quando l’ostia consacrata avrebbe stillato sangue tra le mani di un sacerdote incredulo, come è illustrato dall’affresco di Raffaello. Ma non sono la stessa cosa, perché mentre il Giovedì santo è la chiesa che nasce, il “Corpus Domini” è piuttosto creazione ed espressione della cristianità, legato cioè a motivazioni storiche particolari, in risposta ad eresie o in riaffermazione di dogmi, mentre in un mondo secolarizzato come il nostro si va avanti per forza d’inerzia, risolvendo tutto in chiave personale. Già le tradizionali processioni non sono più quelle di una vola, ma fino a quando potranno durare in questa forma che definirei “ostensoria?

Sta di fatto che mentre la memoria dell’ultima Cena celebra il mistero della morte e della resurrezione di Gesù – il “mistero della fede” – nel caso del “Corpus Domini” al centro c’è  sempre il “sacramento”, per celebrarne il segno del pane e del vino, e cioè le specie che sono in qualche modo la “materia” del sacramento stesso  come mezzo di grazia. Si vuole sottolineare che, diversamente che negli altri sacramenti, i segni materiali del pane e del vino diventano un tutt’uno con la realtà significata, appunto il Corpo e il Sangue di Cristo realmente presenti in essi. Se ad esempio si prendono gli insuperabili testi di san Tommaso per la liturgia di questa festa, è proprio questa dimensione sacramentale che emerge: basterebbe pensare a quante volte è stato cantato il “Tantum ergo scramentum…”. In qualche modo è come se nel Verbo incarnato noi considerassimo primariamente l’umanità di Cristo, come se fosse questa a contenere la divinità e non il contrario.

In effetti, è questa realtà di presenza reale che è messa in evidenza in questa festa, in qualche modo assolutizzandola come realtà ultima e oggetto di culto a sé, quasi a prescindere dal riferimento al mistero di Cristo morto e risorto e sorvolando sugli effetti che il sacramento deve avere nel dare vita alla chiesa come Corpo di Cristo. Si potrebbe dire che l’eucarestia diventa un sacramento domestico per una certa chiesa e oggetto di devozione ed adorazione più che “mistero della fede”. Rispetto alle origini, quando anche la cena del Signore avveniva in contesti di vita comunitaria globali e non in maniera avulsa, la nostra eucarestia è sempre più concentrata su un unico aspetto, qualcosa da venerare più che da  vivere e condividere.

Di questa diversità bisognerebbe essere coscienti, per evitare feticismi e miracolismi a buon mercato. In questo senso, la festa che celebriamo è un portato e un sintomo di una “cristianità” ancora presente in maniera residuale, ma di fatto in estinzione. Se questa però è l’eucarestia vissuta e celebrata per secoli, certamente non si può fare piazza pulita di sensibilità, di tradizioni, di riti e manifestazioni tradizionali. Basterebbe però tener presente che se in tutti questi anni di Vaticano II - e anche in risposta al “cambiamento d’epoca” – si è tanto parlato di un “modo diverso di essere chiesa”, questo non può avvenire se non in forza e in vista di un modo nuovo di vivere il mistero eucaristico, al di là di ogni improvvisazione e faciloneria, ma anche al di à di perfezionismi e preziosismi liturgici.

Questa lunga premessa per prendere coscienza che un cambiamento reale e convinto deve avvenire in noi e attraverso di noi, e a questo scopo non bastano semplici adattamenti comunicativi esterni, ma è necessaria una più profonda maturazione di fede, perché se lo stesso sacramenta è di suo un mezzo, a maggior ragione è mezzo e non fine la liturgia, che dalla fede dovrebbe nascere e alla fede portare. San Paolo direbbe che si tratta di spogliarsi per rivestirsi di Cristo! Non siamo chiamati a rendere più bello il discorso, ma a renderlo più vero, il che vuol dire metabolizzarlo e testimoniarlo.

E questo avviene, lo sappiamo, prima di tutto attraverso l’ascolto della Parola di Dio, che dovrebbe avere un suo rilievo autonomo e specifico, appunto “mensa della parola”, a cui siamo richiamati anche oggi: al fatto che “l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore”. E allora veniamo a quanto le letture, lasciate momentaneamente in disparte, ci ispirano e ci suggeriscono nella prospettiva di guardare complessivamente al “mistero della fede” e non solo ad una sua modalità, quella sacramentale.

Senza lasciarsi andare ad interpretazioni attualistiche ad effetto, sta di fatto che la memoria dei quaranta anni nel deserto richiamati da Mosè ci riporta alla esperienza della recente quarantena e all’attraversamento del deserto che in qualche modo stiamo vivendo in un clima di smarrimento generale. Abbiamo fatto ricorso ad ogni forma di preghiera e pratica religiosa per scongiurare questo flagello aspettando l’aiuto dall’alto. Da dove però ci viene tutt’altra segnalazione, con un capovolgimento di posizioni: ci viene detto di ricordare che il Signore nostro Dio ci ha condotti “per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata”, e ci ha umiliati e messi alla prova per sapere quello che abbiamo nel cuore, se siamo disposti ad osservare o no i suoi comandi. Cosa che dovremmo fare soprattutto ora, quando sembra che l’ondata di implorazioni sia passata, quasi come una moda!

La prova di Mosè e del suo popolo anticipa quella del Messia Gesù nel deserto, quando appunto ci ricorderà che non di solo pane vive l’uomo e ci ordinerà di non tentare Dio ma di osservare i suoi comandi. In piena continuità, è stata questa la prova della fede per la grande folla che seguiva Gesù al momento della moltiplicazione dei pani, come pure è la prova per chiunque si avvicini a Dio: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione” (Sir 2,1). Ma se c’è da ricordare il cammino fatto nel deserto per uscire dalla condizione di servitù, là dove abbiamo sofferto fame e sete, non c’è da dimenticare che poi il Signore ci ha sorprendentemente nutriti di manna e dissetati con acqua scaturita della roccia durissima, sapendo che “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1Cor 10,4).

Se queste sono prefigurazioni, il vangelo di Giovanni ci presenta il compimento, con la samaritana al pozzo di Giacobbe, con la moltiplicazione dei pani a Tiberiade e con il discorso successivo nella sinagoga di Cafarnao. Non sarebbe male leggere tutto il capitolo 6 di Giovanni. Anche in questo caso, Gesù sale sulla montagna, quasi in parallelo al “Discorso della montagna” di Matteo. Ma qui parla con i fatti, e dopo aver reso grazie, fa distribuire i pani alla moltitudine che lo seguiva, suscitando entusiasmo ma anche discussioni davanti ad un evento così eclatante. Eccolo allora il giorno dopo tornare sull’argomento, invitando tutti a procurarsi “non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo” (v.27).

In progressione, facendo riferimento a Mosè, dichiara che “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Davanti alle mormorazioni della gente, per la quale questo discorso è duro, egli rincara la dose e dice: “Io sono il pane della vita”, precisando che questo pane vivo è disceso dal cielo ed è la “carne per la vita del mondo”, “Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”. È l’equivalente dell’invito che farà poi ai suoi: “prendete e mangiata” e “prendete e bevete”, là dove il Padre ha la vita ed egli vive per il Padre, dicendoci: “così anche colui che mangia di me vivrà per me”. Sono queste le proporzioni insondabili del grande “mistero della fede”, che sarebbe troppo poco ridurre a pura celebrazione o a faccenda domestica per alcuni.

Ecco allora arrivare Paolo ad interpellarci: “Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?”. È ben altro che la semplice “presenza reale”! Di qui deriva il fatto che siamo, “benché molti, un solo corpo”. Qualcosa che allarga gli orizzonti e che ci fa ripetere nella preghiera eucaristica II: “Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”. Non basta dunque coltivare una credenza emozionale diffusa (basterebbe pensare alla usanza delle prime comunioni), se non si prende atto e a cuore di essere questo corpo di Cristo nel mondo, in una incarnazione permanente e come dono di sé al Padre per i fratelli! (ABS)


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