23 giugno 2019 - SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (ANNO C)

Raffaellino del Garbo: Moltiplicazione dei pani e dei pesci (1503), part.

 

 

PRIMA LETTURA (Genesi 14,18-20)

In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole:
«Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,
creatore del cielo e della terra,
e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 109)


Rit. Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore.

 

Oracolo del Signore al mio signore:
«Siedi alla mia destra
finché io ponga i tuoi nemici
a sgabello dei tuoi piedi».

Lo scettro del tuo potere
stende il Signore da Sion:
domina in mezzo ai tuoi nemici!

A te il principato
nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell’aurora,
come rugiada, io ti ho generato.

Il Signore ha giurato e non si pente:
«Tu sei sacerdote per sempre
al modo di Melchìsedek».

 

SECONDA LETTURA (1Corinzi 11,23-26)

 

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».

Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

VANGELO (Luca 9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.

Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.

Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.

Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

 

In altre  parole…

 

Se una modificazione genetica è in atto nella Chiesa di Dio nella storia, essa avviene necessariamente nel suo DNA, e cioè nel “mistero della fede” come viene proclamato il mistero della eucarestia nella celebrazione: il passaggio da una chiesa che fa l’eucarestia e la gestisce, ad una eucarestia che fa la chiesa e da cui farsi ispirare. Ed è quello che in qualche modo stiamo condividendo anche attraverso questa mensa della parola, che dovrebbe introdurci alla mensa del pane spezzato e del vino distribuito: attraverso la nostra risposta di fede, dovremmo essere tra quei “buoni e cattivi” chiamati dai crocicchi delle strade per partecipare al banchetto nuziale del Regno (cfr Mt 22,9). Altro che prassi ed etichetta liturgica preconfezionata, ma insorgenza di fede che libera!

 

Se da una parte viviamo di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, al tempo stesso ci cibiamo della Parola di Dio fatta carne e fatta pane. Non è un gesto rituale in più ma è il momento decisivo e il pieno compimento di tutto il mistero della redenzione. Il punto è se in questo processo di salvezza ci è richiesto un atteggiamento e un ruolo attivo nel dare vita ad una eucarestia in cui essere noi il Corpo di Cristo come realtà, mentre ne celebriamo il sacramento, il segno e lo strumento nel pane e nel vino. Ed è questa totalità che va ritrovata, al di là di accentuazioni di aspetti particolari, che riducono il mistero della nuova ed eterna alleanza a devozione privata, ad adorazione eucaristica, a veglia eucaristica, a processione eucaristica.

 

In realtà, se andiamo all’origine della celebrazione del Corpus Domini, siamo riportati ad un’epoca – XIII secolo -  in cui era accesa la polemica su realismo e simbolismo del sacramento, e per riaffermare e rafforzare la fede nella presenza reale della carne e del sangue di Cristo nell’ostia o nel pane, fu istituita  questa festa liturgica, corredata di atti di culto, che in qualche modo sono arrivati fino a noi  come valorizzazione del sacramento stesso, al di là del suo significato reale profondo e complessivo, che non è la chiesa come apparato gerarchico e giuridico, ma la chiesa come Corpo di Cristo, il vero e totale contenuto della eucarestia come segno e anticipazione del banchetto messianico. Non a caso, per quanto riguarda i sacramenti, si parla di un loro triplice significato: sono memoriale, proclamazione, annuncio di cose  future. È quanto  esprimiamo con la formula “annunciamo la tua morte, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta”. C’è tutta una storia più grande di noi che ci coinvolge e che non vuole essere ridotta alle nostre dimensioni, anche perché il mondo ha bisogno che i cieli della speranza siano aperti.

 

È una storia fatta di “pane quotidiano”, di fame e sete, di condivisione del cibo per la vita, del mangiare e del bere insieme, la linea in cui si è mosso Gesù ed a cui ha voluto dare sbocco dando se stesso come pane e come vino. Il richiamo a Melchisedek, re di Salem, che offre pane e vino, come sacerdote del Dio altissimo e che benedice Abram dopo la sua vittoria su altri re nemici, è estremamente significativo come motivo di alleanza tra popoli e popolo di Dio: dovrebbe far pensare che Gesù stesso è dichiarato sacerdote non secondo l’ordine o le modalità del sacerdozio rituale del tempio e di Aronne, ma secondo l’”ordine di Melchisedek”. Ci dice nulla tutto questo riguardo alla concezione e al ruolo del sacerdozio?

 

Il modo in cui Gesù intende ed esercita il suo sacerdozio ce lo dimostra quando prende a “parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure”. E anche quando dice ai suoi di dare loro stessi da mangiare a quella folla di cui si preoccupavano: parlare del regno di Dio, guarire e dare da mangiare non possono essere momenti separati, ma tutto deve essere racchiuso nella “benedizione”, deve essere in benedizione, una dimensione forse sottovalutata anche nella celebrazione eucaristica. Spesso si pensa di assicurare il senso del “sacro” con ritualità, gestualità e vesti liturgiche ad effetto, mentre ci sarebbe solo da far emergere il senso di mistero, di verità e di grazia, insito nella comunione e nella convivialità fraterna.

 

Quando si parla di fedeltà alla tradizione, non si deve intendere l’attaccamento a qualche sistema liturgico del passato più o meno recente, ma è soprattutto passione di dare continuità all’eterno mistero dello “spezzare il pane” in cui ormai riconosciamo il Cristo risorto e sempre da rinnovare con le nostre mani in sua memoria. È la passione di ritrovare la vena originaria di questa corrente eucaristica che attraversa la storia e che si rivela pienamente nella Cena del Signore, fino a questa prospettiva finale in cui egli stesso è impegnato  a servirci: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”  (Lc 12,37). In un certo senso la riedizione finale dell’ultima Cena!

 

All’ultima Cena ci riporta la seconda lettura della 1 Lettera ai Corinzi, che è il più antico testo scritto in cui Paolo ci dice quale è la regola fondamentale di questa trasmissione: “Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Appunto il fatto che quel pane spezzato altro non è che il suo Corpo, mentre il calice altro non è che la Nuova Alleanza nel suo sangue. Tutto per fare memoria di lui nel suo ritorno al Padre e nell’attesa della sua nuova venuta: “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”.

 

Se non ci lasciamo scivolare addosso queste parole per assuefazione, possiamo renderci conto che “Corpus Domini”, Cena del Signore, Eucarestia, Santa Messa altro non è che il punto di risoluzione dell’intero mistero della fede nel quale siamo coinvolti: qualcosa che non può essere ridotto secondo le nostre misure a precetto festivo, a pratica religiosa insieme alle altre, a devozione personale … Questo ci porta a dire che se una modificazione genetica del credere avviene nel fare memoria di Gesù, essa non può non realizzarsi se non in noi e attraverso di noi, e portare così ad un modo diverso di vivere l’eucarestia. Un modo che ispiri, sostanzi ed orienti i nostri rapporti di fraternità in Cristo e di famiglia di Dio tra gli uomini. Senza troppi altri annessi e connessi formali e pratici con cui spesso cerchiamo di surrogare il “fare la comunione”. (ABS)

 

 

 

Consigli di lettura

 

Spezzare il pane alla stessa mensa

come comunità messianica

 

Gli Atti degli Apostoli raccontano come a Gerusalemme i membri della prima comunità si raccogliessero ogni giorno per mangiare insieme (2,46; 6,1). In tal modo essi proseguivano l'abitudine dei pasti in comune che Gesù aveva condivisa durante la sua vita terrena coi discepoli. Paolo e Luca riferiscono che la comunità si era in questo richiamata ad un ordine dato da Gesù nell'ultima Cena: «Fate questo in memoria di me». L'imperativo: «Fate questo!» invita inoltre a ripetere un'azione, un'operazione, ed è difficile intendervi qualcosa di diverso dallo spezzare e distribuire il pane (Paolo aggiunge il far girare il calice), che era appena stato direttamente menzionato. Pertanto il comando della ripetizione non significa (secondo l'interpretazione usuale) che i discepoli dovessero ripetere le parole di spiegazione, bensì che era loro dovere spezzare il pane in comune e, nel partecipare alla stessa mensa, manifestare di continuo che essi erano una comunità messianica. Lo scopo di questo rivelarsi della comunità salvifica viene menzionato nelle parole “in memoria di me”. Si tratta di una formula presente già nell'Antico Testamento e che era molto corrente nell'ambiente di Gesù. La si usava per lo più per indicare il ricordo di Dio, cosicché l'ordine di ripetizione va parafrasato pressappoco in questi termini: “Continuate a partecipare alla mensa comune onde formare la comunità messianica, affinché Dio si ricordi di me!”.

Come interpretare questo “ricordo di Dio”? Una delle preghiere più frequenti nella festa di Pasqua che veniva inserita nella preghiera conclusiva del pasto, prega Dio di ricordarsi del Messia - di realizzare cioè la grande svolta. Il comando di ripetizione va inteso proprio così. Raccogliendosi continuamente intorno alla mensa comune, i discepoli di Gesù devono implorare da Dio l'inizio della salvezza. In tal modo, praticando i pasti in comune, la comunità non è passiva, pronta solo a ricevere i doni di Dio, ma è attiva in senso eminente: attraverso ciascuna di queste riunioni essa proclama che l’opera della salvezza è già iniziata e insiste pregando Dio perché la porti a termine.

Il problema che più di ogni altro ha preoccu­pato la prima Chiesa a proposito della mensa co­mune era la domanda se l'ammissione alla Cena del Signore dovesse andare soggetta a limitazioni. Di questo parere erano i severi giudeo-cristiani. Per loro era naturale che un giudeo pio non potesse mangiare con un pagano (At 11,3)., Ecco perché i giudeo-cristiani di Antiochia avevano  do­vuto sentirsi aspramente criticati dai partigiani ge­rosolimitani di Giacomo fratello  del Signore per essersi assisi a mensa insieme con i cristiani ellenisti; persino Pietro e, con particolare dispia­cere di Paolo, il suo collaboratore Barnaba non osavano più celebrare la Cena con i cristiani pro­venienti dal paganesimo (Gal 2,11-13) finché Pao­lo ebbe ad elevare apertamente una protesta assai dura (v. 14-21). Il fatto che, come a Gerusalem­me (At 11,3; Gal 2,12), anche a Roma (Rom 14,1-15,13) giudeo-cristiani e cristiani provenienti dall'ellenismo non mangiavano insieme rende verosimile l'ipotesi che anche fuori dell'ambiente paolino i due gruppi celebrassero i pasti separa­tamente. Paolo ha ritenuto tale stato di cose insopportabile.

 

È vero che egli aveva dato alle sue comunità, quale provvedimento di disciplina ecclesiastica, la regola di escludere dalla mensa co­mune i peccatori renitenti (1 Cor 5,11; cfr. v. 9; 2 Ts 3,14); ma per il resto egli ha lottato con passione contro quella divisione attuata nella Ce­na del Signore. Il ragionamento da lui fatto alle due parti avverse è semplice e chiaro: forse che il Cristo non è morto per il fratello (Rom 14,15)?  Non siete ambedue nelle mani di Dio che vi dà la grazia del perdono (Gal 2,15 s.)? Non vedi come il fratello, mentre mangia, loda Dio (Rom 14,6)? Non appartenete ambedue, lui e tu, in vita e in morte, al medesimo Signore (14,17)?  Perciò: comunicate l'uno con l'altro (14,1; 15,7), così come Cristo ci ha concesso di comunicare con lui a gloria di Dio (15,7).

 

La cena del giovedì santo fu l'ultimo dei pasti consumati da Gesù su questa terra assieme ai di­scepoli. Noi la possiamo capire rettamente solo considerandola quale ultimo anello di questa lun­ga catena, quale uno dei doni anticipati del pieno adempimento, come attualizzazione del tempo del­la salvezza. Come elemento particolare in quest'ul­timo pasto comune abbiamo le parole di spiegazio­ne.

 

Joachim Jeremias

In “Questo è il mio corpo…”, Morcelliana 1973, pp.14-17

 

 

 

 



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