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Le parole del poeta siriano Faraj Bayrakdar fanno drasticamente giustizia di quanti usano invano il Nome di Dio, quando lo si invoca dalla propria parte per disegni di potere. Sono parole che si trovano in un suo volume di poesie che Elena Chiti ha tradotto dall’arabo: ne riportiamo alcune alle agine centrali. La ragione per cui le riprendiamo è anche perché questo testo ha fatto inaspettatamente da controcanto al motivo ispiratore di questo numero di Koinonia: appunto l’elogio della diaspora, tutta da riscoprire e da valorizzare come contrappeso ad un eccesso di retorica comunitaria a buon mercato come nuova ideologia ecclesiale.
Il messaggio che riceviamo, infatti, ci dice per assurdo che la stessa prigione può diventare il luogo della libertà messa alla prova come l’oro nel crogiuolo. E che l’esistenza umana non è riducibile allo spazio e al tempo in cui peraltro si svolge, ma è essa stessa a creare spazi e tempi in cui vivere. È in qualche modo lo stesso messaggio che ci viene, sempre in questo numero, da Etty Hillesum, “maestra di resilienza”. Ma in fondo non è che il messaggio del vangelo, quando ci dice di convertirsi e credere: e cioè fare leva ciascuno sulla potenza della fede. Qualcosa che ci chiama in causa singolarmente nella propria libertà interiore.
Il fatto è, purtroppo, che questa fede è sistema a cui conformarsi ed in cui adagiarsi, piuttosto che diventare punto di forza e di appoggio per una esistenza umana riscattata. Se poi vogliamo parlare di una “conversione pastorale”, allora siamo nella necessità di un riassorbimento di tutti i tempi religiosi e gli spazi liturgici in un puro e semplice “credere al vangelo” sine glossa. Semplicemente perché “vangelo di Dio”, al di fuori di ogni sospetto. Sì, in diaspora, ma col desiderio di ritrovarci in ciò che abbiamo e ci sta a cuore.


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