2 ottobre 2022 - XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

 

 

Vincent Van Gogh: L’albero di gelso (1889)

Pasadena (California), Norton Simon Museum

 

 

PRIMA LETTURA ( Abacuc 1,2-3;2,2-4)

 

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto
e non ascolti,
a te alzerò il grido: «Violenza!»
e non salvi?
Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese.
Il Signore rispose e mi disse:
«Scrivi la visione
e incidila bene sulle tavolette,
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indugia, attendila,
perché certo verrà e non tarderà.
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede».


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 94)


Rit. Ascoltate oggi la voce del Signore.

 

Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere».

 

SECONDA LETTURA (2Timoteo 1,6-8.13-14)

 

Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.

Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.

Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.

 

VANGELO (Luca 17,5-10)

 

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».

Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?

Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

 

 

In altre parole

 

Il realismo e la franchezza del profeta Abacuc in rapporto al suo Signore sono una spinta ad uscire dal clima di assuefazione e di rassegnazione in un mondo di violenza disumana, di litigi e contese, in cui l’informazione quotidiana dà una visione viziata delle cose e della storia. Dove il coraggio di scrollarsi di dosso questa cappa di sventure e protestare verso il Signore che non ascolta e non salva? Ipocritamente, ci sembra fuori luogo chiamarlo in causa in queste nostre disavventure, anche perché saremmo costretti a cambiare atteggiamento e a rimettere in questione il nostro rapporto con Dio: segno evidente di una situazione di ristagno in cui Dio stesso trova una sua collocazione a nostro appagamento e a scanso di inquietudini. Amiamo giocare con le mille immagini di Dio come in un caleidoscopio, sapendo perfettamente che non sono reali.

 

Se davvero ci facciamo sentire col nostro Dio al di là del religiosamente corretto, una sua risposta non manca, anche se non è secondo le nostre attese, perché lo vorremmo interventista a nostro piacimento. Ma se ascoltiamo bene e fissiamo nella mente le sue parole,  ci viene garantito che dentro il persistente dramma della storia non tutto è irrimediabilmente perduto, ma una risoluzione finale è da attendere e bisogna evitare di fare di ogni erba un fascio, o di buttare il bambino con l’acqua sporca: un termine “certo verrà e non tarderà” se sappiamo attenderlo e se siamo pronti a coglierlo come momento favorevole, quando appunto il grano potrà distinguersi dalla zizzania. Purtroppo viviamo nell’epoca del tutto e subito, delle soluzioni immediate, degli accomodamenti facili, e dimentichiamo che “il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,26-27).

 

Bisogna perseverare e non stancarsi mai perché tutto si sviluppi e si decanti, per rivelarsi infine nel suo vero volto, secondo una legge inesorabile di vita: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. Tutto quello che sembra dominare in violenza e in oppressione è destinato a soccombere, come la casa costruita sulla sabbia. Mentre il giusto vivrà per la sua fede, per questo germe interiore che ha in sé una potenza vitale da assecondare sempre e comunque, indipendentemente dal fatto che si dorma o si vegli, di notte o di giorno: qualcosa che avviene per virtù propria e non tanto per il nostro adoperarci. È una fede come principio vitale e non semplice presupposto di alcune verità da professare: la fede come relazione reale col mistero di Dio al di là di formulazioni e ritualizzazioni dottrinali e religiose. Se il giusto vive per la sua fede, questa non va intesa come sistema o come “sabato” da rispettare, ma come obbedienza a Dio alla maniera di Abramo e di Maria; non come fatto collaterale di una esistenza umana separata, ma come linfa  di salvezza da vivere in pienezza.

 

Più di una volta i discepoli si sono sentiti apostrofare da Gesù come “gente di poca fede”, e certamente è stato per loro un tirocinio duro arrivare dove egli voleva portarli: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Ed è per questo che un bel giorno se ne rendono conto e chiedono al Maestro di accrescere in loro la fede, la capacità di condivisione di vita con lui. Una richiesta che capita di ripetere anche a noi in qualche formula di preghiera programmata, ma in tutta tranquillità e senza il dramma di chi sente carenza di fede e difficoltà nel credere. Credere insomma non sembra fare problema, e a destare meraviglia non è tanto la singolare figura del credente, ma chi si dichiara non credente in quanto non allineato. Se davvero sapessimo mettere a fuoco l’originalità e la grazie del credere, eviteremmo che si dissolvesse sullo sfondo e riporteremmo la questione-fede in primo piano come lotta con Dio!

 

Per tutta risposta, Gesù fa capire che avere più fede non è un fatto quantitativo, ma qualitativo, per cui basta che essa sia quanto un granello di senape, perché ci consenta di mutuare in noi la stessa potenza di Dio, fino a poter dire ad una pianta di gelso di sradicarsi per andare a piantarsi in mare, e questo succederebbe grazie all’obbedienza delle  cose, così come la fede è nostra obbedienza alla potenza di Dio. L’albero di gelso di Vincent Van Gogh ci aiuta visivamente a prendere atto di questa possibilità data agli uomini per sollevare e vincere il mondo: è la fede che sposta le montagne! Ma quanto investiamo questo potenziale di vita, invece di andare a sotterrarlo come il talento ricevuto?

 

Non per questo dobbiamo pensare di avere un Dio debitore di qualcosa per il nostro servizio o per le nostre opere: nel nostro rapporto di fede con lui ciò che conta è disponibilità, docilità, gratuità, gratitudine. Per dire tutto con una parola sola, a contare è soprattutto l’umiltà; senza avanzare pretese, ma riconoscendoci “servi inutili”, contenti soltanto di aver fatto quanto dovevamo fare. Sappiamo che su questi punti - la fede e le opere - si sono consumati dissidi, dibattiti, scismi, ecc.. - ed anche i nostri tempi non sarebbero esenti da tante questioni in proposito, se solo avessimo il coraggio di trattare la fede per quello che è, e assicurarealle nostre tante spiritualità un’anima comune!

 

Basterebbe tener conto che Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza, per dare testimonianza di lui, soffrendo insieme per il vangelo con la forza che egli ci dà, mediante lo Spirito santo che abita in noi! Non sembra essere questo, per la verità, il piano in cui viviamo una nostra spiritualità ecclesiale di fondo, spesso frammentaria e fosforescente ma priva di sostanza e di necessaria irradiazione: tutto è ridotto a dimensioni individuali di perbenismo e conformismo religioso. Se invece vogliamo verificare se e quanto una fede vissuta ci strutturi come comunità di credenti, basta ascoltare il profeta Isaia, quando ci avverte che “se non crederete, non avrete stabilità” (Is 7,9). Da dove in realtà prende consistenza una chiesa nel mondo, e con quale fisionomia?

 

In ultima analisi, la risposta che Gesù dà ai suoi e a noi sappiamo bene qual è: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30). (ABS)


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