17 ottobre 2021 - XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

 

Paolo Caliari, detto il Veronese: Cristo incontra la famiglia di Zebedeo (1565 ca.)

Grenoble, Musée des Beaux Arts

Museo di Belle arti e antichità

 

PRIMA LETTURA (Isaia 53,10-11)

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.


 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 32)


Rit. Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

 

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

 

 

SECONDA LETTURA ( Ebrei 4,14-16)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.

Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.

Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.



VANGELO ( Marco 10,35-45)

 

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».

Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».



 

 

 

In altre parole…

Attenti ad enfatizzare o mitizzare la locuzione “camminare insieme” ormai sulla bocca della chiesa praticante: con essa si vuole significare il “sinodo’ ormai in atto sia sul piano nazionale che su quello della chiesa universale. Forse sarebbe più esatto dire “insieme per la stessa strada”, dove forse la via da percorrere è senz’altro più importante della stessa compagnia che possiamo farci. Senza facili riduzionismi o infingimenti, non è altro che la via della salvezza, ciò a cui guarda la Scrittura come “storia della salvezza”, guarda il vangelo e persegue la fede.

Ammesso di riconoscerci umanità desiderosa - consapevolmente o inconsapevolmente - di essere salvata, viene da chiedersi se, come e chi la può salvare: a che tipo di salvezza siamo portati a pensare? E come disporsi ad essa? Sono domande che hanno attraversato i secoli e le coscienze tutte, e che continueranno ad inquietare per sempre. È chiaro che per la salvezza è come il coraggio: nessuno può darsela da sé, né aspettarsela da chi è con noi sulla stessa barca, così come non è da pensare che essa sia assicurata da riti e formule divinatorie: è il dramma che ciascuno vive e che bisogna imparare a vivere insieme. Del resto, in tutte le nostre liturgie non celebriamo i misteri della nostra salvezza?  Quante volte questa parola la possiamo registrare nei testi liturgici e anche nei nostri canti?

Se vogliamo affidarci alla parola profetica di Isaia, nella preistoria cristiana, c’è da pensare a qualcuno che si faccia carico della nostra prostrazione e si immedesimi con i nostri dolori, qualcuno che prenda a cuore la nostra condizione e ci faccia ritrovare la via e la fonte della vita e soddisfi la nostra sete di pace: che sia capace di riconsegnarsi totalmente al Dio della vita e diventare vita anche per noi. L’aspirazione alla salvezza, a ben riflettere, non è altro che desiderio di rinascere per essere pienamente se stessi in sicurezza, ma avvertiamo anche che questo ci richiederebbe un morire a se stessi così come siamo, non come sacrifico di espiazione per colpe nascoste, ma come condizione  di rinascita.

Ecco allora questo qualcuno, che “offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”. Quando si dice “sacrificio di riparazione” non necessariamente c’è da pensare a qualcosa da espiare per ingraziarsi qualche Dio, semmai al compiersi della volontà del Signore e al suo disegno di salvezza, che però sembrerebbe richiedere una nostra partecipazione di radicale rigenerazione di morte e di vita. Naturalmente si può coltivare una visione totalizzante dell’esistenza nel tempo, ma allora è il caso in cui chi vuol salvare la propria vita in questo ordine di cose è destinato a perderla.

I profeti di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno sempre sognato ed evocato questa figura misteriosa di chi, stando sempre ad Isaia, “dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza”,  così come hanno percepito che  “il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità”. È qui il punto nevralgico di ogni salvezza e la coscienza viva di chi la desidera e la cerca: che qualcuno si faccia nostro interprete presso Dio al tempo stesso in cui egli lo designa come suo interprete, e possa essere ripreso quel dialogo interrotto nell’Eden; qualcuno che faccia da intermediario e si faccia carico dell’uomo presso Dio e di Dio presso l’uomo! A parte ripeterci che questo qualcuno c’è e dirci chi è, non sentiamo il bisogno personalmente che sia così per ciascuno di noi? Si può parlare di salvezza senza viverne il dramma e la gioia?

Per noi non è difficile riconoscere in questa figura l’”uomo Cristo Gesù”  “mediatore tra Dio e gli uomini” (1Tm 2,5): colui che ha assolto il suo compito non in maniera misterica, sacrale, mitica, ma come Verbo fatto carne che ha abitato tra noi. Bisogna perciò accettare e condividere questa coabitazione con lui, certamente non facile. Strada facendo egli cerca di farci capire quale è la via che lui sta seguendo e che dobbiamo seguire anche noi con lui: la nostra incomprensione o rimozione delle sue parole, con cui ci mette di fronte alla sua passione e morte, ci viene oggi messa sotto gli occhi dai figli di Zebedeo Giacomo e Giovanni che – questa volta senza i buoni uffici  della mamma – vogliono assicurarsi i posti di onore per quando sarà il momento della restaurazione e della gloria a cui essi guardano.

Senza considerare che sì, Gesù aveva fatto cenno ad una resurrezione e ad una glorificazione, ma passando attraverso un battesimo di sangue e dopo aver bevuto un calice amaro, che eventualmente anche loro avrebbero dovuto assaporare. È tutto quello che egli ci può proporre ed offrire, riservando al Padre l’assegnazione dei posti,  ma prende spunto da queste nostre pretese e richieste per impartirci ancora una volta una lezione  da tenere ben presente, anche perché questa corsa ai primi posti non può non suscitare indignazione intorno a noi, e questo non dovrebbe succedere ai suoi occhi.

Le sue sono parole che dovremmo imparare a memoria, per essere pronti a distinguere tra il modo in cui vengono governate le nazioni, i cui capi le dominano e le opprimono, mentre tra quanti sono incamminati con lui non deve essere così, e la scala di valori è capovolta, quello appunto che egli esprime ed incarna nel suo modo di essere quando dice: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. È una lezione ripetuta ed esemplificata, ma sarà sempre duro apprenderla e farsene testimoni. Sta di fatto che di qui non si esce, con tutte le giustificazioni che si possano trovare di un esercizio del potere nella chiesa diverso da quello che Gesù ha esercitato, e che vuole fatto proprio dai suoi: la lavanda dei piedi con la relativa consegna ai discepoli stanno lì a dimostrarlo.

 

L’esperienza sofferta fatta da quegli uomini di Galilea con Gesù, e trasmessa ad altri discepoli fino a noi, porta già la chiesa primitiva a questa consapevolezza e professione di fede: di avere “un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio”, dove la realtà unica del fatto relativizza anche il riferimento al “sommo sacerdote”. In effetti non si tratta di avvalorare la casta sacerdotale, ma di abolire questo ordine di rapporti, come è detto in un altro passo della stessa lettera agli Ebrei, 7,18-1: “Si ha così l'abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità - la legge infatti non ha portato nulla alla perfezione - e si ha invece l'introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio”. Bisogna imparare a tener conto di questi cambiamenti di prospettiva

 

Se poi vogliamo chiamare Gesù “sommo sacerdote”, è bene sapere che non è tale per leggi ed ordinamenti di potere, ma perché ha preso parte alle nostre debolezze. Infatti: “Egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”.  Ed allora, servire  lui non vuol dire esser depositari di un potere, ma solo ricevere il battesimo che egli ha ricevuto e bere il calice che egli ha bevuto. In questo preciso senso il Popolo di Dio è un “Popolo sacerdotale”, e in quanto tale capace di accostarsi “con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.  È fare un’esperienza viva di salvezza, sia in senso passivo che attivo come collaboratori  di Dio, secondo quanto ci dice Paolo in 2Corinzi 1,24: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi”. (ABS)


.