18 ottobre 2020 - XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

 

Masaccio: Il pagamento del tributo (1425)

 

PRIMA LETTURA (Isaia 45,1.4-6)

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:
«Io l’ho preso per la destra,
per abbattere davanti a lui le nazioni,
per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,
per aprire davanti a lui i battenti delle porte
e nessun portone rimarrà chiuso.
Per amore di Giacobbe, mio servo,
e d’Israele, mio eletto,
io ti ho chiamato per nome,
ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.
Io sono il Signore e non c’è alcun altro,
fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci,
perché sappiano dall’oriente e dall’occidente
che non c’è nulla fuori di me.
Io sono il Signore, non ce n’è altri».


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 95)


Rit. Grande è il Signore e degno di ogni lode.

 

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.

 

 

SECONDA LETTURA (1 Tessalonicesi 1,1-5b)

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.

Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

VANGELO (Matteo 22,15-21)

 

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.

Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».

Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».




In altre parole…

 

Abbiamo avuto spesso modo di fare ricorso a Paolo, per vedere come di volta in volta la Parola di Dio prendesse forma nella sua vita, nella sua testimonianza e nelle comunità destinatarie delle sue lettere. Con la Lettera ai Tessalonicesi, ci troviamo oggi davanti al primo messaggio indirizzato ad una comunità da lui creata, così come abbiamo la novità del linguaggio della sua comunicazione: è come assistere al parto della chiesa di Tessalonica, che fa da prototipo e da falsariga in ogni altro evento di formazione comunitaria o di ecclesiogenesi. Quanto siamo lontani da una visione di chiesa già costituita e insediata!

 

In questo senso, nelle poche parole della lettera ai Tessalonicesi possiamo rileggere noi stessi, sia per quanto ci è dato da vivere nella nostra comunicazione di fede, e sia soprattutto per quanto ci è proposto di incarnare in quanto amati da Dio e scelti da lui. Che è quanto ci fa “chiesa”: convocazione e assemblea “in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo”. Quale che sia la nostra collocazione geografica ed ecclesiale, ciò che ci costituisce in chiesa è questa stessa comunicazione di grazia e pace che c’è tra Paolo, Silvano, Timoteo e la comunità di Tessalonica, al di fuori di ogni inquadramento istituzionale.

 

Ciò che ci fa comunità è il rendimento di grazie a Dio e padre nostro gli uni per gli altri, ed è il tenersi presenti nella preghiera reciproca; tutto un insieme di relazioni, la cui forza sta in una fede viva e testimoniale, in una carità instancabile e in una speranza a tutta prova, sostanza di ogni esperienza cristiana. E questo perché il vangelo è arrivato a loro in maniera efficace, non solo a parole, ma attraverso la potenza dello Spirito e la profonda convinzione di chi lo trasmetteva.

Sono i tratti di una comunità di fede che anche noi siamo chiamati ad essere, proprio nella condizione di diaspora, attraverso la nostra comunicazione “nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro”. A questo evento di comunione tutti possiamo concorrere attraverso l’ascolto solidale della Parola di Dio, per cui rendere grazie che è già “eucarestia”, pur mancando di visibilità e magari anche di piattaforme digitali di ripiego.

Bisognerebbe rendersi conto che è possibile rigenerarsi come comunità di fede dal di dentro e dal basso quasi per auto-gemmazione, grazie ad un vangelo che non sia solo parola, ma Spirito e piena convinzione: una esperienza aperta e feconda! Il problema è mettersi in una via di conversione e non contentarsi di avere già una identità definitiva: “Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre” (Lc 3,8). Quanta fiducia abbiamo di fatto che le cose possono andare così?

Con la storia dell’”eletto Ciro” - strumento nelle mani di Dio - Isaia ci fa capire con quanta apertura e speranza vivere la nostra avventura di fede in un mondo di potenti, che però non è al di fuori dei disegni e del potere di Dio, sebbene non lo conoscano o non lo riconoscano. Il messaggio è netto: “Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri”. In ogni caso il conflitto tra poteri contrapposti è eterno, e se da una parte l’umano potere tende alla propria divinizzazione, dall’altra c’è chi si fa per contrasto depositario del potere di Dio in tutte le forme religiose.

In questo conflitto si ritrova impigliato anche Gesù, venuto nel mondo a predicare il Regno di Dio. La scena illustrata da Masaccio ci riporta a Cafarnao, quando “si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa per il tempio?»”. È quando Gesù, ad evitare scandali e malumori, lo manda a pescare il primo pesce che trova con una moneta d’argento in bocca da consegnare loro (Mt 17,24-27). Segno evidente che Gesù faceva problema per i rappresentanti del Tempio, i farisei, che trovano nelle tasse il terreno adatto per “cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi”: se era insolvente nei confronti del Tempio, in che posizione si trovava nei confronti del potere politico, verso cui peraltro sembrava propendere?

Questi bravi farisei non si scomodano di persona, ma “mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani”, per tendergli un tranello senza uscita: se cioè fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare! Qualunque risposta lo avrebbe messo in difficoltà o con gli uni o con gli altri, per quanto l’avessero dichiarato veritiero, come colui che insegna la via di Dio secondo verità. Ma ecco allora Gesù dimostrare che davvero non ha soggezione di alcuno e non guarda in faccia a nessuno, pronto a dare una risposta che essi non si aspettavano e che diventa per sempre quasi uno slogan per dirimere la questione tra Cesare e Dio.

 

A parte rinfacciare la loro malizia di ipocriti  - ma anche in questo bisognerebbe prendere lezione da lui - la risposta di Gesù di rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, li riporta sul piano pratico e li mette davanti al loro comportamento: essi di fatto avevano in tasca la moneta del tributo con l’immagine e l’iscrizione di Cesare che pagavano regolarmente. Quindi la questione l’avevano già risolta per vie di fatto nei confronti di Cesare, ma questo non poteva né impedire né dispensarli dal rendere a Dio ciò che è di Dio, non in alternativa ma in rapporto dialettico tra ordine politico e Regno di Dio nel mondo.

 

Per sapere cosa va reso a Dio non ci mancano indicazioni, come quando ci viene detto che siamo nel mondo ma non del mondo (cfr Gv 17,16);  che se la nostra “giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei” non è possibile entrare nell’ordine di cose del regno dei cieli (Mt 5,20). Ma se vogliamo avere il quadro esatto in cui Gesù stesso si pone nei confronti di Cesare, abbiamo la dichiarazione davanti a Pilato che gli chiede se egli sia re: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di questo mondo… Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,36-37). In ultima analisi, più che faccenda di autorità e di competenze è questione di essere dalla verità e ascoltare la sua voce, così come lui ascolta la voce del Padre.

 

Se poi vogliamo dare spessore storico a queste parole, siamo riportati alla risposta che Gesù dà ai suoi discepoli dopo che li ha messi davanti al dubbio di chi fosse il traditore in mezzo a loro: “Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27).

Gesù che è in mezzo a noi “come colui che serve” può essere inteso e visto in tanti modi: basti pensare alla lavanda dei piedi all’ultima cena. Forse però siamo meno portati a ricordare che egli è venuto nel mondo “per rendere testimonianza alla verità”, in modo da fare altrettanto proprio in quanto comunità evangelizzatrice. Come farlo ci è stato già detto: non soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

Il vero problema è se ci sia e se possa nascere anche ai nostri giorni una “chiesa” tipo quella di Tessalonica (quanti saranno stati?) a cui poter rivolgere le stesse parole di Paolo. Ma questo dipende principalmente da ciascuno di noi e da una nostra collocazione ecclesiale: o dentro gli spazi e le caselle da occupare (ora magari distanziati), o invece come “pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5). Non è affatto la stessa cosa e bisognerebbe che in qualche modo risultasse! (ABS)


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