6 settembre 2020 - XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

 

Jean-François Millet: L'Angelus (1858-1859)

 

PRIMA LETTURA (Ezechiele 33,1.7-9)

Mi fu rivolta questa parola del Signore:

«O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.

Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te

Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».

 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 94)


Rit. Ascoltate oggi la voce del Signore.

 

Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere».

 

 

SECONDA LETTURA (Romani 13,8-10)

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.

Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

 

VANGELO (Matteo 18,15-20)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».



 

In altre parole…

 

In genere, quando si parla di evangelizzazione, si tiene conto dei destinatari del messaggio o al più delle modalità di comunicazione: insomma di quanto attiene ai possibili significati e alla efficacia del mezzo. Raramente si chiama in causa il messaggero, il predicatore, il profeta o chi per loro, in quanto si dà per scontato che tutto sia in piena regola e non faccia problema: anche alla normale trasmissione della Parola si dà un valore di magistero infallibile e si fa passare qualunque cosa!

 

Non è così per il profeta Ezechiele, a cui viene ricordato dal Signore che è “posto come sentinella per la casa di Israele”, per cui non basta la correttezza dottrinale o l’efficacia devozionale, ma c’è appunto la sollecitudine per la “casa di Israele”. Nei confronti della quale c’è tutta la responsabilità dell’annuncio: “Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia”. Quanto esce dalla nostra bocca è sempre quanto viene detto dalla bocca di Dio?

 

Nel caso il Signore dica al malvagio “tu morirai” e il profeta non parli per farlo desistere dalla sua condotta, egli diventa corresponsabile della sua morte. Sembra di sentire Paolo che dice a se stesso: “Guai a me se non predicassi il vangelo!” (1Cor 9,16). E questo non tanto come attività pastorale d’ufficio, ma come responsabilità di salvezza di tutti, del giudeo e del greco.  Viene da chiedersi se la predicazione corrente sia dominata da questa passione o invece dalla preoccupazione di salvare qualche sistema dottrinale, ordine morale, equilibrio sociale o egemonia di potere. Non sarebbe giusto interrogarsi in proposito? Dopo lunghe stagioni in cui la predicazione ha seminato paure di dannazione dell’anima, siamo capaci di una predicazione che annunci la salvezza come dono e come impegno per i popoli?

 

L'Angelus di Millet potrebbe diventare l’icona della sostanza viva della fede dei secoli passati come sostanza della nostra fede di oggi: adorare e invocare il Padre non in questo o in quel luogo, ma in spirito e verità, a cielo aperto. Sullo sfondo della immagine, in cui ci sono strumenti di fatica e frutti del lavoro o pane quotidiano, si intravede un campanile: ma dove è in realtà il luogo della invocazione di salvezza? Noi oggi ci troviamo a vivere questo passaggio epocale; che la fede orante non sia più confinata in spazi e tempi appositi separati, ma rinasca dalla vita e nel quotidiano. Ciò però non avviene con gattopardesche modificazioni rituali ma nella rigenerazione del credere grazie ad un rinnovato annuncio della Parola. A questo scopo, mancano traghettatori o anche chi si senta di fare questa traversata prendendo il largo!

 

Questa prospettiva di fede orante viene evocata una volta di più dall’immagine di Millet, che sembra interpretare le parole di Gesù: “In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Ci è detto qual è il piano in cui tutto ciò avviene: quello della solidarietà, con la forza della intercessione e della impetrazione, avendo a cuore la salvezza dell’altro e non solo la propria.  C’è qui l’anima della comunione o vita ecclesiale: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Si tratta già di presenza reale, senza la quale non sarebbe possibile neanche  la presenza sacramentale.

 

Ma è chiaro che, trattandosi di comunità di fede, non tutto può ridursi a convenzione o conformismo, ma è questione di cuore e di coscienza: per cui possono nascere orientamenti e pronunciamenti diversi o divergenti, che creano divisioni e rotture. È quanto sembra succedere subito nella prima comunità dei discepoli, che Matteo presenta in una forma abbastanza evoluta, in cui sembra tornare a proposito il richiamo del profeta Ezechiele a farsi carico anche delle deviazioni interne dei fratelli. È il discorso della “correzione fraterna” tutto da apprendere. Anche se lo schema è ancora ad impronta rabbinica e non pienamente evangelica - e cioè giudiziale e di controllo – ci sarebbe molto da imparare e da praticare, per venire a capo di tensioni e situazioni che compromettono e riducono la comunione, anche se non emergono e non infrangono l’unità formale.

 

L’insegnamento è chiaro: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo”. Queste parole vengono messe sulla bocca di Gesù, forse in applicazione a situazioni nuove, ma è da tenere presente che sono riportate subito dopo il discorso sulla pecorella smarrita: inducono quindi a pensare che non si tratti di offese personali per le quali c’è il perdono e basta, ma che ci sia in gioco qualche dissidio di tipo istituzionale di cui venire a capo, e per cui ammonire o confrontarsi col fratello. L’iniziativa deve avvenire da fratello a fratello e non deve essere di tipo autoritario o disciplinare. Se il tentativo per riguadagnare il fratello alla comunione non va in porto, per dirimere la questione si può fare ricorso ad altre voci.

 

Se anche questo approccio fallisce, allora può intervenire la comunità come depositaria del potere di legare e di sciogliere, che non sembra essere riservato al solo Pietro. È il momento in cui una autorità va esercitata come responsabilità di giudizio e di decisione per il bene comune più che come condanna. Ma è chiaro che se non si trova nessun punto di contatto e di intesa in totale reciprocità, è necessario prendere atto di rapporti cambiati, in cui ciascuno si assuma le proprie responsabilità e accetti la nuova condizione. Ma è altrettanto chiaro che l’intento di fondo deve rimanere quello di arrivare all’accordo necessario per chiedere insieme qualunque cosa al Padre, e per rimanere uniti nel nome di Cristo, in modo da consentirgli di essere in mezzo a noi. Quindi non si tratta di ricreare equilibri orizzontali di non belligeranza, ma di ritrovare quel “cuor solo e anima sola” che sono il dinamismo stesso di ogni comunità ecclesiale.

 

Detto questo in linea ideale, viene da chiedersi se, dove e quando sia possibile far funzionare e applicare questo metodo di “correzione fraterna” per la vita della comunità: di fatto non abbiamo comunità capaci di adottare alla base questo stile di partecipazione e di carità, ingessate come sono in strutture giuridiche e mentali di sudditanza e di ossequio. Stando così le cose al loro interno, non possiamo aspettarci che esse siano sentinelle per la casa di Israele, pronte a proclamare nel mondo il Regno di Dio e la sua giustizia. Non si può diventare “parrocchia missionaria” volontaristicamente o per apologia, se prima non matura questa corresponsabilità ecclesiale di fondo riguardo alla salvezza di ciascuno e di tutti. Non si dice che il Popolo di Dio è profetico?

 

Non c’è però da perdersi d’animo, perché san Paolo ci mostra quale è “una via migliore di tutte” (1Cor 12,31), quasi una scorciatoia: quella della carità e dell’amore fraterno! Con tono veramente liberatorio arriva a dirci: “Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”. È il segreto che conosciamo tutti ed è ciò che ci rende liberi: l’amore di Cristo condiviso, di cui anche la profezia e l’esercizio dell’autorità devono essere espressione nella libertà, nella generosità e nella dedizione

 

“Pienezza della Legge infatti è la carità”: è quanto san Paolo canta nell’inno alla carità in 1Cor 13: è vero che senza la carità tutto è come niente, ma è vero anche che la carità non si dà allo stato puro ed ha bisogno di materializzarsi in tutti i modi possibili. Ma la nostra professione di fede dovrebbe diventare questa: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Ce la sentiamo di muoverci su questo piano, al di là di considerazioni e preoccupazioni identitarie di altro genere, anche le più nobili? (ABS)


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