5 luglio 2020 -  XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

 

Hans Memling: Cristo dolente in atto di benedire (1485)

 

PRIMA LETTURA (Zaccarìa 9,9-10)

Così dice il Signore:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra».

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 144)

Rit. Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.

 

O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.

Fedele è il Signore in tutte le sue parole
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore sostiene quelli che vacillano
e rialza chiunque è caduto.

 

 

SECONDA LETTURA (Romani 8,9.11-13)

 

Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.

E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.

 

VANGELO (Matteo 11,25-30)

 

In quel tempo Gesù disse:

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

 

In altre  parole…

L’invito alla gioia del profeta Zaccaria ci rimanda istintivamente alla Domenica delle Palme e all’ingresso di Gesù a Gerusalemme in sella ad un asino. “Esulta” e “Giubila” ci fanno pensare anche alle domeniche “Gaudete” e “Laetare” dell’Avvento e della Quaresima, con cui si vuole ricordare che il senso ultimo delle cose rimane la gioia. Sono però anche segnali che il seme della Parola di Dio cade su terreni già coltivati e occupati, per cui arriva a noi già preconfezionata. Raramente trova un terreno vergine in cui portare nuovi frutti, e cioè quello spirito di infanzia e di recettività in cui si rivela e va accolta.

E così il significato delle Scritture finisce per essere contraffatto, per cui tutto si concilia con tutto per lasciare le cose come stanno. La Parola di Dio, cioè, risulta integrata o in sistemi mentali e spirituali o in intenti pratici, che di fatto la occultano, fino a rimanere nascosta ai sapienti e ai dotti, a quelli che già sanno. Buona cosa, quindi, ritrovarsi nella condizione di non doverla addomesticare per nostri scopi precisi – esegetici, mistici, spirituali, morali, umanitari, psicologici ecc.. – per limitarci a quanto ci lascia intuire “non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13). Ciò che postula è solo una  fede recettiva, ed anche un discorso sulla gioia va fatto in questa luce.

Non sono mancate e non mancano ai nostri giorni esortazioni alla gioia, come quella del 1975 di Paolo VI “Gaudete in Domino” (Rallegratevi nel Signore) e del 1918 di Papa Francesco “Gaudete et exsultate” (Rallegratevi ed esultate), non dimenticando la “Evangelii gaudium” che ne fa la prospettiva di fondo, ma che al tempo stesso traccia un cammino di discepolato e di chiesa in quanto chiamati a essere evangelizzatori, portatori di un lieto annuncio. Non si deve dire del vangelo quanto viene detto del Battista in Giovanni 5,35, e cioè che “era una lampada che arde e risplende, e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce”.

Va tenuto ben presente che la gioia non è una ebbrezza momentanea o un accessorio fuoco di paglia,  ma è il sottile filo conduttore di un’esistenza vissuta nella linea della speranza: “Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12). La gioia cioè non viene dall’esterno, ma è frutto dello Spirito, così come “amore, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). E se davvero il Dio vivente continua a dar prova di sé “riempiendo di letizia i cuori” (At 14,17), vuol dire che non è sentimento solipsistico ma è aspirazione e attesa escatologica, ragion d’essere ultima delle cose! È la segreta irrinunciabile aspirazione di tutti e di tutto.

È chiaro allora che la gioia ha un carattere di dono messianico, di cui tener conto. L’esortazione del Signore per bocca del profeta Zaccariaa a Gerusalemme cade probabilmente al rientro dell’esilio e dentro il progetto di ricostruzione del Tempio, un momento non facile di prova e di speranza per Israele. Al di là di circostanze storiche, il motivo del giubilo è l’attesa e l’arrivo di un re “giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino”, e grazie al quale spariranno cavalli e strumenti di guerra da Gerusalemme: egli porterà la pace, dalla quale scaturirà la gioia.

In genere siamo abituati a finalizzare il Messia alla pace, e il nostro messianismo ecclesiale mira e si organizza in ordine ai problemi della pace nel mondo. Facilmente si dimentica che anche la gioia ha una sua dimensione sociale e storica e non solo individuale, e la chiesa stessa ne dovrebbe essere il segno e lo strumento come Popolo messianico. Dovrebbe cioè essere interprete ed operatrice del disegno di Dio per ogni uomo e per l’umanità intera! In un certo senso dovrebbe rivestire i panni di san Paolo quando dice in 2Cor 1,24: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi”.

Il volto di questo re vittorioso e umile lo possiamo vedere nell’opera di Hans Memling, tanto assorto quanto comunicativo. Ma soprattutto ci si presenta attraverso le parole di timbro giovanneo che Gesù pronuncia in un sussulto interiore di gioia, secondo il testo di Luca 10,21: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo”. In mezzo a contrasti, a delusioni a cui va di continuo incontro, egli trova motivo di rendere lode al “Signore del cielo e della terra”, perché proprio attraverso questo suo tormento in mezzo agli uomini e alle opposizioni di ogni genere, il Padre trova il modo di farlo conoscere e accettare dai “piccoli”, a cui viene rivelato il mistero del Regno, perché così ha deciso nella sua benevolenza. A questo punto, il fatto che tutto rimanga velato ai sapienti e ai dotti non può impedire la gioia del vangelo perché ai poveri è annunciata la buona novella: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,32). È a questo che Gesù si riferisce quando nella sinagoga di Nazaret comincia a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi” (Lc 4,21). Ed è questo il fatto decisivo della fede nel mondo!

È questa cioè la manifestazione dell’opera di Dio ed è in questo che si compie il miracolo del vangelo: che il Padre riveli il Figlio e che il Figlio riveli il Padre, in modo da far rientrare nella loro orbita di vita quanti si lasciano attrarre dal loro centro gravitazionale. Quando si parla di evangelizzazione in termini di azione pastorale, di organizzazione, di strumenti di comunicazione e si dimentica come e da dove sgorga il fiume d’acqua viva, si rischia di ridurre tutto a pragmatismo e burocraticismo. All’origine di tutto ci sono benevolenza e compiacimento del Padre, lode ed esultanza del Figlio nello Spirito Santo. Stando al vangelo di Luca, da notare che Gesù rende lode al Padre al ritorno dei discepoli dalla prima missione autonoma, e dice a loro queste chiare parole: “Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20).

Evangelizzare non è prova di bravura o manifestazione di potenza, ma parola di vita in Spirito e verità: farsi strumenti dell’opera del Padre in Cristo. E non è un caso che nel vangelo di Giovanni, subito dopo l’ingresso a Gerusalemme, Gesù parli del giudizio del mondo e del principe di questo mondo che sarà gettato fuori, per poi aggiungere: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,21). È un vero e proprio dramma che ci coinvolge. E quando dice agli stanchi e affaticati di andare a lui per trovare ristoro, non è qualcosa di consolatorio o di resa alla rassegnazione, ma è sollecitazione a lottare con lui per essere liberati dal giogo delle prescrizioni della Legge di cui è simbolo il sabato. Anche lui per la verità ha un giogo che ci dice di prendere sopra di noi, ma ci dice anche che è lo stesso suo giogo, quello che egli sta portando per primo in mitezza e umiltà di cuore come volontà del Padre, ma in libertà e per la liberazione. Ci vuole partecipi di questa lotta e non semplici spettatori occasionali.

È la stessa lotta che ci prospetta san Paolo tra il dominio della carne e quello dello Spirito che confliggono tra di loro: tra un’esistenza autoreferenziale e un’esistenza aperta agli altri alla maniera di Cristo e secondo il suo Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi e non possiamo lasciarlo intristire o inaridire. Quanto in realtà ci ispiriamo e ci rifacciamo allo Spirito di Cristo che abita in noi, se questo non è solo un modo di dire? E questo non solo sul piano individuale ma in senso ecclesiale e come mentalità d’insieme: non saremmo forse ricaduti sotto il dominio dell’uomo fatto di carne e sotto il giogo della legge che portano alla morte, mentre bisognerebbe far morire le opere del corpo mediante lo Spirito, per dare la vita anche ai nostri corpi mortali?

Certo, se nella formazione delle coscienze fosse stata messa al centro la vita secondo lo Spirito, anche per un minimo rispetto all’insistenza sulla vita secondo la carne e il corpo, lo stile di vita dei cristiani sarebbe ben diverso. Ma anche in uno stato di cose che lascia a desiderare ed esige ulteriore maturazione, rimane il fatto che un Padre, Signore del cielo e della terra, rivela ai piccoli, agli invisibili, ai poveri, agli ultimi “i misteri del regno di Dio” (Lc 8,10, cfr. Mat 13,11). E da questo non si può prescindere come motivo di speranza per il mondo, ma neanche quando siamo chiamati a prestare la nostra collaborazione nel campo di Dio, magari come “servi inutili” (Lc 17,10).

Quando Paolo rimprovera ai Corinzi di essere ancora carnali e di comportarsi in maniera tutta umana, perché dicono di essere di questo o di quel partito, ristabilisce così i giusti equilibri e ci riporta alla sorgente di ogni azione evangelizzatrice: “Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere… Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio” (1Cor 3,5-9). Forse dovremmo ripensare la chiesa dentro il “vangelo di Dio” (Mc 1,14), invece di continuare a pensare il vangelo dentro la chiesa. Sappiamo bene come Gesù pensava se stesso in relazione al Padre, come sua “irradiazione”! (Eb 1,3). (ABS)


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