21 giugno 2020 - XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Marc Chagall: Il profeta Geremia (1968)

PRIMA LETTURA (Geremia 20,10-13)

Sentivo la calunnia di molti:
«Terrore all’intorno!
Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta:
«Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;
arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,
che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,
lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero
dalle mani dei malfattori.

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 68)

Rit. Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.

Per te io sopporto l’insulto
e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.

Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza.

Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.

SECONDA LETTURA (Romani 5,12-15)

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.

Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.

 

VANGELO (Matteo 10,26-33)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:

«Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.

E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!

Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

 

In altre  parole…


Dopo le due appendici liturgiche al tempo pasquale - la SS.Trinità e il Corpus Domini - rientriamo nel cosiddetto “Tempo ordinario”, tutt’altro che secondario. Se nella sequela pasquale ci è stato dato di aprire gli occhi e vedere con la fede il Signore Risorto, niente è più come prima: siamo lasciati liberi al nostro cammino di discepoli divenuti credenti come creature nuove, secondo una vita teologale che ci mette in comunione col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo. E allo stesso tempo entriamo in comunione tra noi come Popolo di Dio nel mondo, qualcosa di cui tener conto e da valorizzare come dono. È la nostra condizione di “cristiani”, ed è il tempo della chiesa che va vissuto con uno sguardo nuovo al di là di ogni facile retorica: “Così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). È l’esistenza cristiana che ci chiama in causa non più come semplici beneficiari, ma in prima persona e con coscienza ecclesiale: come profeti!.

Il primo impatto a cui siamo esposti è quello della prova, delle ostilità, della “persecuzione” da intendere nel senso dell’ultima delle beatitudini. Diciamo pure della lotta contro gli oppositori, contro quelli che possono uccidere il corpo e quindi contro la morte, l’ultimo nemico da sconfiggere. È una dimensione intrinseca della sequela di Cristo prima che insieme di momenti particolari. Quando si dice che Gesù si offre “liberamente alla sua passione” è a tutta la sua vita che bisogna pensare e non solo ad episodi particolari: vita fatta di ostilità, di tranelli, di attacchi, di minacce, di intimidazioni, di inimicizia: quel “muro di separazione che era frammezzo”, e che egli ha abbattuto “per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia“ (Ef 2,14-16)

Il profeta Geremia ne è una prefigurazione viva, tant’è che guardare a lui -  come ci aiuta a fare anche l’immagine di Chagall - è come guardare al Cristo stesso tra le insidie dei suoi nemici, segno di contraddizione, in quanto egli “proferisce le parole di Dio” (Gv 3,34), dovendo però  aggiungere: “Per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio” (Gv 8,47), Mentre ecco come si presenta Geremia: “Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!»” (20,8-9).

Se Gesù è venuto a rendere testimonianza alla verità, come ha dichiarato davanti a Pilato, sa benissimo che questa missione non è affatto indolore, tant’è che esplicita così la beatitudine dei perseguitati per causa della giustizia: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi” (Mt 5,11-12). E Geremia replica: “Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!». Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (20,9).

Quello che più conta nella sua testimonianza non è tanto la pazienza, la resistenza nei confronti dei suoi amici/nemici, quanto piuttosto la perseveranza e la determinazione nel tenere fede alla Parola del Signore da proclamare “opportune et importune”, come del resto dovrà fare lo sesso Paolo che si sente dire: “Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo” (At 26,14). Quando egli in 2Timoteo 2,9 parla di un suo vangelo, aggiunge: “A causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata”! Geremia in questo senso è l’icona del dramma interiore ed esterno di chi porta la Parola di Dio, quando questa è passione, tormento e fuoco ardente che brucia dentro senza poterlo contenere.

E forse quando Gesù dice di essere venuto a portare sulla terra il fuoco che vorrebbe fosse già acceso (cfr. Lc 12,49), non è da escludere che possa riferirsi al fuoco della Parola. Il profeta Malachia, parlando del giorno della venuta del messia dice che “Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai” (3,2), mentre Giovanni Battista ci avverte che “egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco” (Mt 3,11). Il segreto che Geremia ci rivela è che riesce a farcela perché il Signore è al suo fianco come un prode valoroso e perché ha affidato a lui la sua causa.

Non possiamo non interrogarci se questa Parola di Dio, tornata in auge nel nostro linguaggio, sia anche qualcosa di scottante e di compromettente per la sua intrinseca verità o non sia invece edulcorata, depotenziata, disinnescata, fino a diventare esercizio spirituale o mentale e non più potenza di Dio per la salvezza di chi crede. Tanto da attirarci il rimprovero che Gesù rivolgeva ai Giudei: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita” (Gv 5,39-40). A concentrare su di lui tutte le ostilità, prima ancora di quello che egli diceva era il fatto di dirlo con autorità come Parola di Dio, perché, affermava, “come mi ha insegnato il Padre, così io parlo” (Gv 8,28). È qui il salto di qualità e il vero scandalo!

E se Geremia è prefigurazione di “colui che Dio ha mandato” (Gv 3,34), questi a sua volta si proietta su quelli che ha chiamato per inviarli come suoi apostoli, per continuare nel tempo e nel mondo la sua missione profetica. E quando nel brano del vangelo odierno si esorta a non aver paura degli uomini o di quanti possono uccidere il corpo, non è un discorso di esortazione e di incoraggiamento generico, ma è quanto è richiesto agli apostoli in risposta alla loro missione. Siamo in pieno “discorso missionario” con le dovute istruzioni su cosa fare ma anche con i necessari avvertimenti del caso, come quando dice loro: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” e li invita a guardarsi dagli uomini, pronti tutti a portarli in tribunale o a flagellarli nelle sinagoghe.

Essi dunque non devono avere paura di niente e di nessuno, ma devono rendere testimonianza così come lo Spirito del Padre dà loro di parlare, sapendo che “un discepolo non è da più del maestro”, ed è esposto alla stessa sorte di lui. Motivo di forza è il fatto che tutto alla fine sarà chiaro, mentre quello che ci viene detto e ci risuona dentro deve essere predicato sui tetti senza timore, perché altrimenti potrebbero gridare le pietre (cfr. Lc 19,40). Anche se chi ascolta ha potere di uccidere il corpo, ma non quello di far tacere l’anima. E questo perché – ecco tornare Geremia che confida nel Signore – il Padre si prende cura di noi come e più di quanto non faccia per i passeri del cielo, a cui siamo invitati a guardare (cfr. Mt 6,26).

Riconoscere o rinnegare lui davanti agli uomini: questo in ultima analisi è il problema ed è qui che ci giochiamo l’essere riconosciuti o meno da lui davanti al Padre. Le varie vicissitudini a cui andiamo incontro come discepoli sono occasione di prova e di grazia, di solidarietà tra cielo e terra, come quando chiediamo al Padre di non “indurci in tentazione”, di non mancare di fede e staccarci da lui come tralci che non portano frutto. E quando Gesù ci dice di non temere coloro che possono uccidere il corpo ma non l’anima, evidentemente ci invita a guardare a lui e alla sua morte, come al seme che muore per portare frutto o come alla vite che viene potata per portare più frutto, fino a poter dire con san Paolo che “laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). E questo perché “la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.

E se la morte è entrata nel mondo col peccato di un solo uomo con la trasgressione di Adamo, quest’uomo però non è la parola definitiva:  è solo  la figura di colui che doveva venire  per togliere il peccato del mondo e così vincere l’ultimo nemico che è la morte (cfr.1Cor 15,26):  “Perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (Sap 1,13), “ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,24). Diciamo che è un grave incidente di percorso, che però non compromette il disegno originario di salvezza che rimane possibile e accessibile!

Siamo davanti al “mistero della redenzione” sul quale sorvoliamo troppo facilmente, come se i giochi fossero tutti fatti sopra le nostre teste e noi non fossimo minimamente coinvolti in questo perpetuo dramma, nel quale “il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”. (1Cor 15,45). Ne siamo coinvolti non soltanto perché lo viviamo sulla nostra pelle, ma anche perché dobbiamo farne prendere coscienza al mondo con l’annuncio del vangelo, proclamazione dell’opera del Signore.

Pur deprecando secolarizzazione e affini, non avremmo noi per primi secolarizzato troppo questo mistero, magari in reazione ad una altrettanto pericolosa spiritualizzazione? Un modo come un altro di tradire il Cristo Redentore. Siamo purtroppo indotti a pensare il “mistero della redenzione” o tutto fuori della storia o tutto dentro di essa, a nostro uso e consumo! Il tormento e il lamento di Geremia non abitano più una chiesa troppo piena e sicura di sé! Una chiesa profetica è tutt’altro che trionfalistica, se si fa discepola di chi afferma: “Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13:33b) (ABS)


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