10 maggio 2020 -  V DOMENICA DI PASQUA (ANNO A)

 

 

Nicodemo Ferrucci: Ultima Cena (1631)

 

 

PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 6,1-7)

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove.

Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».

Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.

E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 32)

Rit. Il tuo amore, Signore, sia su di noi: in te speriamo.

 

Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Lodate il Signore con la cetra,
con l’arpa a dieci corde a lui cantate.

Perché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

 

 

SECONDA LETTURA (1 Pietro 2,4-9)

 

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».

Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo.

Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

 

 

VANGELO (Giovanni 14,1-12)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».

Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».

Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.

Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.

In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

 

 

In altre parole…

 

Questa originale “Ultima cena” di Nicodemo Ferrucci (si trova in Santa Trinità a Firenze) sta a ricordarci una cosa: che queste parole di Gesù sono il prolungamento del mandato a fare memoria di lui e a lavarsi i piedi gli uni gli altri. E sono pronunciate dopo l’annuncio del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Petro, che aveva chiesto: “Signore, dove vai?”. Verrebbe da dire che come in Matteo c’è il “Discorso della montagna”, in Giovanni abbiamo il “Discorso del cenacolo”. In linea più generale, si potrebbe anche dire che mentre nei vangeli sinottici si documenta la preparazione dei discepoli alle vicende del Figlio dell’uomo (passione e morte), e quindi alla sequela di Gesù, in Giovanni l’intento è di prepararli alla sua resurrezione e al suo ritorno al Padre. Dopo averli recuperati alla fede in circostanze diverse, essi devono ora ripensare in una luce nuova quanto aveva detto loro, prima di lasciarli.

 

Siamo invitati da Gesù a vivere il tempo dell’assenza e dell’attesa senza turbamenti e con fede, perché un posto per noi c’è sicuramente, preparato da lui stesso, perché egli desidera averci con sé. Pensava infatti di averci detto tutto, ma non aveva messo in conto che non avevamo ancora capito dove stava andando e dove voleva portarci. Ma ancora una volta Tommaso si fa nostro interprete per dire che, non sapendo dove va, ignoriamo anche la via che dice di averci indicato, per esempio quando ci ha detto che egli è la porta delle pecore. Occasione per precisare che lui stesso in persona è questa via e al tempo stesso verità e vita: per assicurarci che tramite lui possiamo anche noi comunicare direttamente col Padre. Quando poco prima aveva invitato ad avere fede in Dio e ad avere fede anche in lui, in fondo voleva far capire che la via di accesso al Padre era per mezzo di lui, e se abbiamo conosciuto lui, conosciamo e vediamo anche il Padre. Quanto è viva e duratura simile consapevolezza nei credenti?

 

A Filippo sembra di aver capito tutto, ma quando chiede di mostrare loro il Padre, deve rendersi conto che non ha capito nulla, o ha capito a modo suo! Ma dà ancora occasione ad ulteriori precisazioni da parte di Gesù: deve prendere atto che conoscere lui equivale a conoscere il Padre, e vedere lui è come vedere il Padre perché – afferma– “io sono nel Padre e il Padre è in me”. Tant’é che le parole che egli dice e le opere che egli compie sono quelle stesse del Padre. Non solo, ma da ora in poi, chi crede in lui è in grado di fare altrettanto, in continuità di vita e di azione: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre (Gv 6,57),… io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). In che percentuale investiamo queste potenzialità di vita, che confiniamo nel nostro universo religioso?

 

Quindi, avere fede in Dio e avere fede anche nel Figlio di Dio non è qualcosa che termina e si esaurisce in rapporto ad essi, ma attraverso i credenti deve diventare partecipazione e prolungamento della loro vita e della loro azione nel mondo, come segno e come strumento. Questo vuol dire che la Chiesa è di suo “sacramento”, non però per se stessa ma per gli uomini (sacramenta sunt propter homines). Evidentemente, il fatto che egli vada al Padre ha una sua ricaduta su di noi, fino a poter dire che “con lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli” (Ef 2,6). E se da un parte “la nostra patria è nei cieli, di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo” (Fil 3,20). Prima di finire come formula liturgica nelle Messe come “attesa della sua venuta”, bisognerebbe avere presente questa realtà profonda della nostra esistenza: sedere con lui nei cieli!

 

Esistenza quindi tra cielo e terra: è ciò di cui vive la chiesa, ed è ciò che ci viene presentato dalla lettera di Pietro, quando ci dice che veniamo “costruiti quali pietre vive come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo”. Tutto questo grazie al fatto di avvicinarsi con la fede – credete in Dio credete anche in me! – al Signore che è il fondamento, la pietra viva, “rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio”. Non possiamo che ripetere le stesse parole di Pietro, per dire che nasce così il Popolo di Dio e per prendere coscienza della sua dignità. L’esistenza cristiana ed ecclesiale non è un fatto anagrafico, di appartenenza, di confessione religiosa, ma è vita ed esperienza teologale, obbedienza alla Parola.

 

Tutto questo noi l’abbiamo imparato dal Concilio, quando parliamo di Popolo messianico, sacerdotale, profetico: “popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”. Bisognerebbe però che queste parole si inverassero in una coscienza di chiesa, tempio e casa di Dio nel suo stesso modo di essere prima ancora che in luoghi di culto o santuari su questo o su quel monte. Ma è chiaro che questa presa di coscienza deve avvenire dentro di noi e tra di noi, proprio attraverso quanto le Scritture ci insegnano: non dobbiamo aspettarci il via libera da altri o dal di fuori. Siamo o non siamo “pietre vive”? E se il Signore è la pietra viva scelta da Dio in quanto Risorto, non dobbiamo sentirci risorti e liberi con lui?

 

A questo proposito, tutta la vicenda e le polemiche sulle chiese chiuse in questo periodo ci hanno fatto toccare con mano la qualità della nostra fede, che sembra non esserci più se manca di spazi sacri, un vuoto da colmare, sia personalmente che comunitariamente, come Popolo di Dio che deve riscoprirsi sacerdotale in se stesso. Abbiamo se non altro una indicazione di marcia e di azione per il domani, appunto per interiorizzarla senza interiorismi. È chiaro che la nuova base di partenza sarà questa, anche per tornare nelle chiese con spirito rinnovato. Con tutto quello che si può dire di bene per messe e celebrazioni via cavo o via Web e social, non si può negare che non si è fatto altro che trasferire nelle case la ritualità liturgica, ma siamo ben lontani da una vera e propria chiesa domestica.

 

È invece sul piano di una comunicazione diretta e aperta che bisogna imparare a muoversi, sia dentro le chiese che altrove, per creare relazioni umane e di fede “in Cristo” – come ripete di continuo san Paolo -, che è poi quanto ci fa essere chiesa di Dio. Se vogliamo parlare di “chiesa domestica” non è per ragioni di ripiego e di circostanza, in seguito alle esperienze di questi giorni, ma è per un ritorno alle origini della chiesa primitiva, come ci testimonia il passo degli Atti degli Apostoli, che fotografa una comunità alle prese con i primi conflitti interni. Il fatto che aumentare il numero dei discepoli provochi crisi di crescita, da una parte induce a prendere provvedimenti e a darsi una organizzazione, dall’altra insegna come intervenire per risolvere gli inevitabili conflitti.

 

Man mano che nella storia la comunità cristiana aumenta, i problemi si moltiplicano e sarà sempre più necessario darsi delle regole e affidarsi alle leggi, creando istituzioni, ma non si deve dimenticare che non è questa la soluzione: la legge infatti ci rende coscienti del peccato ma non ce ne libera (cfr. Rm 5,20; 7,7). C’è altro da fare: intanto c’è il gruppo dei Dodici che convoca l’assemblea dei discepoli per una presa di coscienza comune e assunzione di responsabilità. Tanto è vero che proprio ai discepoli è demandato poi il compito di una scelta di persone che presiedano alla mensa per prevenire trattamenti discriminatori per ragioni di appartenenza.

 

Ma c’è anche il fatto significativo che la designazione dei sette uomini (di donne non se ne parla ancora!) sia fatta con discernimento e che questi siano “di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza”. Vuol dire che da parte dei Dodici si riconosceva ai discepoli tutti – e quindi uomini e donne - la facoltà di scelta, e poi su questa base essi avrebbero affidato l’incarico. Cosa che avviene quando gli apostoli, “dopo aver pregato, imposero loro le mani”. Abbiamo dunque questi apostoli, che certamente non vogliono tirarsi fuori dai conflitti e lavarsene le mani, ma se ne fanno carico nella piena corresponsabilità. E il fatto più decisivo è il ruolo che essi si riconoscono e che vogliono salvaguardare: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola”, che sono elementi costitutivi della vita della comunità. La Parola dunque si diffondeva e grazie a questo aumentava il numero dei discepoli che aderivano alla fede. Che è quanto dovrebbe ripetersi e rinnovarsi di continuo, per dare vita a vere comunità di fratelli, perché questo vuol dire prima di tutto “chiesa domestica”, altrimenti ci faremmo definire ancora una volta dai luoghi.

 

È davvero sorprendente come il quadro descritto in queste poche parole delinei un modello di chiesa reale tutt’altro che coreografico e mieloso, ma carico di vita e di verità. (ABS)


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