5 aprile 2020 -DOMENICA DELLE PALME (ANNO A)

Commemorazione dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme


 

Giotto: Ingresso a Gerusalemme (1305)

 

ANTIFONA

 

Osanna al Figlio di Davide.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore:
è il Re d'Israele.
Osanna nell'alto dei cieli. (Mt 21,9)



VANGELO (Matteo 21,1-11)

Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma”».

I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».

Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea».



In altre parole…

La prima cosa da fare è prendere in mano il vangelo e ascoltare col cuore quanto possiamo leggere in Matteo 26,14- 27,66, la “Passione”:  il figlio  di Davide che viene nel nome del Signore, il profeta Gesù da Nazaret di Galilea arrestato, condannato a morte, sottoposto a torture indicibili e umiliazioni, costretto a portare la sua stessa croce e infine crocifisso. Prima di ogni altra elevazione mistica, considerazione spirituale, sentimento devozionale, esemplificazione morale e interpretazione teologica, rispecchiamoci nella inaudita vicenda di quest’uomo dentro questa nostra umanità.

È l’icona della condizione umana più bassa e più vera, il concentrato dell’abiezione e della violenza morale e fisica: è l’incarnazione massima del “peccato”, di quanto cioè si oppone al Nome santo di Dio. Infatti, ”colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2Cor 5,21).  Nella sua vicenda ci siamo tutti noi, o come crocifissi o come crocifissori. È il mistero della kenosi, dell’abbassamento, della sepoltura: morì e fu sepolto! E per di più, tutto avviene a Gerusalemme, ”la città santa” per eccellenza, la madre di tutte le nazioni,  il teatro in cui si consuma il dramma di Gesù. Tutta la sua storia si intreccia con la sorte di questa “città del gran Re” (Mt 5,35), e varrebbe la pena fare attenzione a questo legame inscindibile, ad evitare la visione di un Gesù disincarnato e avulso dal suo ambiente terreno e umano, o disumano che sia.

Egli per primo sa benissimo che là si consuma il suo destino, “perché non può essere che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13,33). Tutto il suo cammino tra la gente è scandito dalla consapevolezza di salire a Gerusalemme “e soffrir molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed esser ucciso, e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16,21) Sapeva bene a cosa andava incontro, e in Lc 19,41-42 leggiamo: “Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi”.

Queste amare parole di totale delusione e resa Gesù le pronuncia, piangendo, subito dopo il suo ingresso a Gerusalemme, che perciò è un passaggio significativo a cui guardare con partecipazione. Ne è prova il fatto che tutti e quattro i vangeli ne fanno memoria. Giovanni, ad esempio, lo ricollega alla resurrezione di Lazzaro, che da una parte aveva suscitato entusiasmo e fede tra quella folla che poi lo accoglie osannante, e dall’altra accentua l’ostilità dei Farisei che affrettano i tempi dell’uccisione. Momenti senz’altro non facili e non tranquilli, ma carichi di tensione, di speranza e di violenza, che vanno vissuti cercando di immedesimarci con i sentimenti di Gesù, unico a rendersi conto a cosa andava incontro, mentre tutti gli altri esultavano ed osannavano, cantando vittoria.

Stando ai vangeli sinottici, appunto Matteo con Marco e Luca, è Gesù stesso a prendere l’iniziativa di un arrivo a Gerusalemme a sfondo messianico, quasi a rappresentare quanto aveva detto il profeta Zaccaria 9,9ss: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma”. È un richiamo preciso e correttivo rispetto al sentimento e alle attese della folla e degli stessi discepoli, che pure erano stati catechizzati sulla sorte del Figlio dell’uomo. Ma per loro il messia era il trionfatore!  Per la verità, egli lascia dire e lascia fare, senza scomporsi, anche se poco dopo piangerà su quella città, per dirci quello che ripetiamo nella preghiera eucaristica: “Si consegnò volontariamente alla morte”. Tanto è vero che altre volte si era sottratto a tentativi del genere, ma è ormai la sua ora.

 

Per testimoniare questa sua libertà e determinazione manda i due discepoli a cercare l’asina che gli serviva, suggerendo addirittura cosa rispondere a chi avesse chiesto ragione di questo comportamento: ne aveva bisogno lui per un po’, e sappiamo perché. Quasi a dirci che accettava quanto gli stava succedendo attorno, ben sapendo che questo non avrebbe modificato il corso delle cose, anzi lo avrebbe accelerato. Con quanta consapevolezza e lo possiamo capire da quanto Giovanni dice di lui subito dopo la cacciata dei mercanti dal tempio: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome. Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo” (Gv 2,23-25). La stessa padronanza che più tardi dimostrerà quando, voltatosi verso le donne che lo accompagnavano sul Calvario, dice loro: “Figliuole di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figliuoli” (Lc 23,28).

Forse spesso lascia dire e lascia fare anche noi e rimane indifferente ai nostri osanna e ai nostri addobbi, per invitarci ad entrare in un rapporto vitale e di partecipazione con lui, al di là di manifestazioni e di proclami. Non vuole una fede di massa frutto di entusiasmo collettivo o di assuefazione passiva, una fede bandiera per mobilitazioni varie, una fede di pura devozione sentimentale senza spessore di verità, insomma una fede di riflesso; ma vuole una fede viva come ascolto, obbedienza e servizio, alla stessa maniera in cui egli si rapporta al Padre e con gli uomini a cui è mandato, in intimità e in solidarietà.

Egli fa di tutto per ottenere da ciascuno un rapporto libero e fiducioso nella verità: non solo sentimento od osservanza, ma rapporto maturo e duraturo di amicizia. Non impedisce comunque alla folla di proclamarlo messia e accetta anche espressioni di fede che lasciano a desiderare, ma non rinuncia a portare tutti ad una intesa personale con lui.  Sa benissimo che di lì a poco quella folla gli si rivolgerà contro e che gli sessi discepoli lo lasceranno completamente solo. Forse gli basta che ad aspettarlo ci siano delle pie donne, che ci sia una Veronica, che ci sia il buon ladrone, il centurione e Giovanni con sua madre Maria. Così egli potrà continuare ad avere un aggancio di fede con l’umanità, per essere presente nel mondo attraverso di loro. Così nasce la chiesa ed è questa la sua ragion d’essere nel mondo come comunità di fede, prima che come agenzia religiosa!

Gesù è esigente ma non intransigente, e non si spaccia come mercante di soluzioni e risposte preconfezionate e definitive: non impedisce, anzi a volte è lui stesso a volerlo, che ci si interroghi pubblicamente e si discuta sulla sua persona, fino a creare agitazione intorno: “Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: Chi è costui. E la folla rispondeva: Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea”.

Quello che celebriamo come “ingresso di Gesù a Gerusalemme” può significare dunque anche questo: il fatto che manchi il tradizionale rito esteriore può darci modo di interrogarci e confrontarci sulla nostra sequela di Cristo, per verificare, per quanto possibile, lo stato della fede sul piano personale ma soprattutto nelle sue espressioni ecclesiali, tutt’altro che omogenee anche se omologate. Abbiamo cercato di intuire con quale sentimento Gesù abbia voluto e vissuto la sua entrata in Gerusalemme;  possiamo chiederci con quale sentimento lo accogliamo e lo accompagniamo noi in questo suo cammino di passione e di morte: se viviamo questi eventi come qualcosa di separato e di provvisorio nella loro ritualità, o come qualcosa che entra in simbiosi con la nostra esistenza cristiana, abitata dal mistero di Cristo che rivive in noi.

Quando finirà l’era in cui essere cristiani è insieme di osservanze, di precetti, di pratiche, di tradizioni, di ricorrenze ecc…  e lo diventeremo invece perché Cristo abita per mezzo della fede nei nostri cuori? (Ef 3,17) Perché contentarsi di derivati o sottoprodotti?  Se questa fede non possiamo celebrarla insieme nella forma, vuol dire che non possiamo viverla nella sostanza? Anzi! (ABS)


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