Koinonia Gennaio 2022


Una figura di intellettuale da ricordare*

 

DIALOGO CON PIETRO TOESCA

 

Era ormai alla fine. Dal suo letto d’ospedale, doveva giaceva ormai da tempo, guardava i visitatori con un unico occhio aperto, seminascosto tra capelli e barba, che mandava una luce inquietante: nello stesso tempo guardava e si faceva guardare, chiedeva e dava risposte, insomma tirava in ballo, sollecitava una partecipazione, non esonerava nessuno dall’assumere una posizione personale rispetto al morente e rispetto alla morte in generale. Sembrava che il corpo, così gravemente debilitato, non riuscisse a imprigionare uno spirito fin troppo allenato ad esercitare la libertà, ancora nel pieno delle sue funzioni, vigile e imprevedibile e che, attraverso quell’occhio, gli lasciasse aperto uno spiraglio.

Nell’impossibilità di sottrarmi alla richiesta che quell’unico occhio mi rivolgeva, troppo esposta, anche a causa della ristrettezza dello spazio, mi trovai costretta a uscire allo scoperto, a dire qualcosa. Nello stesso tempo, però, mi mancava la forza di parlare e avrei voluto ancora una volta, chiedere a lui di suggerirmi le parole. Il pensiero non poteva non andare al Fedone, alla morte di Socrate, allo sgomento di Simmia e Cebete: “Proprio come se s’avesse paura, o Socrate, vedi di persuaderci e di farci animo…” (Fedone, 77 e) ripetevo tra me.

Non fu Toesca a farci conoscere Platone al liceo, perché arrivò nella nostra classe (II D, Liceo Virgilio, anno scolastico 1957-58) solo in seconda liceo e quindi riprese il programma con l’età moderna, eppure, ogni volta che ho letto, in veste di insegnante, quella memorabile pagina, ho pensato a lui e mi sono immedesimata in uno degli allievi. “Dove l’andremo a prendere, o Socrate, un buon incantatore di paure come questa, se tu ci abbandoni?” (Fedone, 78 a). Come faremo non tanto a tirare avanti tra le difficoltà quotidiane, quanto a filosofare, a cercare il senso del nostro percorso: chi ci suggerirà le mète, chi ci additerà la via?

Nella matassa aggrovigliata che costituisce la vita, Toesca sapeva infatti sempre trovare e offrire un bandolo, per tentare di districarla e, come Socrate, non lo faceva in modo distaccato e astratto, ma coinvolgendo in prima persona i suoi interlocutori. “Già da tempo sentivo che , con Socrate presente, il discorso non sarebbe stato più sui ragazzi, ma su noi stessi” (Lachete, 188 b). In fondo tutti i numerosi e diversi temi affrontati nei suoi libri: da Pascal a Platone, da Cervantes a Shakespeare, Toesca ha sempre individuato un pensiero essenziale, basilare, improcrastinabile, per dare alla vita un orientamento, al viaggio una rotta. Ebbene, in quella stanzetta d’ospedale, mi ritrovai a pensare: come farò, da sola, a trovare il bandolo, a individuare una via d’uscita dal dedalo della vita?

In questo stato d’animo, mi uscì dalle labbra una domanda che solo apparentemente riguardava lui, ma che, in verità, proveniva dal profondo di me stessa: “Come spieghi, Pietro, che da due genitori filosofi come voi, siano nati quattro figli tutti artisti?”. In effetti Maria, Alexandra, Francesco e Chantal sono tutti, ciascuno nel suo campo, impegnati in attività che si eseguono con le mani e con la fantasia, più che con le parole e il ragionamento. La risposta arrivò in un sussurro, ma prontissima: “Dipende dal modo di considerare la filosofia”.

Sono state, credo, le ultime parole che ho udito da lui e, come tutte le innumerevoli udite prima, nell’offrire una risposta, aprivano mille domande. Cosa ha voluto dire, Toesca, con quella frase? Che esiste un modo di fare filosofia che favorisce l’attività creativa e uno che la imbriglia? E qual’è questa filosofia liberante, che incoraggia la non-filosofia, che esonera dal ragionare? Qual’è questa filosofia che insegna a pensare in modo creativo e non coercitivo, che anziché difendere il “tertium non datur”, aiuta il tertium ad affermarsi?

La domanda mi toccava da vicino perché, fin dall’adolescenza, avevo sempre vissuto il dramma dell’alternativa drastica, dell’aut-aut tra le due mie potenziali “vocazioni”: dipingere o studiare filosofia, lasciarsi prendere dai colori o sottoporre al rigore della ragione ogni esperienza. Ci sono stati momenti nei quali questa scelta mi è apparsa indifferibile e nello stesso tempo impraticabile: comunque avessi scelto avrei amputato una parte essenziale di me, sarei rimasta monca. Immancabilmente, sono uscita dall’empasse optando per la filosofia, intensificando l’impegno allo studio e riponendo i colori nel cassetto.

Indubbiamente il problema non si pone in modo asettico, puramente teorico: esso si radica su un terreno psicologico complesso, un tessuto di inibizioni, competizioni, frustrazioni ecc. Messe provvisoriamente da parte queste implicazioni, è tuttavia ammissibile un quesito secco: qual è il rapporto tra un filosofare “verbale”, che si serve di concetti, e una ricerca che si vale di intuizioni e di immagini?

Un suggerimento viene, ancora una volta, da Socrate, il quale, sempre nel Fedone, racconta di essere stato più volte visitato da un sogno che lo invitava a comporre musica e di aver sempre interpretato questo comando come un’esortazione a intensificare la ricerca filosofica che altro non era che una forma elevatissima di musica. “Ma ora, dopo che ci fu il giudizio, dice agli allievi raccolti intorno a lui, …mi parve fosse più sicuro e tranquillo non partirmi di qui se non prima di essermi tolto ogni scrupolo componendo poesie e obbedendo al sogno…” (Fedone, 61 a). Non, dunque, la musica come metafora della filosofia, ma la filosofia come espressione così vasta e onnicomprensiva dell’umano, da contenere anche la musica e quindi, perché no, la pittura, la danza, e qualunque altra forma di attività patrocinata dalle Muse.

Scegliere di esprimersi “in musica” non significa rifuggire dal ragionamento, mette in guardia sempre Platone nel Fedone, anzi, bisogna fare attenzione a non cadere nel peccato di misologia “perché non può capitare a uno peggior guaio di questo, che gli vengano in odio i ragionamenti. Misologia e misantropia nascono allo stesso modo…” (Fedone, 89 d).

Riflettendo su questi argomenti, mi è tornata alla mente una lezione mirabile sempre di Toesca sul rapporto che intercorre tra homo sapiens e homo faber. Non ricordo, purtroppo, né il luogo, né l’anno, né il riferimento storico nel quale questa lezione si svolse. Mi ricordo, però, l’emozione che ne trassi e mi torna anche alla mente che, sinteticamente, aveva sostenuto che l’homo sapiens non può esimersi dall’essere anche faber così come il faber non può non riversare, nella sua azione, anche il suo essere sapiens. L’operaio che, alla catena di montaggio, è costretto a compiere gesti ripetitivi, senza conoscere il progetto che il suo lavoro, contribuisce a realizzare, rappresenta la lacerazione, alienante e disumana, dell’homo faber dall’homo sapiens. Toesca sosteneva che ogni esperienza umana, proprio perché umana, è tale se esprimibile in parole, così come ogni discorso ha un significato se si riferisce ad un’esperienza di vita.

Quello era anche lo spirito della sua critica alla pedagogia imperante nella scuola, una pedagogia che contempla la scissione drastica tra teoria (requisito dei licei, riservati ai futuri dirigenti) e prassi (propinata, come cultura di serie B, ai futuri artigiani o operai). Nella Pancole University (come ironicamente intitolò la sua casa-scuola), si insegnava a “fare comprendendo” e a “comprendere facendo”. In quella sede, il cervello e le mani operavano sempre contestualmente, avevano sempre bisogno l’uno delle altre. Da questa collaborazione nascevano proposte, idee, suggerimenti applicabili agli ambiti più vari: tutte espressioni dell’intelligenza umana, allo stesso livello di dignità.

Una conferma di questa capacità liberatoria della filosofia professata da Toesca, mi venne dalle parole pronunciate dal sacerdote che celebrò la Messa in occasione del suo funerale a San Gimignano. Ricordando la straordinaria figura di Maestro, lodò il fatto che fosse stato capace di individuare in ogni allievo il suo talento e di favorire in ognuno il suo percorso. Quel giorno la Toscana era coperta di un candido mantello di neve: lo spettacolo di quella campagna punteggiata di cipressi era così straordinario che non potei resistere dal trarne un acquerello: fu il primo di una lunga serie.

 

Anna Marina Storoni Piazza

 

 

 

*Nato a Torino il 26 gennaio 1927, Pietro M. Toesca, fu allievo del filosofo Carlo Mazzantini. Ha insegnato filosofia teoretica ed epistemologia, dopo essersi perfezionato alla Sorbona di Parigi, nell’Università di Roma e Parma. Alla fine degli anni Settanta lasciò liberamente l’insegnamento accademico e fondò ‘Eupolis’, una rivista che ha lanciato in Italia l’ecologia territoriale. Il periodico, che reca come sottotitolo dal 1990 ‘La città storica come progetto’, ha proposto continue riflessioni teoriche sul progetto della città storica come nuovo modello di sviluppo. Per Toesca occorre recuperare ‘’le microcittà esemplari, dove la loro struttura è fatta per contenere la vita di una comunità”. Toesca è stato anche l’ideatore dell’Università del Territorio, con sede a San Gimignano, della Rete delle piccole città storiche dell’Italia centrale e della casa editrice Nuovi Quaderni. È morto a Roma il 30 dicembre del 2004.

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