Koinonia Novembre-Dicembre 2021


Mugello domenicano e savonaroliano

 

LA “CITTADELLA SPIRITUALE” DOMENICANA A BORGO SAN LORENZO

 

Nel giugno del 1503, l’arcivescovo di Firenze, Rinaldo Orsini, nomina messer Damiano Manti da Imola pievano a Borgo San Lorenzo, in sostituzione di prete Francesco Malegonnelle annegato nell’Arno qualche giorno prima. È proprio a Messer Damiano che si deve la fondazione del Monastero domenicano femminile di Santa Caterina.

Il nuovo pievano non era una figura qualsiasi: avendo conseguito a Pisa il titolo di notaio, era stato a lungo ai servigi della famiglia Soderini e in contatto coi Medici. Oltretutto, sembra proprio che prete Damiano avesse delle idee vicine a quelle di fra’ Girolamo Savonarola che solo qualche anno prima era salito sul patibolo dopo aver predicato dal pulpito della chiesa di San Marco, denunciando la corruzione dei costumi a Firenze e aver governato la città con una repubblica di impronta teocratica basata sul rispetto del più severo e intransigente moralismo.

Arrivato a Borgo, messer Damiano trovò molto lavoro da fare: la grande e antica pieve risultò in gravi condizioni, la vita religiosa e morale dei suoi parrocchiani apparve fortemente indebolita. Non era una situazione che potesse essere tollerata da un uomo della tempra di messer Damiano. Grazie al suo carattere deciso e alle sue convinzioni morali, decise di intraprendere una serie di lavori di restauro della pieve e si impegnò a riportare sulla retta via gli abitanti di Borgo.

È in questo contesto che matura nella mente del rigoroso prete Damiano e di alcune pie donne l’idea di fondare a Borgo un monastero di religiose che potessero svolgere il duplice compito di garantire per il futuro le dovute attenzioni nei confronti della pieve e di costituire un baluardo ed una testimonianza di fede per gli abitanti del paese. A questo scopo, il 21 dicembre 1515, si recò personalmente, accompagnato da un gruppo di giovani borghigiane desiderose di vestire l’abito monastico, in udienza da papa Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio del Magnifico Lorenzo) che in quei giorni soggiornava presso la villa di Cafaggiolo, per chiedere l’autorizzazione ad erigere presso la pieve borghigiana un monastero femminile sotto la regola del Terz’Ordine della Penitenza d San Domenico, intitolato a San Lorenzo martire. Il pontefice approvò la richiesta e l’autorizzazione scritta giunse a Borgo San Lorenzo il 29 gennaio 1516. La scelta di fondare un monastero che appartenesse all’ordine domenicano femminile non fu certamente casuale: con tutta probabilità, si affidò allo stesso ordine a cui era appartenuto fra’ Girolamo Savonarola e che, almeno in alcune sue componenti, ancora ne seguiva il pensiero e ne coltivava l’insegnamento e la memoria, verso i quali, è ormai assodato, lo stesso pievano Manti non era insensibile. Inoltre si era convinto che solo una comunità femminile potesse, per il futuro, garantire alla chiesa plebana la cura e l’attenzione di cui necessitava. Avuto il permesso papale, il Manti dovette affrontare due problemi: trovare gli ambienti nei quali sistemare le prime suore e dotare la neonata comunità di rendite sufficienti alla loro vita claustrale. Nel primo caso, decise di utilizzare gli spazi e gli ambienti eterogenei posti sul lato meridionale della pieve, dove si trovavano abitazioni, locali di servizio della casa del parroco e la sede di una confraternita laicale, quella dell’Annunziata: con un’oculata politica di acquisti e cessioni, riuscì a ottenere gli spazi e gli ambienti necessari, proprio accanto alla pieve e alla canonica. Dovendo provvedere in fretta, decise di adattare le strutture architettoniche e gli spazi esistenti, rinunciando a erigere un monastero ex novo, preferendo procedere gradualmente. Nel secondo caso, riuscì a dotare il monastero di rendite e donazioni, anche per mezzo della concessione di indulgenze da parte dei papi, a partire da quella di Leone X con la quale si concedeva l’indulgenza plenaria ai fedeli che avessero visitato la chiesa e fatto una donazione al monastero nel giorno di San Lorenzo. Inoltre, nel 1520, la stessa repubblica fiorentina donò al monastero il fosso del castello di Borgo, nella porzione che confinava coll’orto conventuale, con l’evidente finalità di provvedere le monache di adeguata risorsa idrica. È forse in quell’occasione che l’orto si estese fino al tracciato delle trecentesche mura castellane, i cui merli sono ancora oggi identificabili, malgrado la tamponatura realizzata successivamente, nel tratto prospiciente l’attuale piazza del Mercato.

Nel 1540 il Manti fece testamento, col quale stabiliva che tutti i suoi beni mobili (ad eccezione degli effetti personali), e in particolare i suoi libri,  fossero assegnati al monastero di San Lorenzo. Il progetto del pievano si compì nel 1543 (poco prima di morire) quando ottenne da papa Paolo III che tutte le, peraltro ingenti, rendite della pieve di San Lorenzo fossero assegnate alle monache.

Nel 1518 le domenicane di Borgo, che appartenevano al terz’ordine, furono autorizzate a passare al secondo ordine, con la pronuncia dei voti solenni, anche se solo nel 1659 abbandonarono il velo bianco delle terziarie per quello nero che qualifica le monache professe.

Intanto, la comunità monastica borghigiana assumeva sempre più rilevanza e il pievano Manti, per garantire alla sua pieve una cura anche per il futuro, rafforzava sempre di più i vincoli tra il monastero e la pieve.  Addirittura (fatto decisamente inusuale), nel 1539 ottenne che un “breve” di papa Paolo III concedesse alle monache il diritto di scelta (e di rimozione) del pievano, lasciando all’arcivescovo di Firenze solo il compito di confermarlo. Inizia così un lungo periodo in cui le monache possedettero e governarono la pieve di San Lorenzo, la quale svolse il duplice ruolo di chiesa parrocchiale e monastica. A ulteriore conferma del legame della comunità monastica borghigiana col l’eredità spirituale del savonarola, si ricorda che uno dei primi successori del Manti nella pieve di San Lorenzo fu Agostino Campi da Pontremoli, noto per essere un seguace del frate di San Marco.

I documenti disponibili non ricordano il momento esatto in cui il monastero mutò il proprio titolo da quello originario di San Lorenzo Martire a quello di Santa Caterina da Siena, che compare per la prima volta nel 1624, anche se l’assenza della grande santa senese nel dipinto col Matrimonio Mistico di Santa Caterina d’Alessandria, realizzato, secondo i documenti, per il coro del monastero da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio nel 1564, fa ritenere plausibile che tale cambiamento sia intervenuto in quel lasso di tempo, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento.

Nel frattempo, il numero delle monache, comprese le novizie e le converse, aumentava e la vita all’interno della clausura (che, praticata fin dall’inizio, è stata abbandonata solo nel 1971) si svolgeva secondo i ritmi previsti dalla regola e che alternava la preghiera al lavoro o allo studio, senza dimenticare momenti di svago. Durante tutto il tempo, compreso quello trascorso nel refettorio, era imposta la regola del silenzio, che veniva interrotta solo nei momenti di ricreazione e in occasione dei canti corali. A capo del monastero c’era la priora, alla quale spettava anche la guida del capitolo, vale a dire la riunione di tutte le monache durante il quale si discutevano e decidevano le principali questioni che interessavano la vita monastica. Mentre le monache istruite assumevano il ruolo di coriste, le converse (suore che non avevano pronunciato i voti solenni) si occupavano dei lavori domestici (cucinare, spazzare, lavare, curare l’orto e il giardino ecc.), la sindaca e la camarlinga gestivano l’amministrazione, la sagrestana accudiva gli altari e attendeva alle necessità liturgiche. Inoltre, per amministrare e curare l’ingente patrimonio posseduto dal monastero, le monache si avvalevano della collaborazione di un fattore e di alcuni operai e coi proventi che ne derivavano erano continuamente arricchiti e manutenuti il monastero e la pieve, al cui interno, fra l’altro, ancora oggi molti dei dipinti ricordano la presenza delle domenicane.

La quieta e operosa vita all’interno del monastero conobbe una grave interruzione nel 1808, quando il governo napoleonico della Toscana decise la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei loro patrimoni. Le monache furono allontanate e gli ambienti del monastero furono adibiti ad altri usi quali carcere locale, caserma, fabbrica di salnitro. Qualche anno dopo, a seguito della caduta del regime napoleonico, il monastero rientrò tra quelli ricostituiti, sembra per l’intervento decisivo di suor Reginalda Tosetti presso l’arcivescovo di Firenze.

Ma non era finita, qualche anno dopo, nel 1866/67 intervenne una seconda soppressione, stavolta ad opera del neonato stato italiano: in quell’occasione i beni del monastero furono messi all’asta e solo parzialmente riacquisiti al monastero grazie all’interessamento del fattore Giuseppe Lorini. Anche lo stesso monastero fu messo all’asta per essere comprato da Pier Francesco Rosselli del Turco che lo riconsegnò alle monache le quali, dopo aver rinunciato alla clausura nel 1971, lo hanno definitivamente lasciato da circa dieci anni.

Dal marzo 2019, il monastero, di proprietà della Congregazione delle suore Domenicane dello Spirito Santo, fondata dal frate domenicano beato Pio Alberto del Corona, è affidato alle cure della “Fondazione cittadella di Santa Caterina da Siena”, la quale ha elaborato un vasto progetto di recupero della prestigiosa e importante struttura architettonica, destinandola a finalità culturali e sociali, anche con l’intento di valorizzarne la storia e il suo consistente patrimonio artistico e metterla a disposizione della comunità locale. 

                           

Marco Pinelli

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