Koinonia Novembre-Dicembre 2021


GESÙ IL PROFETA CHE SALVA (I)

 

Parte prima: Scandalizzarsi per comprendere

 

Tutta Gerusalemme “presa da agitazione” accolse il Signore dicendo: “Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea” (Mt 21,10-11). Ma Gesù, come già il Battista, “è più che un profeta”(Mt 11,9) anzi, egli è “veramente il salvatore del mondo”, come diranno “molti samaritani” dopo avere creduto in lui (Gv 4,39-42).

l carattere profetico di Gesù ha al suo centro la promessa di salvare il mondo, ma il mondo non è ancora stato salvato. Anzi, forse mai come ora, dopo duemila anni, il mondo ha bisogno di essere salvato. Ma già nel cristianesimo primitivo, dopo che quel profeta potente in parole e opere era stato crocifisso, dopo l’interminabile ritardo del suo ritorno, la delusione e lo smarrimento erano grandi. Non per questo tuttavia si smise di credere e di trasmettere con una certa forza fino a oggi il suo messaggio di salvezza futura, l’attesa del suo ritorno. Dunque un messaggio dalle radici molto profonde e dagli orizzonti inauditi. Le cose che Gesù diceva erano cose dell’altro mondo, per questo scandalizzavano e continuano a scandalizzare anche noi oggi, avendo il coraggio di accoglierle in tutta la loro nudità e potenza. Anzi, soltanto dopo esserci scandalizzati, non prima, possiamo dire d’averle comprese fino in fondo. Togliendo lo scandalo da quel che abbiamo udito e saputo di Gesù, renderemmo scipito il sale della sua potenza profetica, del tutto scontato quel che egli diceva e che nessuno intorno a lui riusciva a comprendere. Dire che dovremmo essere bravi e buoni trova tutti d’accordo, ma non fa chiarezza di verità, non converte e lascia le cose come stanno. Gesù diceva di non essere “venuto a portare pace sulla terra” ma “divisione” (Lc 12,51). Il Gesù dei vangeli è un pazzo agli occhi del mondo. “Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui “ (Gv 7,5). Erano in “molti”a dire: “È indemoniato ed è fuori di sé, perché state ad ascoltarlo?” (Gv 10,20). Nel Vangelo di Marco è detto esplicitamente che non gli estranei, ma addirittura “i suoi, sentito” quel che si diceva di lui, “uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: ‘È  fuori di sé’” (3,21).

C’è un’affermazione di Karl Barth, nel suo Commento all’Epistola ai Romani, che dice così: “Non è bestemmia, lo scandalo che tutti in un modo o nell’altro riceviamo in Cristo;  bestemmia è l’opinione che si possa fare qualche cosa con lui, dire e ascoltare qualche cosa di lui senza scandalo”. Solo dopo avere preso coscienza di questo si può tentare di comprendere l’annuncio profetico di Gesù, e comprendere anche il motivo vero del suo essere finito in croce. E comprendere soprattutto come pure noi oggi potremmo facilmente fraintendere le cose e diventare simili a coloro che, inclusi gli apostoli, in quei giorni stavano a guardare da lontano e tradivano. Non abita qui forse il motivo per cui decenni di catechismi in tutte le scuole di ogni ordine e grado, con crocifissi appesi ovunque, anche alle spalle dei capi di Stato di turno, abbiano prodotto un livello d’ignoranza e d’indifferenza inaudito riguardo al Cristo e alla sua salvezza? C’è ancora qualcuno che anche soltanto sa cos’è lo specifico della salvezza cristiana e qual è il prezzo che ha pagato e deve ancora pagare Dio per salvare il mondo? L’incredulità e l’indifferenza ormai ovunque evidenti e diffuse vengono da lontano e non sarà facile rimediare.

L’affermazione di Barth prendeva certamente le mosse da una di Kierkegaard che la precedeva:  “Togliete al cristianesimo la coscienza angustiata  e non vi resterà che trasformare le chiese in sale da ballo” (Diario, VII A 192). Parole scritte nel 1847, riflettiamoci! Solo entrando nelle assurdità e nei paradossi evangelici possiamo cogliere il vero carattere profetico di Gesù e della salvezza cristiana, quello che lì per lì non possiamo che rifiutare entrando in crisi, esattamente come a un certo punto entrarono in crisi tutti gli apostoli che, eccetto Giovanni, se la dettero a gambe di fronte alla croce.

Comprendere il Cristo significa entrare nella battaglia della fede, che è continua lotta non solo contro le forze dell’incredulità, ma anche con quelle del così fan tutti e della facilità, che inesorabilmente ci allontanano dal bisogno di Cristo e della sua salvezza. Se non si è un po’ folli e fuori dal mondo, non si può comprendere né accogliere quel che Gesù diceva e faceva. Soprattutto oggi egli sarebbe ancora lì a dirci: “Non capite ancora e non comprendete?” (Mc 8,16-17). E anche: “Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro” (Gv 8,43-44).

Tutto dipende da ciò che ci sta davvero a cuore e che profondamente desideriamo. Continuando a preoccuparci di quisquiglie del tutto mondane e alla nostra portata, finisce per sfuggirci del tutto che egli ci ha promesso le grandiose cose della salvezza: di far risorgere i morti, di rifare nuovi cieli e terra. Egli invitava a scelte impossibili, ad abbandonare tutto, persino la propria vita per seguirlo, solo così potendogli mostrare d’avere a cuore, prima e più di ogni altra cosa al mondo, “il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33).

Comprese tutto questo come pochi Francesco d’Assisi, che si mise alla sequela del Cristo fino a percepire nella carne il dolore dei chiodi e della crocifissione. Egli diventò pazzo agli occhi del mondo perché comprese che prima di lui lo era diventato Dio, in Cristo, per amore nostro e delle creature tutte. Il corpo di Francesco aveva piaghe sanguinanti, egli non solo coglieva lo scandalo della vita di Gesù ma amava con tutte le forze viverlo su di sé per comprendere il Vangelo fino in fondo. Comprendere la profezia di Gesù significa incontrare la potenza nella debolezza, la gioia nel dolore. Se gioiva nel dolore Francesco, non era per diventare anima bella e devota, ma per consolare Dio, che per salvarci ha dovuto abbandonare il suo essere Dio fino a morire nei terribili dolori della crocifissione.

Cristo crocifisso lo si comprende e lo si imita fino in fondo soltanto se si desidera come egli ha desiderato la venuta del Regno. E tuttavia, nel caso di Francesco, esattamente come nel caso di Gesù, nemmeno i suoi fratelli più intimi compresero questo, tanto che anche a Francesco toccò prestissimo la dolorosa esperienza della solitudine e dell’incomprensione dei suoi frati.

 

Ma non fu così anche per tutti i profeti venuti prima di Gesù? “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti prima di voi” (Mt 5,11-12). Il profeta è ogni volta chiamato da Dio affinché parli nel suo nome, ma è un incarico pesante. Certo, c’è tra essi anche chi dice: “Eccomi, manda me!” (Is 6,8), ma il più delle volte il profeta vorrebbe invece evitare quel peso, ben conoscendo il prezzo da pagare, quello del rifiuto, della persecuzione, della morte. Il ruolo del profeta non è istituzionale, come poteva essere in Israele quello del sacerdote o del re, ma un ruolo da vivere ai margini, un ruolo che infastidisce coloro che vivono tranquilli nei luoghi ufficiali delle accademie e del potere. Se volessimo fare dei paragoni, da una parte si ha come riferimento la sapienza, la ragione, il potere politico e religioso, la speculazione filosofica, il sapere,  mentre dall’altra ci sta la profezia, l’incredibile, l’assurdo, l’impossibile promesso da Dio. Da una parte incontriamo i re, i filosofi, i sapienti e gli intelligenti, “quelli che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere i saluti nelle piazze” (Mc 12,38), dall’altra allevatori di pecore, falegnami, pescatori, fabbricatori di tende.

Nel filosofo e nel sapiente incontriamo equilibrio, calma, autocontrollo, gente che conosce bene la differenza che passa tra il possibile e l’impossibile, come funzionano le cose di questo mondo. La loro meta è la  pace spirituale, la ragionevolezza, il metter tutti d’accordo in un equilibrio che tenga nel tempo. Ed è per questo che sono da tutti rispettati e riveriti.

Tutt’altro carattere è invece quello dei profeti d’Israele, di Gesù di Nazaret o di un Paolo di Tarso. Essi sono così presi da quel che sentono e devono annunciare al mondo, che possono in un attimo perdere la pazienza mettendosi a piangere e urlare, persino contro Dio, nel cui nome pure essi parlano e dal quale soltanto aspettano il compiersi delle cose che annunciano, la salvezza per tutti. Mentre i filosofi si cullano nella ferma convinzione che ancora prima degli dèi ci sono la verità e la ragione, le leggi della necessità e del destino, per il profeta d’Israele nulla viene prima del Creatore di cieli e terra, di Colui che ha promesso di salvarci. Il profeta non è interessato a scoprire la verità tramite il pensiero e la ragione, ma semplicemente ad accogliere ciò che Dio rivela loro e che potrebbero essere cose del tutto folli secondo ragione, imprevedibili, impossibili, come il mare che si apre, gli agnelli che pascolano tranquilli insieme ai lupi, i morti che risorgono da tombe millenarie. Il profeta sa che tutto questo avverrà sul serio e molto concretamente. Com’è possibile? Non lo sa, quello che sa è che a “Dio tutto è possibile”(Mt 19.26). Nel profeta abita la fede, il desiderio di ciò che ancora non si vede e che però un giorno sarà visto da tutti accadere sulla scena pubblica dei nuovi cieli e della nuova terra promessi.

Il punto che nettamente separa il fondamento della ragione e quello della fede è stato molto ben evidenziato da Lev Šestov: “Quando la ragione non ha più forze, quando la verità viene meno, quando la luce svanisce – soltanto allora la rivelazione è accessibile all’uomo. E viceversa, finché noi abbiamo luce, ragione e verità, respingiamo la rivelazione. L’ispirazione profetica, per sua stessa natura legata intimamente alla rivelazione inizia soltanto quando le nostre naturali capacità di ricerca hanno termine” (Speculazione e rivelazione).

A leggere attentamente e ogni giorno sia la Bibbia che i giornali (e anche questo era Barth che invitava a farlo) ci accorgeremmo subito di come sia proprio il carattere radicale e profetico di Gesù, a dare come null’altro una speranza di salvezza all’uomo di oggi, e proprio per il suo essere scandalo in grado di reggere lo scandalo del male che in ogni momento accade davanti ai nostri occhi. Come in molti hanno detto, il nostro mondo con la sua idea di progresso altro non è che la forma secolarizzata della speranza di salvezza escatologica che viene dalla fede ebraico-cristiana. La speranza cristiana più autentica infatti, così come non può prescindere dallo scandalo non può nemmeno prescindere dalla sua tensione escatologica. È ancora Barth a sottolinearlo: “Un cristianesimo che non è in tutto e per tutto e senza residui escatologia, non ha niente da fare con Cristo” (Commento all’Epistola ai Romani).

Se il versante ellenico indica a bassa voce la sapienza, la rassegnazione, la misura del giusto mezzo di fronte a quel che accade, il versante escatologico ebraico-cristiano indica invece Gesù che dorme a poppa sul cuscino mentre la barca in mezzo alla tempesta imbarca acqua e sta per affondare. Se però qualcuno lo sveglia invocando dal bisogno subito si desta, minaccia il vento, dice al mare di calmarsi e improvvisamente c’è “grande bonaccia”, insieme al “grande timore” dei discepoli che mai avrebbero immaginato una cosa simile e si dicono “l’un l’altro: ‘Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?’” (Mc 4,35-41).

 

Tutti, durante questi nostri difficili giorni, percepiamo almeno due cose: lo smarrimento generale dovuto a cambiamenti improvvisi ed epocali che coinvolgono l’umanità nell’intero pianeta e la mancanza di riferimenti certi. Alla morte di Dio gridata dal folle uomo di Nietzsche è seguita anche la morte di riferimenti forti. Non riuscendo più ad avere chi ci indichi orizzonti di ampio respiro siamo sempre più costretti a navigare a vista. A volte si legge in faccia a molti la paura di guardare la realtà per quel che è, e in coloro che hanno qualche ruolo di responsabilità, la preoccupazione di non allarmare la gente e di stendere perciò veline rosa d’ottimismo anche sugli scenari più terribili.

Non così il profeta, che dice invece le cose come stanno senza temere di guardare in faccia proprio quel che più di terribile accade quando accade. Ci sono epoche, in cui “dal profeta al sacerdote, / tutti praticano la menzogna”, curando “alla leggera la ferita” del popolo dicendo: “Pace, pace!’, ma pace non c’è” (Ger 6,13-14). Ma il credente lo sa e resta sveglio nella sua attesa di salvezza.

André Neher, nella sua lucida riflessione volta a scoprire le logiche dei profeti di Israele, dice che essi diffidano dell’uomo “intelligente, che tace quando dovrebbe parlare e parla quando dovrebbe tacere. Si indignano contro la predicazione dello shalom, della pace, dunque del compimento, del ‘restate con le braccia incrociate’, perché tutto è spiegato. Questi urlatori di pace, sono i malvagi ai quali Dio dice: Niente pace! Isaia, Ezechiele e Geremia fanno del Niente-pace! Il motto della loro azione. Perché la pace della sapienza è il sonno ipocrita. È l’invito a dormire mentre la miseria e l’ingiustizia continuano a gridare. È l’anestesia metafisica, il fare della luce di Dio un lume per la notte. La Non-Pace della profezia è uno splendente risveglio, un richiamo all’ascolto e alla visione, alla scoperta di tutto ciò che non è ancora né spiegato né risolto. La profezia è dunque una rivolta, un non-conformismo… Essa oppone alla sapienza razionale dell’uomo, la sapienza irrazionale di Dio” (L’essenza del profetismo).

E come può qui non venirci in mente la celebre battuta di Lévinas nei confronti di chi vorrebbe “rivendicare la visone profetica della verità e nello stesso tempo partecipare ai valori del mondo circostante”. Dice così: “Non vi è niente di più ipocrita che il profetismo messianico del borghese adagiato” (Il messianismo).

 

Daniele Garota

(1. continua)

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