Koinonia Novembre-Dicembre 2021


Una  lettera di Roberto De Vita

 

Caro p. Alberto,

         nel numero 7 di KOINONIA è stata riportata una sintesi di un recente documento della CEI sul problema  ritornato attuale dell’eutanasia. Il documento si incentra in modo da me non condiviso sul problema di una ipotetica obiezione di coscienza contro “ogni” legge che venisse approvata in futuro. Legge che non c’è anche perché il referendum programmato è solo un utile strumento di stimolo per il Parlamento che non è stato in grado di legiferare nonostante i numerosi progetti presentati negli anni e da ultimo anche la richiesta della Corte Costituzionale dopo che alcuni tribunali hanno messo in discussione l’art, 579 del CP . Il referendum chiede di cancellare solo quella parte di tale articolo che prevede 15 anni di carcere per chi aiuta un consenziente adulto  a porre fine alla sua vita. Io con altri colleghi di varie competenze ci siamo confrontati da tanti anni su queste tematiche (condivido in pieno le considerazioni fatte su Koinonia da Capizzi) e vorrei solo riproporre, sperando che il confronto continui e si allarghi, alcune brevi considerazioni sul “confine tra  la vita e la morte”; un tema ovviamente molto complesso da affrontare, secondo me, senza ideologismi (tipo “vita si vita no”) in particolare da parte dei credenti nel Dio della “vita” e della vita come “dono”di Dio.

Eutanasia, a me non piace neppure il nome semanticamente troppo complesso e troppo spesso usato in modo terroristico (di recente sui mass media anche da membri dell’episcopato) assimilandolo a pratiche razziste e genocide naziste o a rischi del genere con una legge, mentre è un tema conosciuto dai tempi di Tommaso Moro in termini di suicidio consensuale.

Una breve considerazione che propongo è chiedersi cosa è “dono”. Se donare significa elargire ad altri un oggetto o una opportunità acquisendo, con l’atto stesso del dono, un potere sulla persona che lo ha accettato, il quadro della condizione dei viventi è ben miserevole, essi sono sudditi (liberi solo come cittadini del cielo e non della terra). La vita trova la sua pienezza e il suo scopo nella cifra del dono: un dono certamente scelto da colui che lo regala, ma sempre a partire dall’interesse e dall’attesa del destinatario.

Ma questo pensiero, a mio  modesto avviso, non può essere riferito a Dio che dona e nel donare non si pente; pone certo la responsabilità ed anche la gratitudine del destinatario. Ma vivere questa responsabilità è pesante, è collegata alla possibilità di portarne il peso, in una vita se questa è ritenuta degna di essere vissuta.

La disponibilità della vita, che secondo Kant non l’abbiamo secondo ragione, potremmo averla da Dio stesso come atto contestuale al dono stesso di essa. Questa responsabilità è onerosa forse più del soffrire per la malattia.

Riferendoci al problema dell’eutanasia, distinguendo quella attiva da quella passiva o astensione terapeutica e, all’opposto, accanimento terapeutico, sono compresenti due logiche: l’eutanasia è dire no alla vita quando la si ritiene insopportabile e intollerabile, quando più che un dono è una condanna. Accanimento terapeutico è un si alla vita anche quando non dovesse riservare alcuna possibilità. Questo non vuol dire che il dolore, la sofferenza e la loro esperienza possa o debba essere abolita. Occorre evitare ogni facilismo o leggerezza, ma il consenso a interrompere le cure può essere legittimo e consentito anche dalla legge umana, per coloro la cui vita può essere peggiore della morte.

Un problema è: chi decide? C’ è una connessione tra l’ordine morale e umano e quello legale e civile; la legge non è detto che collimi con l’ordine morale, non tutto ciò che è male morale può essere sanzionato dallo Stato (c’è il concetto di male minore). Lo Stato può proibire solo ciò che è contro la  convivenza umana.

Il soggetto? Allora accogliere la richiesta di un malato grave di porre fine alla propria vita probabilmente può sottrarre potere alla medicina ma accogliere la domanda di morte, in determinate situazioni, può essere paradossalmente una scelta per la vita e assume i connotati di un atto di carità.

La vita è sacra e lo è per tutti e sempre. La vita è intangibile perché dipende da Dio, ma la vita non è una semplice animazione di organi magari stimolati da sofisticate apparecchiature, è una visione più completa di coscienza, dignità, relazioni, capacità. Può diventare contraddittorio che proprio chi difende la vita nella sua completezza, corpo e spirito, cada in un grossolano materialismo badando a far sopravvivere solo la “polvere” di cui siamo fatti. Occorre distinguere tra vita biologica e vita biografica, la sofferenza può rendere questa insopportabile. Il contesto va riferito a scelte di fede e per un cristiano a un Dio della vita e alla fiducia nelle sue promesse, ma questo è un concetto autoreferenziale, è una eticità riferita a valori assoluti che non possono essere imposti e che ognuno, nella sua libertà di coscienza, può coniugarli riferiti alla sua situazione.

Una legge sull’eutanasia può configurarsi come un gesto umano, di profondo rispetto nei confronti della vita; è una scelta dolorosa ma che intende rispettare il diritto di ciascun essere umano di vivere  con dignità la vita che gli è stata donata e con consapevolezza la malattia e la morte.

Una fede in Dio  può far percepire il carattere non lecito di interventi sulla fine della vita perché l’uomo può togliere una vita ma non può mai restituirla, ma la fede in Dio è trovare un senso delle relazioni umane nella vita, una dignità ed accettare i limiti ma anche la non sopportabilità in una situazione consapevole di disumanità.

 

Roberto De Vita

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