Koinonia Ottobre 2021


P. ANTONIO LUPI: “SINGOLARE FIGURA DI DOMENICANO” *

 

1 - Frate predicatore

 

“Si è di fronte ad una singolare figura di domenicano contemporaneo”: così Arnaldo Nesti presenta P. Antonio Lupi nel volume a lui dedicato. Messo davanti a questa singolare figura, mi sono chiesto a che titolo posso parlare io di questo confratello e quale lettura fare del libro.

Non ho avuto lunga e sufficiente frequentazione con lui, da potermi affidare alla memoria e alla testimonianza. Non sono tra i suoi seguaci diretti e assidui, da potermi fare interprete del suo messaggio. Tanto meno sono uno storico, da poter offrire un contributo di ricerca e di approfondimento.

C’è inoltre il fatto che la vostra presenza qui è indice di ricordo e di attaccamento - oltre che di gratitudine - verso P.Lupi. E quindi lo conoscete meglio di me, desiderando soltanto rallegrarvi alla luce della sua lampada, forse da rimettere sopra il candelabro.

E allora, con che diritto e a quale titolo parlarvi di lui? E con quale ardire? L’unico titolo lo trovo forse nel motivo stesso della mia presenza qui: e cioè nel fatto che a parlare del “P.Antonio Lupi un domenicano nel mondo”, sia un domenicano, per una rilettura del libro e un rilancio della sua memoria. Il mio compito è solo quello di mediazione e di invito a raccoglierne il messaggio, non solo individualmente ma collettivamente, domenicani compresi.

Per la verità, già un domenicano ha parlato di lui a ragion veduta e in maniera più autorevole di me: è “La testimonianza di Dom Tomas Balduino”, Vescovo emerito di Goiânia, il riferimento all’opera del P.Lupi in Brasile. Così come abbiamo il profilo spirituale di suor Stefania Baldini “Un domenicano contemporaneo” che ci riporta alla interiorità del P.Antonio. A me non rimane che pormi come chi voglia raccogliere un testimone e verificare quanto sia praticabile e riproponibile il carisma del P.Lupi; rimane da capire perché non sia stato accettato e condiviso come sarebbe stato giusto. Ma il contesto in cui avviene questo nostro incontro ci riporta a Firenze, e allora oserei parlare di “Un domenicano a Firenze”, per capire meglio anche le altre scelte o le successive vocazioni o conversioni di questo frate di S.Domenico.

È strano che quando si parla di Ernesto Balducci tutti sanno e dicono che è “padre scolopio”; quando si parla di Turoldo e di Vannucci tutti hanno presente che si tratta di due “servi di Maria”, così come non si può parlare di don Barsotti o don Facibeni senza tener conto della loro collocazione religiosa. Tutti questi personaggi hanno in altre parole una loro famiglia di appartenenza. P.Lupi da questo punto di vista sembra figlio di nessuno, anche se lo vediamo spesso ritratto nel suo abito bianco e nero.

Diciamo che è figlio della verità. Nel suo “testamento spirituale” scrive: “Né amor di tonaca né amor di patria... ma semplice e puro amore della verità. Mai sostenere una teoria perché sostenuta da uno di abito bianco, nero, marrone, celeste. Gli abiti e le tonache specialmente non hanno niente a che fare con la verità” (Nesti, pp.11-12).

Questo si spiega in parte col fatto che un domenicano non si presenta mai come tale, ma per quello che personalmente è, lasciando sullo sfondo la sua matrice religiosa; un domenicano è di suo un battitore libero, sia che cavalchi le istituzioni o ne sia disarcionato:  e questo è più che mai vero per il P.Lupi, che non ha mai ricoperto ruoli istituzionali e che andrebbe collocato, oltre che nell’ambiente fiorentino del tempo, anche nel contesto della sua comunità di S.Marco e nei suoi rapporti con l’Ordine, per capire il suo essere domenicano nel sangue.

Sono qui a togliere un velo sulla fisionomia domenicana di questo frate, non tanto per orgoglio di famiglia o appropriazioni postume, quanto per capire meglio la sua statura di “Frate Predicatore”, prima con la vita che con la parola. E per verificare quanto sia riproponibile ciò che ha maturato e trasmesso con la sua esperienza di pioniere della “predicazione del Vangelo”.

È possibile che una testimonianza umanamente e evangelicamente così significativa non venga compresa anche nelle sue radici evangeliche? Ed è possibile che una esistenza così incisiva per gli altri non susciti qualche interrogativo e ripensamento anche all’interno della famiglia domenicana? Quali ad esempio i rapporti dei domenicani con Firenze, sulla scia di quanto tentato dal P.Lupi? Davanti a questi interrogativi a me non rimane che avanzare qualche ipotesi interpretativa o di lavoro, per riprendere contatto con questo confratello, sapendo che “nemmeno la strada è scoperta”, ma che al tempo stesso  “tutta la terra è una strada”.

 

2 - La vocazione del “fare a mezzo”

 

Ho conosciuto il P.Antonio Lupi in qualcuno degli incontri delle Caldine, dove a volte venivamo portati da novizi. E poi anche in occasione di un corso di “esercizi spirituali” a Pistoia. Non avevo sufficiente consapevolezza critica per avere ricordi precisi. Ma posso dire che, oltre al senso di accoglienza che trasmetteva, mi sollecitava a qualche interrogativo e mi faceva intravedere un’alternativa al modo di vedere la vocazione domenicana.

Incontrandolo di nuovo ora attraverso le testimonianze di questo libro, mi sembra di poter dire che lui ha voluto mettere alla prova la sua vocazione come oro nel crogiuolo, qualcosa da autenticare, rendere sicuro e coerente, qualcosa da rinnovare attraverso scelte sempre nuove e ripetute conversioni, dove vocazione domenicana diventa apertura umana, prospettiva storica, speranza messianica.

A differenza delle altre personalità del mondo fiorentino di allora - che ben conosciamo - P.Lupi non si presenta con una fisionomia unica e con un ruolo di riferimento preciso (di tipo culturale, sociale, politico o ecclesiale), ma vive una continua tensione umana e spirituale che cerca le sue forme di espressione e di attuazione. Se vogliamo capire quale è la polarità di questa tensione, basta ascoltare o rileggere alcune delle sue prediche: è la tensione che va dal mondo della fede e della grazia al mondo degli uomini e della storia. Il suo habitat interiore è teologale, l’orizzonte della sua esistenza è umano, in maniera interattiva e senza commistioni di sorta.

Impressiona questa semplice precisazione dal suo diario dell’agosto 1944, durante l’opera di resistenza a S.Gervasio: “E l’andare al campo con quei morti, che non avevano nemmeno uno di casa a ricordare e a piangere, ce li rendeva cari come se fossero stati tutti della nostra famiglia, ma non della grande famiglia umana, come si dice noi, proprio della nostra famiglia vera“ (p.51). In questo modo egli incarna lo spirito del domenicano «contemplari et contemplata aliis tradere»: prolungare negli altri la comunicazione di verità e grazia vissuta nella fede come nuova condizione di vita.

Se qui c’è l’asse portante della sua vita e della sua missione, io vorrei accompagnarlo negli sviluppi della sua vocazione umana e cristiana, lungo le strade delle sue vocazioni storiche. P.Lupi avrebbe potuto dare ad una sua  autobiografia lo stesso titolo che ha quella di Turoldo: “La mia vita per gli amici - vocazione e resistenza”.

La costante di tutti i tornanti della sua vita è l’amicizia vissuta, che aveva per motto “fare a mezzo”, il che vuol dire che la sua vocazione primaria erano gli altri, in modo partecipativo. Nell’agosto 1939, scrivendo a Tilde Manzotti, dice che, dopo Dio, la Madonna e i Santi, è lei la “mamma” della sua vocazione e che saranno domenicani e apostoli insieme (p.28).

Nel 1942 annota nel suo “Diario”: “La via è chiara, di una limpidezza reale senza appello. Ho dinanzi a me otto mesi di lavoro e di studio… Studiare da frate. Da domenicano. Studio e preghiera. Preghiera e studio. Lavoro e vita interiore. Io Dio e le anime” (p. 42).

C’è poi la sua partecipazione alla Resistenza e nell’agosto 1944 annota: “La notte avevano bombardato anche in centro e trovai i miei frati in gran timore. Non raccontai niente di quanto mi era successo. Cambiai la mia veste per non far vedere il sangue e dissi che a S.Gervasio c’era molto da fare, ma che ci si stava bene. Il P.Provinciale scoprì che avevo la febbre. Mi sentivo caldo alla faccia - e minacciò di trattenermi in convento anche l’indomani. Voleva che mi riposassi. E aveva ragione. Ma anch’io avevo ragione e a S.Gervasio avevano ragione di aspettarmi. Tutti avevamo ragione” (p.49).

C’è la predicazione in S.Marco, ma anche la predicazione non è che una via, mai un ruolo o una professione e andrebbe rivisitata proprio nella sua dimensione comunicativa di apertura agli altri e al mondo. Basterebbe rileggere l’omelia del 13 novembre 1966 dopo l’alluvione e ripensare la sua opera a favore degli alluvionati. Ma forse basta anche questa testimonianza riassuntiva di Giorgio e Marisa Mazzoni: “La sua lezione più significativa non era quella pur affascinante, che veniva dall’altare di S.Marco, ma quella ben più sottilmente penetrante, che veniva dalla frequentazione fraterna” (G. e M.Mazzoni, p.22).

 

Il passaggio dalla predicazione in ambiente fiorentino del tempo alla esperienza nuova delle “Caldine” - una sua invenzione come luogo del “fare a mezzo” e dare forma comunitaria all’incontro personale! - ci è così descritto da Paolo Lucchesi: “Padre Lupi, almeno al mio sguardo di allora e alla mia considerazione di adesso, era profondamente inserito in tale contesto, ma con caratteri che pure lo distinguevano, ne facevano una figura particolare. Ad esempio non aveva attorno a sé un gruppo strutturato e ancor meno una comunità, a differenza di tutti quelli citati, tuttavia era amato e cercato da un numero impressionante di persone. Se devo delineare in estrema sintesi la figura e le doti peculiari di padre Lupi, mi sento di utilizzare due definizioni, espressione attiva del suo ruolo: predicatore e guida spirituale. Due funzioni distinte e complementari, che fra l’altro venivano espletate in due sedi diverse: la chiesa di S. Marco e il convento alle Caldine” (p.73).

 

E sempre il Lucchesi ci fa capire lo spirito delle “Caldine”, a proposito della presenza di ceti diversi agli incontri: “Ricordo con chiarezza che un giorno, un po’ seccato di questa eccessiva eterogeneità, ho apertamente e con una certa irruenza, manifestato a padre Lupi tutta la mia perplessità. Mi sono sentito rispondere che quell’ambiente contraddittorio era parte integrante della sua direzione spirituale verso quel ceto sociale, esternamente così fortunato; voglio farlo incontrare - aggiungeva - col contatto semplice e naturale di questa strana fluttuan­te comunità di Caldine, sia con voi giovani scalpitanti contro il privilegio e la povertà, sia con la serenità e con la sofferenza dei tanti ammalati sempre presenti in quella, come altre occasioni” (p.76).

 

E sempre le Caldine diventa il luogo dove viene recepito, assimilato, discusso il Vaticano II, il tempo della contestazione,  il ’68 (con l’esperienza dal vivo del maggio francese a Parigi, di cui ci parla Giannantonio Mazzetti), tutta la vicenda “Isolotto”: è un capitolo che andrebbe trattato a parte, per capire l’apertura e l’ampiezza di una partecipazione viva alle persone e agli eventi. Ma è anche la base di lancio per orizzonti nuovi e per nuove chiamate e scelte: il Brasile! Per capire la motivazione profonda di questa scelta bisognerebbe rileggere “le osservazioni e le riflessioni” con cui dà conto del suo primo viaggio in Brasile (Sono stato un mese in Brasile) in “Domenicani” (nov.-dic. 1968): “Era naturale che la mia attenzione si volgesse dapprima agli aspetti religiosi della realtà del Brasile, ma presto, direi subito, tutte le cose urlavano tanto e tutto era così ‘interferente’ che a ogni passo e ogni incontro, la vita intera di questa gente e i suoi problemi, sotto ogni riguardo, s’imponevano al mio spirito… Ci sono tanti sotto-uomini, con fame insoddisfatta per ogni genere di pane, segnati dal segno meno nelle carni e nello spirito, che ogni persona appena pensosa trema, e ogni cristiano e non cristiano appena onesto sente l’insostenibilità di una situazione tanto drammatica e spera vie di un rinnovamento”.

Di questa situazione fa cenno  il 10 novembre del 1968 nell’incontro delle Caldine: “Questa esperienza fatta da me come un amico vostro, mi ha portato a sentire molto più profondamente tutti i problemi della ingiustizia umana e tutta l’urgenza dell’amore di Cristo da predicare in mezzo agli uomini, Non nel vago, perché è rischioso tradurre la predicazione dell’amore del Cristo in un puro ‘volemose bene’, e lasciar la gente a non essere gente”.

 

Più volte parla dell’urlo delle cose e delle situazioni, e in una lettera del 1970 indirizzata a Luisa Opecher (“Domenicani”, sett.-ott. 1970), così si esprime: “Ti sembrerà strano che proprio essere venuto fin qua nel segno di una urgenza del partecipare e dell’agire, abbia poi incontrato anche il modo di una intensa attività interiore di studio e di meditazione. Forse il cambiamento dei quadri e l’eloquenza tutta nuova e urlante delle cose ha risvegliato tendenze e reso possibili – meglio  irrimandabili – impegni mai prima del tutto  obliati, ma semmai giocati molto da certa urgenza e da certa “abitudine” di attività di un certo ritmo e di una certa fisionomia”. Si può cogliere qui un tratto del domenicano in ascolto, interessato alla realtà profonda dell’uomo, alla voce e ai segni dei tempi!

 

Ma ecco ancora il senso della risposta a questa nuova vocazione! Petra Salvini ci dice che “prima della sua partenza per il Brasile così si esprime con una amica: “Francesca, cosa possiamo fare perché i cristiani diventino un poco più cristiani?” (p.31). Luisella Ancis, “parlando di lui dice spesso che laggiù aveva ritrovato una nuova vocazione, si era riscoperto tra la povera gente che sentiva appartenergli in maniera speciale e aveva ritrovato i valori più profondi e autentici del Vangelo” (pp.37-38). P.Lupi stesso in una lettera da Goiânia del 25-26 marzo ’70, così si esprime: “Mi par di capire che il Signore aveva ben visto che mi invecchiavo e mi intorpidivo. Così c’è stato l’Esodo. Levati e cammina. E mi ha ringiovanito, rinvivito a 50 anni. Almeno, questo mi pare il suo disegno. E voi dovete pregare, se mi volete bene, perché io intenda. Non so come io riuscirò a rispondere” (p.124). Giustamente Girolamo Pigni parla di questa scelta come di una “nuova Lettera a Pipetta indirizzata a quanto più di ‘sinistra’ contrassegnava quegli anni”, qualcosa che rivela un realismo, un piglio e una chiarezza alla don Milani!

 

Bastano questi rapidi passaggi per avere delineata la fisionomia evangelica del P.Lupi, che del resto è così vista da Tomas Balduino nella sua testimonianza: “Lupi fu un tipo di Vangelo vivo e insegnò non per quello che disse, ma per quello che fu e che visse. Riflettendo sulla sua vocazione, mi rendo conto che si collocò pienamente nella gestazione del Concilio Vaticano II. Considero Lupi un padre del Concilio, come Congar, Chenu e tanti altri che ne aiutarono appunto la gestazione. Come Cardin, come tutti quelli che aprirono prospettive alla Chiesa ed aiutarono a concretizzare e chiarire le proposte che apparvero più tardi nel Concilio. Così fece Lupi, non scrivendo articoli o pubblicando libri famosi, ma convivendo con gruppi di riflessione, unendo persone con persone, gruppi con gruppi, articolando gli uni con gli altri, permettendo la nascita del nuovo dentro la Chiesa, e creando tutto un clima di rinnovamento favorevole al dono dello Spirito di Dio, che non irrompe sulla terra in forma improvvisa, ma viene come la forza che aiuta la pianta che già esisteva, alimentandone la crescita e la maturazione. Lo Spirito di Dio incontrò molte cose in gestazione, tra queste il lavoro di Lupi” (p.177).

 

E forse non è esagerato dire che P.Lupi ha visto realizzato il suo sogno proprio al momento della sua morte, con la comunità dei suoi poveri amici intorno a lui, così come ci testimonia Frei Fernando a p.68: “Ho l’impressione che il giorno in cui Lupi fu più felice fu quello in cui ci lasciò, prima di incontrarci di nuovo, già tutti liberati... All’alba arrivò la notizia... lasciai tutto e corsi a Goiânia. Ma non fui solo io, il parroco, fu una moltitudine. Fu la gente di qui, i poveri di corriera, quattro ore di viaggio. Là ci riunimmo intorno a lui, scegliemmo un brano del Vangelo e facemmo una riunione di meditazione della Parola, come siamo abituati a fare qui... non fu facile leggere perché tutti avevano il cuore e la gola strozzati. Ma tutti si fecero forza in quel momento. Tutti dissero la propria opinione e tutti praticamente sostennero che Lupi non era morto e che avrebbe continuato a vi­vere in mezzo a noi a patto che noi continuassimo a creare questa chiesa dei poveri. E il giorno cinque di settembre facemmo per lui non una veglia funebre, ma un incontro di vangelo, con i nostri canti di lotta e di speranza. Io credo che fu uno dei giorni più felici per lui. Perché lui non voleva sentirsi morto e noi lo trattammo da vivo”.

 

3 - Una strada aperta

 

“Lupi non era morto e avrebbe continuato a vi­vere in mezzo a noi a patto che noi continuassimo a creare questa chiesa dei poveri”, dice Frei Fernando. Questo vale solo per il Brasile o ha qualche eco anche per noi, a quaranta anni di Medellin, che è il ‘68 dell’America Latina?

La riscoperta di questa presenza viva tra noi, oltre al desiderio di una ricostruzione storica più definita, ha suscitato in me una duplice spinta: da una parte andare verso “il prima” dall’altra verso “il dopo” di questa testimonianza singolare: come cioè rintracciare l’universo mentale e spirituale del P.Lupi, e come mutuare il suo stile apostolico, al di là della forte impronta personale. È il cammino di un Frate Predicatore dei nostri giorni!

Come si sa, del P.Lupi non esiste una produzione letteraria. Ma anche questo fatto ha un significato, e ce lo fa capire la testimonianza di Girolamo Pigni quando scrive su “Domenicani” (sett.-ott. 1986) “P.Lupi era un uomo non di lettera ma di spirito”: “Pare che P.Lupi fosse anche teologo. Ma egli era innamorato di Cristo nell’uomo concreto, per primo vivere e far vivere negli altri la teologia, e per ‘scriverla soltanto a parole da questo vissuto. E forse egli era tanto innamorato di Cristo nell’uomo  convinto, da non ‘scrivere’ mai la teologia, per timore che la verità dell’uomo, una volta ‘scritta’ anche quella dell’uomo di chiesa – la paure, le perplessità, l’amore nel suo discorso – prevalessero su quella di Cristo e così di questa andasse perso e offeso qualcosa, perdendo e offendendo qualcosa dell’uomo concreto che della parola ‘scritta’ non può mai essere compreso del tutto, nella sua varietà di cultura, motivazioni, coscienze e misteri che solo Dio conosce e in Cristo redime”.

Ma abbiamo conferma diretta di ciò in una lettera del 1970 da Goiânia, in cui P.Lupi fa questa confessione e relativizza la sua stessa predicazione: “Qui io mi ci sento a nome di voi tutti, veramente. E quello che raccatto e imparo lo metto in un segreto scrigno per il nostro cammino. Mi trovo spesso disarmato, sempre inadeguato, e chiamo il vostro aiuto nell’affetto e nei colloqui con Lui. Quanto è pesante l’aria che tira, voi non potete nemmeno immaginarlo. L’unico aggettivo, a misura, è TERRIBILE. È questa la mia Quaresima e la mia Pasqua, senza prediche, ascoltando la predica delle cose, delle situazioni, degli avvenimenti, delle persone, della fame, della gioia, della catene degli uomini. E la continua fatica nella speranza che Cristo detta dentro e gli uomini portano anche quando non lo sanno” (Goiânia, fine marzo 1970).

 

Per una visione d’insieme del percorso spirituale ed apostolico del P.Lupi, bisognerebbe poter disporre del suo “Diario”, ma abbiamo una serie di articoli sulla rivista “Vita cristiana” su cui ha scritto fino al 1955 e di cui in seguito è stato direttore responsabile, pur non scrivendovi più. Questi articoli meritano una rivisitazione e potrebbero essere utilmente riproposti: ad una prima impressione sembrano  l’anticipazione di quanto poi ci è stato dato di vedere di riflesso nelle sue successive scelte. Ma questo è tutto un discorso a sé, che mi riprometto di fare.

Sono articoli di studio a carattere teologico o spirituale, ma anche di giudizio e di impegno storico, come quando nel numero di settembre-ottobre del 1948 scrive “Interpretare la vita” e così conclude: “Troppi cristiani trascinati dalla corrente, troppi individui numeri di una folla, numeri anche spiritualmente presi e quindi non veramente spirituali – e inversamente, poche persone, poche anime vive. Ognuno di noi dovrebbe essere con Dio – perché Dio è in lui, perché in Dio vive, perché nella sua luce si muove – dovrebbe essere capace di ricrearsi la realtà, di riviverla interpretandola cristianamente. E allora non solo non subirebbe gli oltraggi del tempo e delle cose, ma concorrerebbe – è l’unica via – a trasformare tante strade per sé e per gli altri verso il traguardo dell’eternità”.

 

Quanto poi agli sbocchi di questa sorgente di umanità e di grazia, potremmo attingere alle omelie. Ma ci sono anche ampi resoconti degli incontri delle Caldine, che ci riportano alla Parola di Dio, alla contestazione, alla Chiesa ecc. Ma anche qui non si può fare altro che aprire un cantiere di lavoro, che merita di essere fatto. Riprendo dal primo incontro sulla Contestazione del 10 novembre 1968, solo una indicazione di metodo: «Ora, come mai questo nostro ritrovarci a affrontare questo tema? Prima, per una ragione, se volete (guardate, forse la più piccola, ma non tanto meschina) di onestà tra noi. Esistono queste cose, succedono delle enormità di ogni genere intorno a noi. Noi vogliamo, da amici cri­stiani, incontrarci per vedere come si sta ritti a questo mondo, credendo in Cristo. È inutile che chiudiamo gli occhi davanti a delle cose che o ci entusiasmano, o ci danno fastidio. È inutile che le eliminiamo e non ne ragioniamo insieme, dal momento che sono cose “da insieme”. Sono avveni­menti che incidono proprio sulla convivenza, e quindi sulla compresenza, e quindi sulla testimonianza. Incidono sugli atteggiamenti  Dico che è la cosa più piccola solo per un aspetto: perché non vorrei che ci fosse dentro il pericolo di considerare che noi, quest’anno, qui, quando ci ritro­viamo, dato anche che si continua a chiamare amabilmente questa “la riunione degli Sposi” (ci sono dei ragazzi che si sposeranno un giorno, ci sono delle persone fuori dell’ambito del matrimonio) non vorrei che si riducesse il discorso a dire: ecco, si fa una riunione  per vedere come noi genitori ce la dobbiamo cavare con questi matti di ragazzi, con tutti i problemi che ci pongono. Francamente, no!».

L’itinerario tracciato dal P.Lupi, anche come figlio di Domenico, è quello di chi ha preferito rimanere fuori per consentire a tutti di entrare: come nella Lettera a Pipetta, ma anche secondo l’insegnamento di Paolo, che accettava di essere anàtema, separato da Cristo, a vantaggio dei suoi fratelli (cfr Rm 9,3) e si sentiva  “in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti” (Rm 1,14).

P.Lupi, come ricorda suor Stefania nel libro, ha conseguito il suo dottorato in teologia con una tesi su Caterina da Siena. Si possono riferire a lui le parole che Caterina sente rivolte a S.Domenico: “Egli prese l’officio del Verbo unigenito mio Figliuolo. Drittamente, nel mondo pareva un apostolo, con tanta verità e lume seminava la parola mia, levando la tenebre e donando la luce” (Dialogo della Divina Provvidenza, 158).

 

Alberto Bruno Simoni op

 

*Intervento tenuto presso la Biblioteca delle Oblate di Firenze nel maggio 2008 in occasione della presentazione del libro di Arnaldo Nesti Padre Antonio Lupi (Peccioli 1918-Goiânia 1976): un domenicano nel mondo, Quaderni pecciolesi 2006, pp. 182, € 25,00

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