Koinonia Ottobre 2021


STAR PRONTI NELL’OPEROSITÀ

 

Per comprendere le dinamiche del cristianesimo primitivo non possiamo prescindere dalla prima Lettera che Paolo scrisse alla comunità di Tessalonica, città che in quegli anni si trovava a essere capitale della provincia romana di Macedonia. Nel suo secondo viaggio missionario, Paolo vi giunse insieme a Sila (o Silvano) e Timoteo. Ci raccontano tutto questo gli Atti degli Apostoli: “giunsero a Tessalònica, dove c’era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine, Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti”. Qui non dobbiamo però pensare che per quegli ascoltatori il Cristo fosse Gesù, per i giudei infatti il Cristo altri non era che il Messia atteso da Israele, quello di cui parlavano i profeti e che per essi doveva ancora venire. Ecco perché Paolo dirà loro subito dopo che il Cristo era già venuto e altri non era che quel Gesù che egli stava annunciando. Di fronte a ciò “alcuni di loro furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un grande numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà. Ma i Giudei, ingelositi, presero con sé, dalla piazza, alcuni malviventi, suscitarono un tumulto e misero in subbuglio la città”. Al punto che  Paolo e i suoi due amici dovettero scappare fino alla città di Berea, dove trovarono una migliore accoglienza. Questi infatti “erano di sentimenti più nobili di quelli di Tessalònica e accolsero la Parola con grande entusiasmo, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano davvero così. Molti di loro divennero credenti e non pochi anche dei Greci, donne della nobiltà e uomini. Ma quando i Giudei di Tessalònica vennero a sapere che anche a Berea era stata annunciata da Paolo la parola di Dio, andarono pure là ad agitare e a mettere in ansia la popolazione. Allora i fratelli fecero subito partire Paolo, perché si mettesse in cammino verso il mare, mentre Sila e Timòteo rimasero là. Quelli che accompagnavano Paolo lo condussero fino ad Atene e ripartirono con l’ordine, per Sila e Timòteo, di raggiungerlo al più presto.” (17,1-15).

Paolo ad Atene incontrerà i filosofi con i modesti risultati di cui sappiamo, poi scenderà a Corinto, dove incontrerà Aquila e sua moglie Priscilla, che erano arrivati poco prima dall’Italia. Paolo “si stabilirà in casa loro e lavorava. Di mestiere infatti erano fabbricanti di tende”. Ci fa molto bene sapere che uno come Paolo sentiva il bisogno di lavorare con le proprie mani per guadagnarsi da vivere. Appena però Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, ecco che Paolo si dedicherà “tutto alla Parola, testimoniando davanti ai Giudei che Gesù è il Cristo” (At 18,1ss).

Nella lettera ai Tessalonicesi vi è ripetuto numerose volte il termine “venuta”, riferito al Signore: al centro del   messaggio cristiano della prima ora abitava infatti l’annuncio che il Cristo era già venuto, ma anche quello altrettanto forte che sarebbe dovuto tornare. E questo perché era stato ucciso ma era poi risorto e asceso al cielo per tornare di nuovo da un momento all’altro. Perciò nel cuore della comunità cristiana era frequente l’invocazione: “Maràna tha!”, “O Signore vieni!”, invocazione che Paolo vorrà scrivere con la sua stessa “mano”, in lingua aramaica, all’interno del saluto finale nella prima Lettera ai Corinzi (16,21-22). Una venuta che col tempo è stata dimenticata, o del tutto fraintesa, al punto che nella mentalità odierna molti credenti pensano che il momento in cui il Signore verrà sarà null’altro che il momento della nostra morte. Ma è questo che dobbiamo intendere in quanto cristiani? Certamente no, ed è proprio questa preziosa Lettera di Paolo a farcelo comprendere, lo scritto più antico del Nuovo Testamento.

Ma per capire bene il dramma dell’attesa della prima comunità cristiana, dobbiamo riferirci anche alla prima Lettera ai Corinzi, all’interno della quale troviamo questa precisa affermazione di Paolo riferita alla “cena del Signore”. Dice così: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (11,29-30). Ma cos’è “riconoscere il corpo del Signore” mentre lo si mangia se non farlo “finché egli venga” (11,26)? Qui Paolo è come se dicesse: “Com’è strano il fatto che siano morti degli uomini che hanno visto il Signore! Davanti al fatto della morte Paolo non riesce a trovare pace… non riescono a tranquillizzarlo né il pensiero della provvidenza, né quello dell’ordine naturale e nemmeno quello dell’esistenza di un’anima immortale” (Karl Barth, La risurrezione dei morti).

Questo è il vero motivo del tanto agitarsi dei cristiani di Tessalonica: qualcuno che aveva creduto era morto, ed era morto nonostante la sua fede e il suo battesimo. In essi vibrava una vera e propria speranza di non morire, l’impossibilità di rassegnarsi davanti a dei fratelli che continuavano a morire, mentre il Signore morendo aveva ‘distrutto la morte e risorgendo ridato a loro la vita’, come continuiamo ancora a dire durante le nostre liturgie eucaristiche. Ecco perché si continuava ad attendere con tutte le forze che il Signore giungesse finalmente a salvare tutti, a vincere e per sempre la morte. Era insomma un clima esattamente contrario a quello che ci è dato di respirare oggi nelle nostre comunità cristiane. Adesso diciamo che il vero incontro con Dio avverrà quando moriremo, allora invece lo si attendeva da vivi e anche per i morti che sarebbero di lì a poco risorti.

Vi è un passaggio nella prima Lettera ai Tessalonicesi in cui è ravvisabile la prima formulazione scritta del Kerygma, dunque del cuore dell’annuncio evangelico: “Vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene” (1,9-10). Un’attesa che è punto di riferimento preciso per la fede dei cristiani e che continuamente ritroviamo all’interno di questa stessa lettera: “Infatti chi, se non proprio voi, è la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui vantarci davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta?” (2,19). Saldi siano “i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi” (3,13).

In mezzo dunque a tutte le esortazioni di tipo pratico: lavorare in pace, amarsi come fratelli, fare il bene ecc., punto decisivo, senza il quale tutto viene destituito di senso è questo: Il Signore sta per venire e davanti a ciò che lui sarà in grado di fare non ci sarà differenza alcuna tra chi è vivo e chi è morto, perché “noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore non avremo alcun vantaggio su coloro che sono morti” (4,15). Siamo attorno al 50 d.C. e Paolo è convinto di non morire: “Non tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba” (1Cor 15,51-53).

Insomma, quando si legge ciò che dice Gesù nel Vangelo di Marco: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (9,1), si deve tenere conto di questa speranza di non morire.

Certo, nelle cosiddette “lettere dalla prigionia”, Paolo finirà per allentare tale tensione e prendere in considerazione il fatto di morire prima della venuta del Signore, invitando a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo alla destra di Dio” (Col 3,2), ma mai perderà di vista il giorno di tale venuta. Nella seconda Lettera a Timoteo (che sia sua o di un suo discepolo poco importa), Paolo dice così: “Quanto a me il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che attendono con amore la sua manifestazione” (4,6-8).

Dopo aver parlato di cosa avverrà e di come avverrà, Paolo dovrà ad un certo punto rispondere alla domanda più radicale: quando avverrà? Quando vedremo il cielo aprirsi, il Signore scendere e i morti risorgere?

Paolo riprende cose che aveva in fondo già detto Gesù: “Voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore” (1Ts 5,2). Verrà, state certi che verrà, ma di notte, quando tutti dormono e nessuno se lo aspetta. E proprio perché non sappiamo quando verrà, siamo chiamati a stare all’erta: “Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,44). È questa la dura battaglia da combattere, e però dotandoci di quelle armi senza le quali nessuno riuscirebbe a reggere il peso dell’attesa. Come le vergini sagge della parabola raccontata da Gesù, che presero con sé “l’olio in piccoli vasi” che gli permetterà di riaccendere subito “le lampade” e trovarsi così pronte all’arrivo dello “sposo” che era in grande ritardo (Mt 25,1-13), così anche noi dobbiamo dotarci del giusto equipaggiamento. Quale? Paolo lo dice con chiarezza: “La corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza” (1Ts 5,8). Se non si riesce a difendersi dalle correnti del così fan tutti anelando con tutte le forze a quella salvezza che a più nessuno interessa, sarà difficile cavarsela. Ma per sapere bene cosa intenda qui Paolo con queste tre virtù che abbiamo finito per chiamare teologali, è bene riflettere su quanto egli stesso sottolinea riguardo al carattere di ognuna di esse all’inizio della sua Lettera e che sente già presente nei suoi interlocutori. “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1Ts 1,3).

Nel testo originale greco per dire di che pasta è fatta la fede c’è ergòn, che significa operosità, impegno concreto: la fede è opera tra le più difficili, mai dovremmo dimenticarlo. “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (6,29). E tuttavia l’operare mosso dalla fede non è mai rivolto a risultati ogni volta da raggiungere con le proprie forze, ma alla salvezza che può venire soltanto dal Signore.

Per dire poi di cos’è fatta la carità troviamo kopòs, che significa dura fatica, ciò che sfinisce: si provi ad amare davvero qualcuno che sta male, a stargli accanto mentre ci chiede continuamente qualcosa con lamento incessante. La “carità” che “tutto sopporta… non avrà mai fine” (1Cor 13,7-8), ma non è cosa da poco.

E per dire, infine, di cos’è fatta la speranza, Paolo usa upomonè, che vuol dire fermezza, forza di sopportare una lunga attesa. È la virtù della pietra, quella che ti fa restare ciò che sei qualsiasi cosa succeda, è la pazienza di attendere di fronte ai grandi ritardi, è la “perseveranza dei santi” di cui parla il Libro dell’Apocalisse, là dove è detto anche: “‘Beati i morti che muoiono nel Signore’. Sì – dice lo Spirito -, essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (14,12-13).

Di tale equipaggiamento dev’essere munito il credente di ogni tempo, soprattutto durante questi nostri giorni, nei quali i venti dell’incredulità soffiano forte e il peso del grande ritardo, nel cuore di chi riesce ancora a star pronto in attesa, si fa davvero insopportabile.

 

Daniele Garota

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