19 aprile 2020 - II DOMENICA DI PASQUA o della Divina Misericordia (ANNO A)

 

Caravaggio: Incredulità di san Tommaso (1600-1601)

 

 

PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 2,42-47)

[Quelli che erano stati battezzati] erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere.

Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo.
Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 117)

Rit. Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.

Dica Israele:
«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

Mi avevano spinto con forza per farmi cadere,
ma il Signore è stato il mio aiuto.
Mia forza e mio canto è il Signore,
egli è stato la mia salvezza.
Grida di giubilo e di vittoria
nelle tende dei giusti:
la destra del Signore ha fatto prodezze.

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

SECONDA LETTURA (1Pietro 1,3-9)

Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo.

 Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.

VANGELO (Giovanni 20,19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

 

 

In altre parole…

 

Credi come se la tua fede dovesse diventare quella di tutti gli uomini: questa norma è bene tenerla presente, come istanza di discernimento critico riguardo allo stato della “fede sulla terra” (Lc 18,8). Anche perché è stato questo il desiderio costante di Gesù: che il suo rapporto col Padre diventasse modo di essere per tutti, così come il “Padre nostro” ci lascia capire! Viene perciò da interrogarsi sul nostro modo di vivere la fede in rapporto agli altri.

Neanche domenica prossima, come sappiamo, le chiese saranno aperte per poter partecipare alla Eucarestia: e allora che senso ha pensare ad una “liturgia della Parola” con queste annotazioni, al di fuori del contesto eucaristico? Proprio quello di aiutarci a maturare una capacità critica e a saper distinguere la differenza tra la sostanza della fede e ciò di cui la rivestiamo. Questa II Domenica di Pasqua, ad esempio, era detta tradizionalmente “Domenica in albis”, in quanto dedicata ai battezzati, ai credenti, e quindi al Popolo di Dio. Se da qualche anno viene denominata la “Domenica della Divina misericordia” - con riferimento a pratiche, santuari, devozioni, immagini - questo non ci deve impedire di attenerci al suo senso originario, e vivere la prevista “liturgia della Parola” più in ottica esterna per tutti che interna per alcuni! Il cammino della fede non è affatto di conformismo, semmai di scelta e di decisione. La figura dell’apostolo Tommaso ne è un esempio.

Dopo la domenica di resurrezione, siamo ora portati a considerare la fede nel Risorto: perché la fede senza la resurrezione sarebbe vuota, la resurrezione senza la fede impensabile. Essa diventa un fatto storico solo in quanto c’è chi la coglie credendo, in quanto genera la fede. E allora, la prima cosa che viene da dire è che se esiste un cammino con Cristo verso la passione e la croce, non meno necessario è un cammino con lui Risorto! Se c’è una fede in lui pre-pasquale, c’è anche una fede pasquale non meno impegnativa.   

Con la resurrezione non tutto è fatto e non siamo arrivati, ma tutto ricomincia tra Cristo e noi. C’è dunque tutto un rapporto nuovo col Risorto da stabilire, prima di ripartire dalla Galilea a fare discepole le genti alla sua maniera. Da ora in poi tutto avviene su un piano diverso, e se da una parte c’è stata l’immedesimazione totale del Verbo di Dio all’uomo fino alla morte e morte di croce, dall’altra c’è la partecipazione dell’uomo alla vita del Risorto, “perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita” (2Cor 5,4). È appunto la condizione dei battezzati, di un battesimo non all’acqua di rose. E c’è la nascita di quella figura che Papa Francesco chiama “discepolo missionario”, testimone della resurrezione.

Questo cammino di morte e resurrezione era ciò a cui Gesù ha cercato di preparare i suoi, quando ripeteva loro: “Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno” (Lc 9,22). Se alla fine i discepoli hanno dovuto toccare con mano cosa significasse che il Figlio dell’uomo doveva “esser messo a morte”, avrebbero dovuto continuare a capire “che cosa volesse dire risuscitare dai morti” (Mc 9,10). E abbiamo sentito Giovanni confessare che “non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9). Questo lo dice quando entra nel sepolcro vuoto, gli si aprono gli occhi e crede: nasce una relazione del tutto inedita col Maestro e Signore, basata non più sulla presenza visibile e tangibile, ma sulla “immedesimazione” a lui mediante la fede. Se quindi c’è stata una sequela di Gesù che porta alla croce, c’è una sequela di Cristo che parte dalla resurrezione e porta alla comunione che “è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3). Ecco la vita cristiana nella sua sostanza.

Ed ecco perché Gesù si fa incontro ai suoi per farli rinascere a questa fede, che non è una serie di formule dogmatiche, di nozioni catechistiche o di norme morali, ma un concreto entrare in simbiosi con lui: ricevere, vivere e condividere la sua pace, dopo abbandoni, paure, rinnegamenti, tradimenti. Non solo, ma anche ricevere incredibilmente il mandato per il quale erano stati scelti, perché continuassero la sua opera nel mondo col soffio del suo Spirito. Quando qui si dice del perdono dei peccati, non pensiamo subito a confessionali e assoluzioni varie: si tratta di compiere la stessa opera di Gesù che toglie il peccato del mondo. Il fatto che si presenta a loro mostrando le mani e il costato di crocifisso è per far capire cosa richiede e come avviene questo togliere il peccato: col dono della propria vita, ma insieme come effetto del predicare il vangelo, facendo discepole le genti battezzandole. A questo unico scopo è dato ad essi potere di discernimento e di giudizio per la salvezza. A questa essenziale concezione di “apostolato” forse bisognerebbe tornare!

Ma nonostante avessero avuto la visione e il mandato di Gesù, i discepoli continuano ad avere paura dei Giudei e restano chiusi nel cenacolo, dove li trova Tommaso che non era con loro, ma sempre legato al gruppo, per quanto del tutto incredulo al loro racconto. Il fatto che egli fosse assente all’incontro col Signore, è come se rappresentasse tutti noi, per darci la misura della nostra capacità di credere senza vedere. Ed il fatto che Gesù per la seconda volta si presenti di nuovo a loro mostrando subito a Tommaso le sue ferite, sta a dirci tutta la sua vicinanza ai suoi, per far capire che egli rimane il Crocifisso-Risorto, e come tale vuole essere riconosciuto e accolto: così come è Verbo di Dio fatto uomo, è ora il crocifisso risorto! Forse noi scindiamo troppo le due cose!

Ed ecco allora Tommaso fare da apripista con la prima confessione di fede post-pasquale in assoluto, dopo che Giovanni aveva sì creduto ma in cuor suo al sepolcro, e dopo che i discepoli nel cenacolo si erano limitati a gioire nel vedere il Signore: confessione di fede essenziale ma piena, quella di Tommaso, dove il Signore della convivenza quotidiana del passato è ora anche il suo Dio: non astrattamente Signore e Dio, ma “mio Signore e mio Dio” Una fede totale che corrisponde alla intensità che il Caravaggio gli dipinge sul volto al momento di mettere il dito nel costato!

E qui c’à la storia di tutti noi se, pur non avendo visto, abbiamo creduto, al punto d’essere dichiarati felici per non aver chiesto segni e prove, ma di avere rinnovato tutto il nostro attaccamento e abbandono a Gesù  Risorto, divenuto ormai per noi “spirito datore di vita” (1Cor 15,45), come del resto aveva promesso ai suoi: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). Quindi si tratta di vederlo non con gli occhi, né solo con la mente, ma con tutta la propria vita e tutto se stessi, così come si può vedere e conoscere solo con l’amore. È questo il punto di arrivo di tutti i segni e anche di quanto è nelle Scritture, “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Alla base c’è questa “vita nel suo nome”: ed è questo che ci dovrebbe stare a cuore e diventare l’orizzonte del nostro modo di essere e di pensare!

Abbiamo della fede una concezione tanto variegata quanto fallace: intellettualistica o volontaristica, spiritualistica o intimistica, sentimentale o pragmatica, cultuale e rituale, mentre nella sostanza essa è amore vissuto e corrisposto: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). All’origine c’è ilPadre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti”, per cui dalla potenza di Dio siamo custoditi “mediante la fede”, “in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo”. Mentre sappiamo che Gesù stesso è “autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,2).

Non a caso si parla di virtù teologale: si va dalla grande misericordia alla salvezza come disegno e opera di amore. In questi giorni facciamo spesso ricorso alla fede in tutte le sue declinazioni, ma forse teniamo troppo poco conto che è il momento in cui viene saggiata e messa alla prove del fuoco, per vedere se è quel  tipo di fede che sia “a nostra lode quando Cristo si manifesterà”. Possiamo metterla come meglio ci torna, ma, come ci dimostra Tommaso, in primo luogo e in ultima analisi la fede è Cristo. In Ef 3,17 Paolo fa questo augurio ai cristiani di Efeso: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori”, mentre di se stesso dice; “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

La fede dunque è amore a Cristo, nella partecipazione alla sua morte e resurrezione. E se a Cesarea Pietro dichiara “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, al mare di Tiberiade, interpellato per tre volte da Gesù risponde: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo” (Gv 21,16). Certamente avrà pensato a questo momento quando scrive ai cristiani della diaspora, dicendo che solo perché lo amano senza averlo visto possono credere in lui senza vederlo. Inutile dire che dovrebbe essere questo il sentire comune dei cristiani!

 

E per questo possiamo ritenerci beati ed esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungiamo la mèta della loro fede: la salvezza delle anime, e cioè l’immedesimazione al Cristo Risorto come sua membra. Non è un caso che i battezzati e i credenti della prima generazione venissero indicati come coloro che amano Gesù Cristo (Ef 6,24). E quando Gesù dice ai suoi che saranno riconosciuti come suoi discepoli, se avranno amore gli uni per gli altri (cfr. Gv 13,35), non è che il riflesso dell’’amore che hanno per lui.

 

Quando nel brano degli Atti degli Apostoli viene presentata la comunità tipo di Gerusalemme possiamo rimanere affascinati e volerla copiare, ma c’è da stare attenti a non volerla riprodurre solo materialmente come modello di solidarietà e di fraternità, se alla radice non ritroviamo l’amore di Cristo che la genera e la rigenera. A fare comunità infatti sono “quelli che erano stati battezzati”, “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede” (At 4,32) ed “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli”. Bisogna cioè stare attenti a non edificare la chiesa su basi di un generico sentimento religioso ed umanitario, su esigenze psicologiche o sociologiche, su eredità culturali di cristianità storica: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,1). E questa differenza non può non emergere.

 

Nei giorni in cui non è possibile frequentare insieme il tempio, se il fondamento del nostro essere chiesa fosse veramente l’amore di Cristo da cui farsi ispirare (cfr. 2Cor 5,14), forse saremmo meno preoccupati per le chiese chiuse e più preparati a spezzare il pane nelle case, “prendendo cibo con letizia e semplicità di cuore”. E forse avremmo modo di mostrare al mondo cosa vuol dire essere chiesa anche senza le chiese: uomini e donne di fede! (ABS)


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